Squarci su una ricerca. Intervista a inQuanto teatro

Caffé dei Libri - Intervista a inQuanto teatro

Caffé dei Libri, uno degli angoli più belli e tranquilli di una Bassano in fermento (il sabato pomeriggio delle passeggiate, il boom di Infart e la conclusione di B.Motion), a pochi passi dal fiume e dalla folla che sembra invadere la città. Qui, l’appuntamento con inQuanto teatro, giovane compagnia formatasi l’anno scorso nei pressi di OperaEstate (complice il progetto dell’Attore Performativo) e reduce dalle finali del Premio Scenario con Nil Admirari (che le è valso una menzione speciale da parte della giuria). I suoi componenti sono di nuovo a Bassano certo per presentare proprio quei venti minuti di studio, ma anche per una residenza in cui stanno sviluppando ulteriormente quello stesso lavoro: hanno accompagnato la nostra permanenza fin dal primo giorno, dalle colazioni assonnate alle serate interminabili, dalle chiacchiere pomeridiane in qualche pausa nel giardino di Palazzo Bonaguro alle discussioni più intense su quello che si è visto ogni sera in scena.

Floor Robert, Giacomo Bogani e Andrea Falcone (il quarto, Matteo Balbo, non è potuto esserci) ci aspettano al tavolino più appartato del caffè. Arriviamo un po’ in ritardo, di corsa, facendoci spazio sul Ponte fra raggruppamenti di personaggi molto molto urban-street e assembramenti di alpini in visita. Siamo qui per parlare di teatro e di ricerca, di com’è nato Nil Admirari e, soprattutto, di come sta crescendo.

 

Simone Nebbia: Come prima cosa volevamo chiedervi com’è iniziato tutto, quando avete capito che il progetto era nato?
Andrea Falcone:
Accade come un colpo di fortuna, te ne accorgi a cose fatte: un blocco di ghiaccio che prima era acqua… è successo qualcosa di eclatante, ma non sapresti dire quando… Si può dire che il lavoro che sperimentiamo sia quasi combinatorio: come nella chimica, la reazione può andare ben al di là delle aspettative, di quello che ognuno di noi singolarmente ha portato al gruppo.
In questi giorni questa domanda ci è stata posta più volte. E ci ha messo un po’ in difficoltà, perché non abbiamo iniziato – e questo non è un caso: ci rispecchia molto – da un pensiero, ma da un’immagine che ci parlava. Questo in qualche modo è quello che facciamo anche per costruire le scene: condividiamo un’immagine di cui non abbiamo una spiegazione e di cui non vogliamo dare una narrazione, ma cerchiamo di ricrearla, di farla vivere, di esplorarla. E di mantenere intatto quanto più possibile il senso dell’equivoco e di instabilità…
F.R.: …di fragilità e di umanità…
A.F.: Questa è la nostra idea di storia, di passato, di realtà che portiamo in Nil Admirari: l’atto di ricordare è qualcosa che si fa aggiungendo pezzi e reinventando qualcosa, piuttosto che rimanendo fedeli a una realtà.  Questo è il nostro modo di costruire queste scene ed è il modo che stiamo esplorando anche qui a Bassano, perché il frammento scenico che abbiamo portato è esito di una ricerca, ma non ne era l’obiettivo: Nil Admirari non è uno spettacolo, ma piuttosto lo specchio di quello che stiamo elaborando e lavorando.

Roberta Ferraresi: Ci volete svelare qual è questa immagine?
A.F.:
“C’è una stanza vuota…” – addirittura nei primi cinque minuti di lavoro che abbiamo presentato al Premio Scenario, iniziavamo dicendola, descrivendola…
F.R.: Ma nel processo di creazione, poi, questo pezzo è stato eliminato. È uno scarto importante quando, lavorando a un progetto, apparentemente si perdono gli elementi forti; ma per te rimangono e così possono diventare altro.
A.F.: Comunque si tratta di una fotografia di Robert e Shana Parkeharrison: è un interno completamente ricolmo d’acqua in cui affiorano oggetti o parti di oggetti con una calma innaturale.
G.B.: È una fotografia che non cattura il frammento o il momento, ma dà l’impressione dell’attesa, che ci sia qualcosa che è successo, che sta lì e galleggia…
F.R.: Qualcosa di catastrofico è successo, e da lì partiamo, senza però ricordare il passato… Come aprire un libro a metà e cominciare a leggerlo da lì, che è la situazione in cui ci troviamo, quello che siamo.
A.F.: Fantasticando su questa immagine di allagamento abbiamo iniziato a cercare dei materiali che ci permettessero di ricrearla, tra cui il tappeto specchiante che ancora usiamo. E poi, via via, ci siamo accorti che stavamo facendo vivere quell’immagine senza bisogno di realizzarla. Ad esempio, la presenza della finestra si è trasformata in una specie di schermo (che, invece di aprire, blocca l’orizzonte, riflettendo la nostra ombra e i nostri movimenti) e l’idea di una superficie permeabile in cui gli oggetti affiorano è mutata in un pavimento che, coprendo il palcoscenico, lo trancia…

