Premio Scenario 2011

Debutto a Milano per Generazione Scenario 2011

Eccola la Generazione Scenario 2011 in forma compiuta: apparentemente sfavillante, dichiaratamente pop, irreversibilmente precaria, anche dal punto di vista esistenziale, insicura, spaventata, forse non abbastanza arrabbiata, rinchiusa in piccoli spazi, claustrofobici, asfissianti, alienanti.
Al Franco Parenti di Milano, il 7 e l’8 dicembre, sono stati presentati in prima nazionale e in forma finita, i quattro lavori premiati al Premio Scenario 2011 pronti a girare l’Italia con il marchio “Generazione Scenario”.

In una lunga e piacevole serata, dall’atmosfera vagamente di festival, con un pubblico sempre più numeroso e partecipe, formato in gran parte da operatori, sono state presentate le creazioni delle quattro giovani compagnie, premiate nel luglio scorso dalla giuria presieduta da Isabella Ragonese e composta da Silvia Bottiroli, Claudia Cannella, Stefano Cipiciani e Cristina Valenti.

Spic & Span foto di Adriano Boscato

La rassegna si apre con Spic & Span di foscarini:nardin:dagostin (Bassano del Grappa), segnalazione speciale Premio Scenario 2011. In scena su uno sfondo bianco, come in un fumetto pop, i tre danzatori, coloratissimi, belli, imperturbabili, si muovono con ritmo e precisione su canzonette Anni ’30, ritmi tribali ed elettronici. Sono falsi e futili, sanno di esserlo ed è proprio questa la loro forza. Figure sincroniche di grande forza evocativa, fredde e implacabili come la società che le alimenta. Un lavoro nato dal workshop Accademia Mobile di Emio Greco in cui Francesca Foscarini, Giorgia Nardin e Marco D’Agostin si sono incontrati e riuniti.

Linguaggio sincopato e l’illusione di essere cittadini in un mondo migliore sono al centro de L’Italia è il paese che amo di ReSpirale Teatro (Bologna), segnalazione speciale Premio Scenario 2011, riflessione sulla contemporaneità, dalla caduta del muro di Berlino al crollo delle torri gemelle. Tangentopoli e le soap opera, Ok il prezzo è giusto e il miracolo italiano, Notti magiche e la guerra in Libano in un lavoro che non manca di suggestioni e belle trovate, come la scena iniziale con il muro/trincea fatto di cuscini, ma ribadisce la difficoltà delle nuove generazioni di parlare di politica senza cadere nei luoghi comuni e nel “già visto”.

Proprio sui luoghi comuni, ma con dichiarato intento comico, si fonde lo spettacolo Due passi sono di Carullo-Minasi (Messina), vincitore Premio Scenario per Ustica 2011. Unico lavoro in cui a dominare è il dialogo e una forte teatralità essenziale e poetica, fatta di ripetizioni e semplici trovate sceniche, tra piccole manie e grandi insicurezze di una coppia “piccina”, lieve e delicata, specchio di una generazione rassegnata; fino al finale “happy end”, anche questo unico della Generazione Scenario 2011, forse un po’ ingenuo ma sicuramente sentito e per questa ragione assolutamente necessario.

Nessun finale consolatorio, ma un soffocante odore di vernice spray chiude invece la rassegna al Franco Parenti e lo spettacolo InFactory di Matteo Latino (Mattinata, FG), vincitore Premio Scenario 2011.

InFactory

Luci neon spersonalizzanti, cellophane e pellicola imballante, musica tecno e contenitori ermetici per esplorare e svelare, con spietatezza e lirismo, la generazione dei trentenni attraverso la metafora di due vitelli a “stabulazione fissa” prossimi al macello. Un lavoro in versi che comincia all’interno delle stalle dell’Agriturismo MonteSacro nel Gargano, una “in-stallazione” che si fonda su una narrazione a tratti, appartenente slegata, frontale e asciutta, come un flusso di coscienza. Il pubblico si appassiona, qualcuno, anche tra i più giovani, si infastidisce e li accusa di far retorica. La musica altissima e il forte impatto scenico diffondono nell’aria un’atmosfera di disfacimento. Fuori discussione che il lavoro di Matteo Latino, come quello dei precedenti vincitori del Premio Scenario, dai Babilonia Teatri a Teatro Sotterraneo, parli del presente, utilizzando una poetica e uno stile generazionale. Toccherà al pubblico decretarne il successo.

