Teatro fra arte e dibattito

Intervista ad Adriano Iurissevich

Adriano Iurissevich

A conclusione dell’intensa settimana di Teatro in tempo di crisi – che, fra incontri e tavole rotonde, spettacoli e reading, si è composta di molteplici attraversamenti della drammaturgia contemporanea italiana e internazionale – abbiamo incontrato Adriano Iurissevich, ideatore e direttore dell’iniziativa. In quest’intervista, alcuni nodi emersi dalle giornate di dibattito e di spettacolo – oltre che una nota sullo pièce che ha chiuso la rassegna, Il ragazzo dell’ultimo banco di Juan Mayorga, diretto da Iurissevich, che è anche interprete in scena.

“Teatro in tempo di crisi”: in questi giorni di dibattito e di spettacolo sono emersi numerosissimi spunti, provenienti dalle più varie prospettive… Volevamo chiederle quali sono – se ci sono stati – gli elementi che l’hanno sorpresa, in risposta a questo tema…
Uno dei momenti più sorprendenti è stato ieri mattina, quando si sono incontrati sul palco del Teatro “Giovanni Poli”, vari esponenti della produzione e della distribuzione – veneti, ma c’erano anche un rappresentante friulano, Alberto Bevilacqua del CSS, e Fabio Mangolini, Presidente del Teatro Comunale di Ferrara. Si sono riusciti a dire delle cose anche dure, sicuramente importanti. La sensazione è che sia stata un’occasione di franchezza e di onestà, un momento di reale contatto, con la volontà di cambiare delle cose, di collaborare veramente, di uscire da certi “cortili chiusi”, dalle solite situazioni di “sguardo attraverso” e di incapacità di comunicare.
Per quanto riguarda la crisi del teatro, molto spesso si rimanda alla responsabilità centrale, ma ci dev’essere anche qualcos’altro: tante volte – l’ha detto Mangolini – manca il coraggio. Ho avuto la sensazione che si sia creata l’occasione di una spinta. Se da questo poi nascerà qualcosa, non lo so, ma il linguaggio franco usato da loro mi ha sorpreso.
Sono felice di com’è andata questa iniziativa. Dopo una partenza un po’ in sordina, con presenze limitate, il pubblico è aumentato. La qualità degli spettacoli era estremamente alta, così come quella degli interventi scientifici, davvero di livello – in particolare la prima mattina, Roberto Tessari e Gerardo Guccini ci hanno toccato con l’acume di certe osservazioni e idee, che sono rimaste nell’aria per lungo tempo, durante tutto il convegno. Poi c’è stata la partecipazione dei ragazzi dell’Accademia Teatrale Veneta, che ieri hanno messo in scena – con una lettura, ma era uno spettacolo in realtà – I Figuranti di José Sanchis Sinisterra, un testo straordinario, uno dei tanti che varrebbe la pena far conoscere. È stata un’esperienza bella per loro e per tutto il pubblico presente. E poi c’era Sinisterra, questo maestro assoluto europeo, caposcuola della nuova drammaturgia spagnola: averlo con noi è sempre un onore.
L’essenza di molti convegni, poi, non si trova soltanto nelle conferenze e nei dibattiti, ma anche in qualcosa che “accade intorno”. Qui si sono conosciute o reincontrate persone che non si vedevano da tempo, dal cui incontro nasceranno nuove cose. Sono già al corrente di alcuni contatti che si sono stabiliti in funzione di progetti futuri. E già servissero a questo, i convegni… Benvenuti!
Organizzare un convegno non è cosa semplice, e a volte – bisogna dirlo – risulta inutile. In questo caso – anche se non dovrei essere io a dirlo – sono sicuro che sia stato sensato, creativo e, oltre tutto, divertente.

 

Protagonista di questi giorni anche la nuova drammaturgia: quali sono, secondo lei, le continuità più evidenti e i punti di rottura fra scrittura italiana contemporanea e le esperienze internazionali?
Confesso che non mi ritengo un particolare esperto di drammaturgia contemporanea. Ne sento la necessità, ne vedo la poca diffusione, il poco amore o la scarsa comprensione che ha l’istituzione teatrale nei confronti della necessità di nuovi testi.
Il teatro si fa per l’oggi, per parlare oggi al pubblico. Ciò si può fare anche con un testo classico, perché molto spesso, essendo eterno e atemporale, va benissimo. Però va notato che quando quei testi sono stati scritti, erano contemporanei alla loro epoca. Non vanno dimenticati, ma sicuramente una scrittura contemporanea sarà molto probabilmente più attinente all’oggi, anche se non è un assioma o una legge.
Si aiuta poco la scrittura contemporanea, soprattutto in Italia; si fa molto di più in altri Paesi, fra cui la Spagna. Non a caso mi sono avvicinato alla drammaturgia contemporanea grazie all’incontro casuale, quindici anni fa, con maestri come Sinisterra e Mayorga. Prima facevo teatro classico e Commedia dell’Arte, che ancora amo e ancora faccio.
Il mio interesse – e questo mi sembra molto meno presente nella drammaturgia italiana – si trova nel modo in cui questi autori riescono straordinariamente a combinare la forza, la pregnanza, l’acume di analisi anche sociali, per così dire, con la teatralità, un grande amore per i meccanismi del teatro e la capacità di ricerca formale e di linguaggio. Si tratta di riuscire a fare arte – ossia la capacità di riuscire a giocare con i linguaggi, e trasformarli – e, allo stesso tempo, dire delle cose importanti.

 

Quali sono le difficoltà di affrontare un testo di Juan Mayorga, come Il ragazzo dell’ultimo banco, in qualità di regista e come interprete?
Questo testo, emblematico del linguaggio di Mayorga, è multiforme, poli-strato, in senso tematico e strutturale. Nello stesso testo succede di tutto, è estremamente aperto ed interpretabile in tanti modi. Contemporaneamente ci sono ricerca formale e argomenti di rilevanza sociale. È una materia frammentata, che non ha una progressione unica, la cui trama non ha uno sviluppo classico. E non ha la divisione in scene, non solo nella scrittura, ma anche nella dimensione del palcoscenico. La difficoltà sta nel come risolvere questa frammentarietà e proporla in modo tale che il pubblico possa avere una ricezione dello spettacolo in forma unitaria.
Come si risolve questo? Con la fluidità, con il ritmo, con la tensione scenica. Senza poi forzare un’interpretazione, perché il fascino di questo suo tipo di testi è che non è un lavoro “a tesi”: si dicono tante cose ed è compito del pubblico scegliere, interpretare, capire. Questo va rispettato: sono testi che vanno lasciati il più possibile aperti, senza che però il pubblico si perda. Ciò significa che occorre dare delle chiavi di lettura, senza però stabilire quale sia quella “esatta”. È complessità che rischia di diventare confusione se non si accompagna ed orienta in qualche modo il pubblico. Ma non bisogna fare le scelte al posto suo.


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