S.N.: Parlando del vostro lavoro tornano spesso idee legate alla storia, ai ricordi, alla memoria… Cosa v’ha fatto il passato?
F.R.:
Il passato è una cosa che ci dice molto…
A.F.: Il nostro passato è molto presente. Sovvertendo la celebre sentenza sartriana “Io sono il mio passato”: noi non siamo il nostro passato, perché a livello collettivo è qualcosa di impersonale e a ben vedere fasullo, che viene inventato volta per volta. A livello culturale, godiamo della vita in città d’arte meravigliose, come Firenze o Bassano; e vediamo che gli spazi per il passato aumentano, vengono nuovamente inventati, vengono scoperti quartieri medievali, mesi medicei quando anche di Medici non ce n’è più traccia… Dante a Firenze ha tre o quattro case, noi in tre o quattro non ne abbiamo una. Questo intendiamo per passato: una creatura che viene creata ed è accanto a noi, con cui abbiamo a che fare. Questa operazione di affastellare, di comporre questa specie di mostro – da qui il titolo del nostro secondo pezzo, Monstrum – ci diverte ed è quello che anche noi vogliamo fare in scena.
F.R.: Ed è quello che stiamo facendo in questi giorni qui a Bassano. Stiamo prendendo questo passato e lo stiamo facendo diventare una cosa che chiamiamo Monstrum, qualcosa di incredibilmente lontano da noi, di diverso, di vivo… che ci spaventa.
A.F.: L’anacronismo, l’avvicinamento, la moltiplicazione…
G.B.: Il passato che diventa una replica, una copia…

R.F.: E invece dove state cercando di andare?
F.R.:
Ora siamo arrivati a parlare di Monstrum...
A.F.: …che è il nostro secondo frammento…
R.F.: Quindi Nil Admirari non è il nome del progetto, ma del primo frammento?

A.F.: Abbiamo deciso che Nil Admirari è sia il progetto che il primo studio, anche perché è un frammento che contiene un po’ tutti i nodi sui quali vogliamo lavorare: c’è una realtà di noi, quattro giovani, che si preparano per il loro presente, lo aspettano, e invece vengono sopraffatti da oggetti e storie del passato… anzi, vere e proprie scorie, che non sanno come gestire. E alla fine scompaiono, lasciando solo questo agglomerato di oggetti ed effetti che rimangono con lo spettatore.
Poi abbiamo deciso, più per il lavoro che vogliamo fare che con un’idea di marketing, di presentare in altre due tappe degli elementi separati: in uno, Monstrum,  c’è l’apparizione di un passato inventato e ingombrante, con tutte le sue manifestazioni di anacronismo, di sincronia, di stranezza; e nell’altro, Tabula rasa, rimaniamo soli con la nostra realtà di vuoto, di ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una concretezza che – mancando queste illusioni, queste chiacchiere del passato, questi elettrodomestici, questi sogni che riempiono invece gli altri due studi – vogliamo scoprire dove può portare.
G.B.: E poi ci siamo tenuti sempre, con questa tipologia del frammento, la possibilità di ricombinarli: sappiamo bene che Monstrum arriva a un certo momento di Nil Admirari, del primo frammento…
F.R.: Bisogna esaurire delle idee, così poi possiamo farne a meno. Questo è il metodo di creazione. La possibilità di poter presentare i due studi slegati ci dà l’opportunità di mettere in campo delle cose e vedere se funzionano, sperimentare e scoprire, tenere o lasciare…
A.F.: E in una combinatoria finale presenteremo – non si sa ancora dove e quando – Nil Admirari completo.