Visto al Teatro Franco Parenti, Milano

Maddalena Peluso

Squarci su una ricerca. Intervista a inQuanto teatro

Caffé dei Libri - Intervista a inQuanto teatro

Caffé dei Libri, uno degli angoli più belli e tranquilli di una Bassano in fermento (il sabato pomeriggio delle passeggiate, il boom di Infart e la conclusione di B.Motion), a pochi passi dal fiume e dalla folla che sembra invadere la città. Qui, l’appuntamento con inQuanto teatro, giovane compagnia formatasi l’anno scorso nei pressi di OperaEstate (complice il progetto dell’Attore Performativo) e reduce dalle finali del Premio Scenario con Nil Admirari (che le è valso una menzione speciale da parte della giuria). I suoi componenti sono di nuovo a Bassano certo per presentare proprio quei venti minuti di studio, ma anche per una residenza in cui stanno sviluppando ulteriormente quello stesso lavoro: hanno accompagnato la nostra permanenza fin dal primo giorno, dalle colazioni assonnate alle serate interminabili, dalle chiacchiere pomeridiane in qualche pausa nel giardino di Palazzo Bonaguro alle discussioni più intense su quello che si è visto ogni sera in scena.

Floor Robert, Giacomo Bogani e Andrea Falcone (il quarto, Matteo Balbo, non è potuto esserci) ci aspettano al tavolino più appartato del caffè. Arriviamo un po’ in ritardo, di corsa, facendoci spazio sul Ponte fra raggruppamenti di personaggi molto molto urban-street e assembramenti di alpini in visita. Siamo qui per parlare di teatro e di ricerca, di com’è nato Nil Admirari e, soprattutto, di come sta crescendo.

 

Simone Nebbia: Come prima cosa volevamo chiedervi com’è iniziato tutto, quando avete capito che il progetto era nato?
Andrea Falcone:
Accade come un colpo di fortuna, te ne accorgi a cose fatte: un blocco di ghiaccio che prima era acqua… è successo qualcosa di eclatante, ma non sapresti dire quando… Si può dire che il lavoro che sperimentiamo sia quasi combinatorio: come nella chimica, la reazione può andare ben al di là delle aspettative, di quello che ognuno di noi singolarmente ha portato al gruppo.
In questi giorni questa domanda ci è stata posta più volte. E ci ha messo un po’ in difficoltà, perché non abbiamo iniziato – e questo non è un caso: ci rispecchia molto – da un pensiero, ma da un’immagine che ci parlava. Questo in qualche modo è quello che facciamo anche per costruire le scene: condividiamo un’immagine di cui non abbiamo una spiegazione e di cui non vogliamo dare una narrazione, ma cerchiamo di ricrearla, di farla vivere, di esplorarla. E di mantenere intatto quanto più possibile il senso dell’equivoco e di instabilità…
F.R.: …di fragilità e di umanità…
A.F.: Questa è la nostra idea di storia, di passato, di realtà che portiamo in Nil Admirari: l’atto di ricordare è qualcosa che si fa aggiungendo pezzi e reinventando qualcosa, piuttosto che rimanendo fedeli a una realtà.  Questo è il nostro modo di costruire queste scene ed è il modo che stiamo esplorando anche qui a Bassano, perché il frammento scenico che abbiamo portato è esito di una ricerca, ma non ne era l’obiettivo: Nil Admirari non è uno spettacolo, ma piuttosto lo specchio di quello che stiamo elaborando e lavorando.