R.F.: Ma se il processo di lavoro è collettivo, siete tutti in scena, com’è possibile mantenere uno sguardo sull’andamento del lavoro?
F.R.:
È successo che qualcuno venga a vederci, ma già quando siamo a un livello da farci vedere.  Chiaramente abbiamo la videocamera…
G.B.: Che usiamo però poco… E anche qui, solo quando abbiamo già tante cose montate.
F.R.: Quando abbiamo cose che secondo noi funzionano già. Abbiamo comunque dei momenti in cui uno si può tirare fuori e osservare l’altro e dire, digerire… Ah, scusate: dirigere. E questa comunque è una forma ancora un po’ caotica…
A.F.: …da perfezionare.
G.B.: La cosa importante da dire è che ci piace confrontarci.
A.F.: Infatti, abbiamo diverse cose in mente per migliorare e perfezionare questa forma di lavoro collettivo da sottoporre a un pensiero o a una “digestione” esterna. Una che ci piacerebbe molto e che abbiamo vorremmo inziare a provare è quella di intraprendere delle collaborazioni anche brevi in cui enti o gruppi teatrali ci offrono non solo lo spazio ma anche uno sguardo. Perché è molto interessante un contatto tra le compagnie nel momento in cui stai lavorando in modo completamente aperto, anche fragile…
F.R.: È una cosa che manca un po’ nell’ambito teatrale, mentre nella danza c’è.
A.F.: Ci sono molti gruppi, anche che sono stati qui, con cui ci piacerebbe avere questo tipo di scambio e di contatto. Ora cominceremo con Kinkaleri, che è un gruppo che ha una storia e…
F.R.: …una cifra estetica che…
G.B.: …che sentiamo abbastanza vicina…
F.R.: Come l’interesse verso i materiali, che per noi ha un ruolo molto importante: la plastica, questo grigio molto presente…
A.F.: E poi l’agire in scena una partitura visiva degli oggetti, in cui c’è una drammaturgia fra un oggetto e l’altro e un percorso visivo, una specie di mappa…
F.R.: Le tracce che vengono lasciate…
A.F.: E, a pensarci bene, è questa l’opportunità di OperaEstate: uno spazio che quasi naturalmente, senza neanche che l’avessimo pensato, offre la possibilità di uno scambio abbastanza continuo fra artisti: quest’anno Chiara Bersani e Sara Vilardo, qui con un primo studio, è bello poterci parlare… O con il gruppo foscarini:nardin:d’agostin…

Roberta Ferraresi / Simone Nebbia

Andrea Falcone: Accade così, come un colpo di fortuna, te ne accorgi così, a cose fatte: un blocco di ghiaccio che prima era acqua… è successo qualcosa di eclatante, ma non sapresti dire quando… E noi siccome è molto che parliamo tra di noi, ci incrociamo – non tutti assieme: due a due, tre, quattro – e di conseguenza quando alla fine arriviamo tutti e 4 sulla stessa idea c’è stato un lavoro lungo prima di arrivare a quel punto. Anche perché questo ha influenzato il nostro modo nostro di lavorare, che è sì in scena un collettivo, quindi ognuno si mette in gioco e cerca di proporre agli altri qualcosa su cui incontrarsi, delle sfide… Ma queste sfide che ci lanciamo sono già articolate quando arriviamo alla scena, perché ci arriviamo dopo un lungo periodo in cui ognuno di noi pensa, parla, ricerca… Alla fine il lavoro che facciamo è quasi combinatorio… Come nella chimica, la reazione può andare ben al di là delle aspettative, di quello che ognuno di noi singolarmente si era portato
Giacomo Bogani: Diciamo che di solito le idee che portiamo sono grandiose, sono enormi. Le presentiamo in sala e lì ci guardiamo negli occhi spesso e viene subito il no.
Floor Robert: E questo è un modo in cui lavoriamo spesso molto volentieri. Però poi si presenta anche quello invece dell’improvvisazione, che lì per lì in sala non si sa perché, che siamo magari stanchissimi o anche nel cazzeggio… però lì viene a galla qualcosa che ci convince tutti moltissimo
A.F.: Da momenti anche ludici, ma di ludismo scelto e consapevole, tante cose poi si sono unite a un’idea più pensata

 

Simone Nebbia: Quindi lo spazio scenico è giudice, nel bene o nel male: accoglie o respinge…
A.F.: Sì, noi arriviamo come supplicanti con carovane di cose sulla scena – che per lungo tempo è stata una stanzetta privata, poi una palestra di Rifredi…
F.R: Siamo stati al Garage Nardini che non era male
G.B.: Al Teatro Astra
F.R.: E ora andremo Prato che è un po’ più vicino
A.F.: Per rimanere ancora sui nostri punti di partenza, che è una cosa che in questi giorni ci è stata chiesta più volte e che ci mette quasi in difficoltà, perché non abbiamo iniziato – e questo non è un caso: ci rispecchia molto – da un pensiero, ma da un’immagine di cui non avevamo idea ma che ci parlava. E questo in qualche modo è quello che facciamo anche in scena per costruire le scene: condividiamo un’immagine di cui non abbiamo una spiegazione e di cui non vogliamo dare una narrazione, ma cerchiamo di ricrearla, di farla vivere, di esplorarla. E di mantenere intatto quanto più possibile il senso dell’equivoco e di instabilità…
F.R.: Di fragilità e di umanità…
A.F.: E questa è la nostra idea di storia, di passato, di realtà che portiamo in Nil Admirari:  l’atto di ricordare è qualcosa che si fa aggiungendo pezzi e reinventando qualcosa, piuttosto che essendo fedeli a una realtà.  Questo è il nostro modo di costruire queste scene in scena; ed è il modo che stiamo esplorando anche qui a Bassano, perché il frammento scenico che abbiamo portato è esito di una ricerca ma non era il suo obiettivo: non è uno spettacolo, ma piuttosto lo specchio  di quello che stiamo elaborando e lavorando.

S. N.: Un po’ una messa in campo di elementi su cui volete lavorare. Quello che percepivo come impronta collettiva di alcune esperienze di questi giorni e anche nel vostro caso è di una macchinazione drammaturgica un po’ farraginosa di costruzione. Anche perché non vi credevo completamente: avevo l’impressione che dobbiate diventare ineccepibili tecnicamente…
A.F.: Questo è un fatto difficile da affrontare, perché quello che ci interessa è mantenere un senso straniante…
F.R.: E forse è quello che non vogliamo
A.F: Però dobbiamo essere certi nel non volerlo: c’è una tecnica, un’abilità che dobbiamo maturare. Però il fatto di stare ricercando una qualità che ci permetta di non ignorare l’equivoco, anzi, di accompagnarlo verso lo spettatore. È quello che facciamo portando in scena oggetti ingombranti, anacronistici rispetto a quello che diciamo; utopie che sono storie esagerate, anche quelle in qualche modo ingombranti… non fingendo neanche noi che sia tutto naturale e scontato, perché è una chiave di lettura che cerchiamo di maturare rispetto alla realtà che ci circonda, che è piena di cose che sembrano le più naturali del mondo ma non lo sono.
F.R.: Anche semplicemente osservarlo: metterlo lì e poi osservarlo
A.F.: E forse questo richiede ancora più tecnica di quella che ci vorrebbe a fare una cosa in modo perfetto. Quindi, sì, ci vuole parecchio lavoro.

R.F.: Un passo indietro, ci volete svelare qual è l’immagine…
A.F.: Addirittura nei cinque minuti iniziavamo dicendola a grandi line: “c’è una stanza vuota…”
F.R.: Ma nella creazione poi è anche bello quando perdi gli elementi forti ma per te rimane e diventa altro
A.F.: È una fotografia di un interno completamente ricolmo d’acqua in cui affiorano oggetti o parti di oggetti, con una calma innaturale. Addirittura ci siamo ispirati ad un’immagine in cui si intravvede anche qualcosa di umano, un corpo, ma ha una consistenza che non sembra più umano. E da questa immagine…
G.B.: Una fotografia con un senso: non cattura il frammento, il momento, ma dà l’impressione dell’attesa, che ci sia qualcosa che è successo, che sta lì che galleggia
A.F.: La fotografia è ferma, ma rappresenta una realtà che è anch’essa ferma…
F.R.: Qualcosa di catastrofico è successo, e da lì partiamo, senza però ricordare il passato… Come aprire un libro a metà e partire da lì, che è come noi siamo. Noi che veniamo da un passato, da Firenze, dai ricordi, da un desiderio di volersi identificare con il tempo di ora, ma ci si accorge che magari non gli basta, non gli piace…
A.F.: Fantasticando da questa immagine di allagamento abbiamo iniziato a conoscere dei materiali che ci permettessero di farlo, tra cui il tappeto specchiante che ancora usiamo. E poi via via lavorando ci siamo accorti che questa immagine la stavamo facendo vivere senza bisogno di realizzarla. Quindi il fatto che ci fosse una finestra è ritornato con una specie di schermo che invece di aprire, ci blocca l’orizzonte riflette la nostra ombra e noi stessi quando ci muoviamo. L’idea di una superficie permeabile in cui gli oggetti affiorano è cambiata con questa superficie che trancia, che copre il palcoscenico, che sembra forse un liquido in cui forse si può entrare ma che noi continuiamo ad attraversare.