Roberta Ferraresi: Ci volete svelare qual è questa immagine?
A.F.:
“C’è una stanza vuota…” – addirittura nei primi cinque minuti di lavoro che abbiamo presentato al Premio Scenario, iniziavamo dicendola, descrivendola…
F.R.: Ma nel processo di creazione, poi, questo pezzo è stato eliminato. È uno scarto importante quando, lavorando a un progetto, apparentemente si perdono gli elementi forti; ma per te rimangono e così possono diventare altro.
A.F.: Comunque si tratta di una fotografia di Robert e Shana Parkeharrison: è un interno completamente ricolmo d’acqua in cui affiorano oggetti o parti di oggetti con una calma innaturale.
G.B.: È una fotografia che non cattura il frammento o il momento, ma dà l’impressione dell’attesa, che ci sia qualcosa che è successo, che sta lì e galleggia…
F.R.: Qualcosa di catastrofico è successo, e da lì partiamo, senza però ricordare il passato… Come aprire un libro a metà e cominciare a leggerlo da lì, che è la situazione in cui ci troviamo, quello che siamo.
A.F.: Fantasticando su questa immagine di allagamento abbiamo iniziato a cercare dei materiali che ci permettessero di ricrearla, tra cui il tappeto specchiante che ancora usiamo. E poi, via via, ci siamo accorti che stavamo facendo vivere quell’immagine senza bisogno di realizzarla. Ad esempio, la presenza della finestra si è trasformata in una specie di schermo (che, invece di aprire, blocca l’orizzonte, riflettendo la nostra ombra e i nostri movimenti) e l’idea di una superficie permeabile in cui gli oggetti affiorano è mutata in un pavimento che, coprendo il palcoscenico, lo trancia…

S.N.: Parlando del vostro lavoro tornano spesso idee legate alla storia, ai ricordi, alla memoria… Cosa v’ha fatto il passato?
F.R.:
Il passato è una cosa che ci dice molto…
A.F.: Il nostro passato è molto presente. Sovvertendo la celebre sentenza sartriana “Io sono il mio passato”: noi non siamo il nostro passato, perché a livello collettivo è qualcosa di impersonale e a ben vedere fasullo, che viene inventato volta per volta. A livello culturale, godiamo della vita in città d’arte meravigliose, come Firenze o Bassano; e vediamo che gli spazi per il passato aumentano, vengono nuovamente inventati, vengono scoperti quartieri medievali, mesi medicei quando anche di Medici non ce n’è più traccia… Dante a Firenze ha tre o quattro case, noi in tre o quattro non ne abbiamo una. Questo intendiamo per passato: una creatura che viene creata ed è accanto a noi, con cui abbiamo a che fare. Questa operazione di affastellare, di comporre questa specie di mostro – da qui il titolo del nostro secondo pezzo, Monstrum – ci diverte ed è quello che anche noi vogliamo fare in scena.
F.R.: Ed è quello che stiamo facendo in questi giorni qui a Bassano. Stiamo prendendo questo passato e lo stiamo facendo diventare una cosa che chiamiamo Monstrum, qualcosa di incredibilmente lontano da noi, di diverso, di vivo… che ci spaventa.
A.F.: L’anacronismo, l’avvicinamento, la moltiplicazione…
G.B.: Il passato che diventa una replica, una copia…

R.F.: E invece dove state cercando di andare?
F.R.:
Ora siamo arrivati a parlare di Monstrum...
A.F.: …che è il nostro secondo frammento…
R.F.: Quindi Nil Admirari non è il nome del progetto, ma del primo frammento?

A.F.: Abbiamo deciso che Nil Admirari è sia il progetto che il primo studio, anche perché è un frammento che contiene un po’ tutti i nodi sui quali vogliamo lavorare: c’è una realtà di noi, quattro giovani, che si preparano per il loro presente, lo aspettano, e invece vengono sopraffatti da oggetti e storie del passato… anzi, vere e proprie scorie, che non sanno come gestire. E alla fine scompaiono, lasciando solo questo agglomerato di oggetti ed effetti che rimangono con lo spettatore.
Poi abbiamo deciso, più per il lavoro che vogliamo fare che con un’idea di marketing, di presentare in altre due tappe degli elementi separati: in uno, Monstrum,  c’è l’apparizione di un passato inventato e ingombrante, con tutte le sue manifestazioni di anacronismo, di sincronia, di stranezza; e nell’altro, Tabula rasa, rimaniamo soli con la nostra realtà di vuoto, di ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una concretezza che – mancando queste illusioni, queste chiacchiere del passato, questi elettrodomestici, questi sogni che riempiono invece gli altri due studi – vogliamo scoprire dove può portare.
G.B.: E poi ci siamo tenuti sempre, con questa tipologia del frammento, la possibilità di ricombinarli: sappiamo bene che Monstrum arriva a un certo momento di Nil Admirari, del primo frammento…
F.R.: Bisogna esaurire delle idee, così poi possiamo farne a meno. Questo è il metodo di creazione. La possibilità di poter presentare i due studi slegati ci dà l’opportunità di mettere in campo delle cose e vedere se funzionano, sperimentare e scoprire, tenere o lasciare…
A.F.: E in una combinatoria finale presenteremo – non si sa ancora dove e quando – Nil Admirari completo.

R.F.: Ma se il processo di lavoro è collettivo, siete tutti in scena, com’è possibile mantenere uno sguardo sull’andamento del lavoro?
F.R.:
È successo che qualcuno venga a vederci, ma già quando siamo a un livello da farci vedere.  Chiaramente abbiamo la videocamera…
G.B.: Che usiamo però poco… E anche qui, solo quando abbiamo già tante cose montate.
F.R.: Quando abbiamo cose che secondo noi funzionano già. Abbiamo comunque dei momenti in cui uno si può tirare fuori e osservare l’altro e dire, digerire… Ah, scusate: dirigere. E questa comunque è una forma ancora un po’ caotica…
A.F.: …da perfezionare.
G.B.: La cosa importante da dire è che ci piace confrontarci.
A.F.: Infatti, abbiamo diverse cose in mente per migliorare e perfezionare questa forma di lavoro collettivo da sottoporre a un pensiero o a una “digestione” esterna. Una che ci piacerebbe molto e che abbiamo vorremmo inziare a provare è quella di intraprendere delle collaborazioni anche brevi in cui enti o gruppi teatrali ci offrono non solo lo spazio ma anche uno sguardo. Perché è molto interessante un contatto tra le compagnie nel momento in cui stai lavorando in modo completamente aperto, anche fragile…
F.R.: È una cosa che manca un po’ nell’ambito teatrale, mentre nella danza c’è.
A.F.: Ci sono molti gruppi, anche che sono stati qui, con cui ci piacerebbe avere questo tipo di scambio e di contatto. Ora cominceremo con Kinkaleri, che è un gruppo che ha una storia e…
F.R.: …una cifra estetica che…
G.B.: …che sentiamo abbastanza vicina…
F.R.: Come l’interesse verso i materiali, che per noi ha un ruolo molto importante: la plastica, questo grigio molto presente…
A.F.: E poi l’agire in scena una partitura visiva degli oggetti, in cui c’è una drammaturgia fra un oggetto e l’altro e un percorso visivo, una specie di mappa…
F.R.: Le tracce che vengono lasciate…
A.F.: E, a pensarci bene, è questa l’opportunità di OperaEstate: uno spazio che quasi naturalmente, senza neanche che l’avessimo pensato, offre la possibilità di uno scambio abbastanza continuo fra artisti: quest’anno Chiara Bersani e Sara Vilardo, qui con un primo studio, è bello poterci parlare… O con il gruppo foscarini:nardin:d’agostin…