 

S.N.: Cosa v’ha fatto il passato?
F.R.: Il passato è una cosa che ci dice molto…
A.F.: È molto presente. Sovvertendo la sentenza conosciuta “Io sono il mio passato”, che era Sartre: noi non siamo il nostro passato, perché a livello collettivo è qualcosa di impersonale e a ben vedere fasullo, che viene inventato nel momento in cui ci siamo. A livello culturale, noi che  godiamo della vita in città d’arte meravigliose, anche Bassano, viviamo di questo.  (portano il caffè)
Vediamo che gli spazi per il passato aumentano, vengono nuovamente inventati, vengono scoperti quartieri medievali dove ormai non ce n’è più traccia, mesi medicei quando anche di Medici non ce n’è più traccia… Dante a Firenze ha tre o quattro case, noi in tre o quattro non ne abbiamo una. Questo intendiamo per passato: una creatura che viene creata ed è accanto a noi, con cui abbiamo a che fare. Questa operazione di affastellare, di comporre questa specie di mostro – da qui il titolo del nostro secondo pezzo, Monstrum – ci diverte ed è quello che anche noi vogliamo fare in scena.
F.R.: Ed è quello che stiamo facendo in questi giorni qui a Bassano. Stiamo prendendo questo passato e lo stiamo facendo diventare una cosa che chiamiamo Monstrum, qualcosa di incredibilmente lontano da noi, di diverso, di vivo… però ci spaventa.
A.F.: L’anacronismo, l’avvicinamento, la moltiplicazione…
G.B.: Il passato che diventa una replica, una copia…
A.F.: Aver parlato con Claudio Angelini di Città di Ebla ci ha molto aiutato perché erano argomenti su cui stavamo pensando e sentirli espressi così bene ci ha permesso di riformulare alcune cose.
F.R.: Si diceva che il passato era parte attiva
A.F.: Sì, Mauro Petruzziello diceva che il ricordo è qualcosa che incombe e minaccia e cambia la realtà. Questo è anche per noi; mentre nel lavoro di Città di Ebla c’era una fotografia che bloccava una realtà in corso nello stesso momento in cui la realtà c’era e costituiva una sorta di doppio mostruoso della realtà stessa, perché era qualcosa di immobile. Era una specie di presenza che rendeva la cosa inquietante. Cerchiamo di indagare con Monstrum questa possibilità di sdoppiarci e di avere una memoria fittizia di noi con cui avere un conflitto.

R.F.: Modo di lavorare, quello che fate…
G.B.: Decidiamo giorno per giorno come lavoriamo, anche rispetto a come ci sentiamo.
F.R.: Lavoriamo insieme da un anno e possiamo dire che ora finalmente stiamo capendo un po’ com’è fatto l’altro e come fare per lavorare con l’altro. Ci siamo spaventati molto, ci siamo agitati tanto e così ci siamo anche dati dei limiti.
A.F.: In realtà ci diamo un tempo e uno spazio per lavorare su delle cose che però non sono spesso discorsi o idee. Ma molto spesso oggetti o esercizi anche meccanici che sono alla base di una improvvisazione o di una sperimentazione. Ad esempio ieri abbiamo avuto questa enorme gonna di vinile e abbiamo iniziato a lavorarci, creando delle figure mostruose, multiple… E da lì è iniziato un lavoro sul testo e sulla voce…
F.R.: …che Andrea aveva preparato. Perché c’è sempre la preparazione del testo.
G.B.: Andrea fa una ricerca sul testo, su delle cose che possono entrare…
F.R.: …che vengono introdotte, vengono lette insieme, vengono capite fino a un certo punto e poi nella prova – dove può esserci l’elemento della gonna o dello sparavento, che stiamo semplicemente esplorando… E poi scopri che sopra questo ci può anche entrare il testo. Capiamo come…
G.B.: Un testo che è già stato pensato e scritto in una forma da Andrea.
A.F.: Con i testi abbiamo per ora questa modalità, che credo poi cambierà ed è già cambiata: li usiamo come risorsa, io li preparo solo di riferimento, di ispirazione… A volte sono brevi biografie, descrizioni per avvicinarci alle immagini o all’argomento che vogliamo lavorare. O a volte diventano poi parte dello spettacolo. Dipende da quello che succede nella combinazione.