Roberta Ferraresi / Simone Nebbia

Andrea Falcone: Accade così, come un colpo di fortuna, te ne accorgi così, a cose fatte: un blocco di ghiaccio che prima era acqua… è successo qualcosa di eclatante, ma non sapresti dire quando… E noi siccome è molto che parliamo tra di noi, ci incrociamo – non tutti assieme: due a due, tre, quattro – e di conseguenza quando alla fine arriviamo tutti e 4 sulla stessa idea c’è stato un lavoro lungo prima di arrivare a quel punto. Anche perché questo ha influenzato il nostro modo nostro di lavorare, che è sì in scena un collettivo, quindi ognuno si mette in gioco e cerca di proporre agli altri qualcosa su cui incontrarsi, delle sfide… Ma queste sfide che ci lanciamo sono già articolate quando arriviamo alla scena, perché ci arriviamo dopo un lungo periodo in cui ognuno di noi pensa, parla, ricerca… Alla fine il lavoro che facciamo è quasi combinatorio… Come nella chimica, la reazione può andare ben al di là delle aspettative, di quello che ognuno di noi singolarmente si era portato
Giacomo Bogani: Diciamo che di solito le idee che portiamo sono grandiose, sono enormi. Le presentiamo in sala e lì ci guardiamo negli occhi spesso e viene subito il no.
Floor Robert: E questo è un modo in cui lavoriamo spesso molto volentieri. Però poi si presenta anche quello invece dell’improvvisazione, che lì per lì in sala non si sa perché, che siamo magari stanchissimi o anche nel cazzeggio… però lì viene a galla qualcosa che ci convince tutti moltissimo
A.F.: Da momenti anche ludici, ma di ludismo scelto e consapevole, tante cose poi si sono unite a un’idea più pensata

 

Simone Nebbia: Quindi lo spazio scenico è giudice, nel bene o nel male: accoglie o respinge…
A.F.: Sì, noi arriviamo come supplicanti con carovane di cose sulla scena – che per lungo tempo è stata una stanzetta privata, poi una palestra di Rifredi…
F.R: Siamo stati al Garage Nardini che non era male
G.B.: Al Teatro Astra
F.R.: E ora andremo Prato che è un po’ più vicino
A.F.: Per rimanere ancora sui nostri punti di partenza, che è una cosa che in questi giorni ci è stata chiesta più volte e che ci mette quasi in difficoltà, perché non abbiamo iniziato – e questo non è un caso: ci rispecchia molto – da un pensiero, ma da un’immagine di cui non avevamo idea ma che ci parlava. E questo in qualche modo è quello che facciamo anche in scena per costruire le scene: condividiamo un’immagine di cui non abbiamo una spiegazione e di cui non vogliamo dare una narrazione, ma cerchiamo di ricrearla, di farla vivere, di esplorarla. E di mantenere intatto quanto più possibile il senso dell’equivoco e di instabilità…
F.R.: Di fragilità e di umanità…
A.F.: E questa è la nostra idea di storia, di passato, di realtà che portiamo in Nil Admirari:  l’atto di ricordare è qualcosa che si fa aggiungendo pezzi e reinventando qualcosa, piuttosto che essendo fedeli a una realtà.  Questo è il nostro modo di costruire queste scene in scena; ed è il modo che stiamo esplorando anche qui a Bassano, perché il frammento scenico che abbiamo portato è esito di una ricerca ma non era il suo obiettivo: non è uno spettacolo, ma piuttosto lo specchio  di quello che stiamo elaborando e lavorando.

S. N.: Un po’ una messa in campo di elementi su cui volete lavorare. Quello che percepivo come impronta collettiva di alcune esperienze di questi giorni e anche nel vostro caso è di una macchinazione drammaturgica un po’ farraginosa di costruzione. Anche perché non vi credevo completamente: avevo l’impressione che dobbiate diventare ineccepibili tecnicamente…
A.F.: Questo è un fatto difficile da affrontare, perché quello che ci interessa è mantenere un senso straniante…
F.R.: E forse è quello che non vogliamo
A.F: Però dobbiamo essere certi nel non volerlo: c’è una tecnica, un’abilità che dobbiamo maturare. Però il fatto di stare ricercando una qualità che ci permetta di non ignorare l’equivoco, anzi, di accompagnarlo verso lo spettatore. È quello che facciamo portando in scena oggetti ingombranti, anacronistici rispetto a quello che diciamo; utopie che sono storie esagerate, anche quelle in qualche modo ingombranti… non fingendo neanche noi che sia tutto naturale e scontato, perché è una chiave di lettura che cerchiamo di maturare rispetto alla realtà che ci circonda, che è piena di cose che sembrano le più naturali del mondo ma non lo sono.
F.R.: Anche semplicemente osservarlo: metterlo lì e poi osservarlo
A.F.: E forse questo richiede ancora più tecnica di quella che ci vorrebbe a fare una cosa in modo perfetto. Quindi, sì, ci vuole parecchio lavoro.