R.F.: In che modo è cambiata?
A.F.: Quello che abbiamo deciso di richiedere al mio lavoro è più di scrivere apposta per una scena, cioè dei testi che già da soli portano l’elemento centrale, il perno di una scena, perché sono testi da dire al pubblico, come ce ne sono stati tanti esempi in questo B.Motion… Un testo di Babilonia Teatri, un testo di…
F.R.:
Luca Scarlini!
G.B.: Come mai hai detto Luca Scarlini?
F.R.: Perché mi stavo ricordando anche che a volte entra anche nella nostra giornata di prove degli esercizi che abbiamo appreso da altri. Ed è super utile, perché così il gruppo lavora su un ascolto maggiore, su una consapevolezza maggiore dell’altro e di se stesso.
G.B.: Ci sono dei giorni che lavoriamo molto su cose fisiche
F.R.: E altri che ci concentriamo sulla voce
G.B.: e sull’ascolto. Anche senza dirci niente: qualcuno di noi comincia a cantare e andiamo avanti così. Ad esempio la canzone che c’è in scena è nata così… Anche se lì in verità eravamo in macchina… abbiamo cominciato a cantare e non ci siamo fermati per quattro ore.
A.F.: La macchina è un luogo creativo molto importante…
G.B.: Per eccellenza
F.R.: Perché facciamo molte residenze lontane…
A.F.: E andiamo a vedere tanti spettacoli… È uno di quei momenti che ci costringe a stare insieme, concentrati a sopportarci completamente per 3 o 4 ore. E quindi si deve per passare il tempo parlare, affrontare le idee, confrontarci… Magari dopo un mese che ognuno ha degli impegni paralleli che l’hanno distratto, distolto o portato lontano.

 

R.F.: E invece dove state cercando di andare?
F.R.: Vogliamo fare uno spettacolo di due ore…
G.B.: Due ore no, però più di un’ora di sicuro: vogliamo un pochino sovvertire o un po’ cambiare questa cosa che c’è, che sono sempre tutti piccoli spettacoli, 50 minuti – 45… Ci piace anche la possibilità che a teatro le persone possano stare lì, anche un po’ annoiarsi
F.R.: Secondo me uno spettacolo è bello…
A.F.: …quando ha una vita…
F.R.: Sì, quando mi dà la possibilità di potermi staccare…

R.F.: È una qualità del tempo, un trattamento, più che una durata…
A.F.: Sì, una qualità che nella lunga durata è più facile o più giusto realizzare a pieno. Comunque la varietà, la qualità, la sovrapposizione, il tempo del tempo sono nodi che ci interessano molto, sia come tema che come caratteristica del linguaggio.

F.R.: Ora siamo arrivati a parlare di Monstrum...
A.F.: …che è il nostro secondo frammento…