R.F.: Un passo indietro, ci volete svelare qual è l’immagine…
A.F.: Addirittura nei cinque minuti iniziavamo dicendola a grandi line: “c’è una stanza vuota…”
F.R.: Ma nella creazione poi è anche bello quando perdi gli elementi forti ma per te rimane e diventa altro
A.F.: È una fotografia di un interno completamente ricolmo d’acqua in cui affiorano oggetti o parti di oggetti, con una calma innaturale. Addirittura ci siamo ispirati ad un’immagine in cui si intravvede anche qualcosa di umano, un corpo, ma ha una consistenza che non sembra più umano. E da questa immagine…
G.B.: Una fotografia con un senso: non cattura il frammento, il momento, ma dà l’impressione dell’attesa, che ci sia qualcosa che è successo, che sta lì che galleggia
A.F.: La fotografia è ferma, ma rappresenta una realtà che è anch’essa ferma…
F.R.: Qualcosa di catastrofico è successo, e da lì partiamo, senza però ricordare il passato… Come aprire un libro a metà e partire da lì, che è come noi siamo. Noi che veniamo da un passato, da Firenze, dai ricordi, da un desiderio di volersi identificare con il tempo di ora, ma ci si accorge che magari non gli basta, non gli piace…
A.F.: Fantasticando da questa immagine di allagamento abbiamo iniziato a conoscere dei materiali che ci permettessero di farlo, tra cui il tappeto specchiante che ancora usiamo. E poi via via lavorando ci siamo accorti che questa immagine la stavamo facendo vivere senza bisogno di realizzarla. Quindi il fatto che ci fosse una finestra è ritornato con una specie di schermo che invece di aprire, ci blocca l’orizzonte riflette la nostra ombra e noi stessi quando ci muoviamo. L’idea di una superficie permeabile in cui gli oggetti affiorano è cambiata con questa superficie che trancia, che copre il palcoscenico, che sembra forse un liquido in cui forse si può entrare ma che noi continuiamo ad attraversare.

 

S.N.: Cosa v’ha fatto il passato?
F.R.: Il passato è una cosa che ci dice molto…
A.F.: È molto presente. Sovvertendo la sentenza conosciuta “Io sono il mio passato”, che era Sartre: noi non siamo il nostro passato, perché a livello collettivo è qualcosa di impersonale e a ben vedere fasullo, che viene inventato nel momento in cui ci siamo. A livello culturale, noi che  godiamo della vita in città d’arte meravigliose, anche Bassano, viviamo di questo.  (portano il caffè)
Vediamo che gli spazi per il passato aumentano, vengono nuovamente inventati, vengono scoperti quartieri medievali dove ormai non ce n’è più traccia, mesi medicei quando anche di Medici non ce n’è più traccia… Dante a Firenze ha tre o quattro case, noi in tre o quattro non ne abbiamo una. Questo intendiamo per passato: una creatura che viene creata ed è accanto a noi, con cui abbiamo a che fare. Questa operazione di affastellare, di comporre questa specie di mostro – da qui il titolo del nostro secondo pezzo, Monstrum – ci diverte ed è quello che anche noi vogliamo fare in scena.
F.R.: Ed è quello che stiamo facendo in questi giorni qui a Bassano. Stiamo prendendo questo passato e lo stiamo facendo diventare una cosa che chiamiamo Monstrum, qualcosa di incredibilmente lontano da noi, di diverso, di vivo… però ci spaventa.
A.F.: L’anacronismo, l’avvicinamento, la moltiplicazione…
G.B.: Il passato che diventa una replica, una copia…
A.F.: Aver parlato con Claudio Angelini di Città di Ebla ci ha molto aiutato perché erano argomenti su cui stavamo pensando e sentirli espressi così bene ci ha permesso di riformulare alcune cose.
F.R.: Si diceva che il passato era parte attiva
A.F.: Sì, Mauro Petruzziello diceva che il ricordo è qualcosa che incombe e minaccia e cambia la realtà. Questo è anche per noi; mentre nel lavoro di Città di Ebla c’era una fotografia che bloccava una realtà in corso nello stesso momento in cui la realtà c’era e costituiva una sorta di doppio mostruoso della realtà stessa, perché era qualcosa di immobile. Era una specie di presenza che rendeva la cosa inquietante. Cerchiamo di indagare con Monstrum questa possibilità di sdoppiarci e di avere una memoria fittizia di noi con cui avere un conflitto.

R.F.: Modo di lavorare, quello che fate…
G.B.: Decidiamo giorno per giorno come lavoriamo, anche rispetto a come ci sentiamo.
F.R.: Lavoriamo insieme da un anno e possiamo dire che ora finalmente stiamo capendo un po’ com’è fatto l’altro e come fare per lavorare con l’altro. Ci siamo spaventati molto, ci siamo agitati tanto e così ci siamo anche dati dei limiti.
A.F.: In realtà ci diamo un tempo e uno spazio per lavorare su delle cose che però non sono spesso discorsi o idee. Ma molto spesso oggetti o esercizi anche meccanici che sono alla base di una improvvisazione o di una sperimentazione. Ad esempio ieri abbiamo avuto questa enorme gonna di vinile e abbiamo iniziato a lavorarci, creando delle figure mostruose, multiple… E da lì è iniziato un lavoro sul testo e sulla voce…
F.R.: …che Andrea aveva preparato. Perché c’è sempre la preparazione del testo.
G.B.: Andrea fa una ricerca sul testo, su delle cose che possono entrare…
F.R.: …che vengono introdotte, vengono lette insieme, vengono capite fino a un certo punto e poi nella prova – dove può esserci l’elemento della gonna o dello sparavento, che stiamo semplicemente esplorando… E poi scopri che sopra questo ci può anche entrare il testo. Capiamo come…
G.B.: Un testo che è già stato pensato e scritto in una forma da Andrea.
A.F.: Con i testi abbiamo per ora questa modalità, che credo poi cambierà ed è già cambiata: li usiamo come risorsa, io li preparo solo di riferimento, di ispirazione… A volte sono brevi biografie, descrizioni per avvicinarci alle immagini o all’argomento che vogliamo lavorare. O a volte diventano poi parte dello spettacolo. Dipende da quello che succede nella combinazione.

R.F.: In che modo è cambiata?
A.F.: Quello che abbiamo deciso di richiedere al mio lavoro è più di scrivere apposta per una scena, cioè dei testi che già da soli portano l’elemento centrale, il perno di una scena, perché sono testi da dire al pubblico, come ce ne sono stati tanti esempi in questo B.Motion… Un testo di Babilonia Teatri, un testo di…
F.R.:
Luca Scarlini!
G.B.: Come mai hai detto Luca Scarlini?
F.R.: Perché mi stavo ricordando anche che a volte entra anche nella nostra giornata di prove degli esercizi che abbiamo appreso da altri. Ed è super utile, perché così il gruppo lavora su un ascolto maggiore, su una consapevolezza maggiore dell’altro e di se stesso.
G.B.: Ci sono dei giorni che lavoriamo molto su cose fisiche
F.R.: E altri che ci concentriamo sulla voce
G.B.: e sull’ascolto. Anche senza dirci niente: qualcuno di noi comincia a cantare e andiamo avanti così. Ad esempio la canzone che c’è in scena è nata così… Anche se lì in verità eravamo in macchina… abbiamo cominciato a cantare e non ci siamo fermati per quattro ore.
A.F.: La macchina è un luogo creativo molto importante…
G.B.: Per eccellenza
F.R.: Perché facciamo molte residenze lontane…
A.F.: E andiamo a vedere tanti spettacoli… È uno di quei momenti che ci costringe a stare insieme, concentrati a sopportarci completamente per 3 o 4 ore. E quindi si deve per passare il tempo parlare, affrontare le idee, confrontarci… Magari dopo un mese che ognuno ha degli impegni paralleli che l’hanno distratto, distolto o portato lontano.