R.F.: Quindi Nil Admirari non è il nome del progetto, ma del primo frammento?
G.B.: Nil Admirari è il nome del progetto…
F.R.: …che abbiamo dovuto presentare a Scenario in 20 minuti…
A.F.: Abbiamo deciso che Nil Admirari è sia il progetto che il primo frammento. Anche perché è un frammento che contiene un po’ tutti i nodi sui quali vogliamo lavorare. C’è una realtà di noi, noi 4, giovani che aspettano e si preparano per il loro presente e invece ripescano, vengono sopraffatti da oggetti e storie del passato… Anzi vere e proprie scorie che non sanno come gestire e alla fine scompaiono lasciando solo questo agglomerato di cose ed effetti che rimangono con lo spettatore. Poi abbiamo deciso, più per il lavoro che vogliamo fare che con un’idea di marketing, di presentare in altre due tappe gli elementi separati: in uno, Monstrum,  l’apparizione di questo passato inventato e ingombrante, con tutte le sue manifestazioni di anacronismo, di sincronia, di stranezza; e nell’altro, Tabula rasa, rimanere soli con la nostra realtà di vuoto, di ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una concretezza che mancando queste illusioni, queste chiacchiere del passato, questi elettrodomestici, questi sogni che riempiono invece gli altri due studi, vogliamo scoprire dove può portare. Abbiamo già alcune idee ma va lavorato bene in una residenza ad hoc futura. Perché se per Monstrum abbiamo già fissato sia i giorni di lavoro (che sono già iniziati qui a OperaEstate e poi continueranno allo Spazio K agli Ex Macelli a Prato) sia il momento d’apertura, che sarà durante Contemporanea di Prato e Fermenti di Parma; per Tabula rasa abbiamo il progetto aperto, ma non abbiamo ancora stabilito…
G.B.: E poi ci siamo tenuti sempre, con questa tipologia del frammento, la possibilità di ricombinarli: sappiamo bene che Monstrum arriva a un certo momento di Nil Admirari, del primo frammento…
F.R.: Bisogna esaurire delle idee, così poi possiamo farne a meno. Questo è il metodo di creazione. Avendo la possibilità di poter presentare i due studi slegati ci dà l’opportunità di mettere in campo delle cose e vedere se funzionano, sperimentare e scoprire, tenere o lasciare…
A.F.: E in una combinatoria finale presenteremo, non si sa ancora dove e quando Nil Admirari completo.

R.F.: Voi dite mettiamo dfei mateirali e vediamo se funzionano; ma siete tutti in scena. Come si fa? Invitare qualcuno a vedere le prove?
F.R.: È successo che qualcuno venga a vederci, ma già quando siamo a un livello da farci vedere.  Chiaramente abbiamo la videocamera…
G.B.: Che usiamo però poco… Solo quando abbiamo già tante cose montate.
F.R.: Quando abbiamo cose che secondo noi funzionano già. Abbiamo comunque dei momenti in cui uno si può tirare fuori e osservare l’altro e dire, digerire… Ah, scusate: dirigere. E questa comunque è una forma ancora un po’ caotica
A.F.: da perfezionare
G.B.: La cosa importante da dire è che ci piace confrontarci
A.F.: Infatti, in questa forma da perfezionare di lavoro collettivo da sottoporre a un pensiero o a una “digestione” esterna, abbiamo diverse cose in mente per migliorarlo. Una che ci piacerebbe molto e che abbiamo iniziato a mettere le condizioni per farlo è intraprendere delle collaborazioni anche brevi in cui enti o gruppi teatrali ci offrono non solo lo spazio ma anche uno sguardo. Perché è molto interessante un contatto tra le compagnie nel momento in cui stai lavorando in modo completamente aperto, anche fragile…
F.R.: È una cosa che manca un po’ nell’ambito teatrale, mentre nella danza c’è.
A.F.: Ci sono molti gruppi, anche che sono stati qui, con cui ci piacerebbe avere questo tipo di scambio e di contatto. Ora cominceremo con Kinkaleri, che è un gruppo che ha una storia e…
F.R.: …una cifra estetica che…
G.B.: …che sentiamo abbastanza vicina…
F.R.: Come l’interesse verso i materiali, che per noi ha un ruolo molto importante: la plastica, questo grigio molto presente…
A.F.: E poi l’agire in scena una partitura visiva degli oggetti, in cui c’è una drammaturgia fra un oggetto e l’altro e un percorso visivo, una specie di mappa…
F.R.: Le tracce che vengono lasciate…
A.F.: Questo ci piace molto, ma c’è anche in lavori di altri gruppi importanti, come Motus o Anagoor. E però OperaEstate questo offre: uno spazio quasi naturalmente, senza neanche che l’avessimo pensato, la possibilità di uno scambio abbastanza continuo e naturale fra artisti: quest’anno Chiara Bersani e Sara Vilardo, qui con un primo studio, è bello poterci parlare… O con il gruppo foscarini:nardin:d’agostin…
F.R.: …che abbiamo seguito dai loro cinque minuti a Vicenza…

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