 

R.F.: E invece dove state cercando di andare?
F.R.: Vogliamo fare uno spettacolo di due ore…
G.B.: Due ore no, però più di un’ora di sicuro: vogliamo un pochino sovvertire o un po’ cambiare questa cosa che c’è, che sono sempre tutti piccoli spettacoli, 50 minuti – 45… Ci piace anche la possibilità che a teatro le persone possano stare lì, anche un po’ annoiarsi
F.R.: Secondo me uno spettacolo è bello…
A.F.: …quando ha una vita…
F.R.: Sì, quando mi dà la possibilità di potermi staccare…

R.F.: È una qualità del tempo, un trattamento, più che una durata…
A.F.: Sì, una qualità che nella lunga durata è più facile o più giusto realizzare a pieno. Comunque la varietà, la qualità, la sovrapposizione, il tempo del tempo sono nodi che ci interessano molto, sia come tema che come caratteristica del linguaggio.

F.R.: Ora siamo arrivati a parlare di Monstrum...
A.F.: …che è il nostro secondo frammento…

R.F.: Quindi Nil Admirari non è il nome del progetto, ma del primo frammento?
G.B.: Nil Admirari è il nome del progetto…
F.R.: …che abbiamo dovuto presentare a Scenario in 20 minuti…
A.F.: Abbiamo deciso che Nil Admirari è sia il progetto che il primo frammento. Anche perché è un frammento che contiene un po’ tutti i nodi sui quali vogliamo lavorare. C’è una realtà di noi, noi 4, giovani che aspettano e si preparano per il loro presente e invece ripescano, vengono sopraffatti da oggetti e storie del passato… Anzi vere e proprie scorie che non sanno come gestire e alla fine scompaiono lasciando solo questo agglomerato di cose ed effetti che rimangono con lo spettatore. Poi abbiamo deciso, più per il lavoro che vogliamo fare che con un’idea di marketing, di presentare in altre due tappe gli elementi separati: in uno, Monstrum,  l’apparizione di questo passato inventato e ingombrante, con tutte le sue manifestazioni di anacronismo, di sincronia, di stranezza; e nell’altro, Tabula rasa, rimanere soli con la nostra realtà di vuoto, di ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una concretezza che mancando queste illusioni, queste chiacchiere del passato, questi elettrodomestici, questi sogni che riempiono invece gli altri due studi, vogliamo scoprire dove può portare. Abbiamo già alcune idee ma va lavorato bene in una residenza ad hoc futura. Perché se per Monstrum abbiamo già fissato sia i giorni di lavoro (che sono già iniziati qui a OperaEstate e poi continueranno allo Spazio K agli Ex Macelli a Prato) sia il momento d’apertura, che sarà durante Contemporanea di Prato e Fermenti di Parma; per Tabula rasa abbiamo il progetto aperto, ma non abbiamo ancora stabilito…
G.B.: E poi ci siamo tenuti sempre, con questa tipologia del frammento, la possibilità di ricombinarli: sappiamo bene che Monstrum arriva a un certo momento di Nil Admirari, del primo frammento…
F.R.: Bisogna esaurire delle idee, così poi possiamo farne a meno. Questo è il metodo di creazione. Avendo la possibilità di poter presentare i due studi slegati ci dà l’opportunità di mettere in campo delle cose e vedere se funzionano, sperimentare e scoprire, tenere o lasciare…
A.F.: E in una combinatoria finale presenteremo, non si sa ancora dove e quando Nil Admirari completo.

R.F.: Voi dite mettiamo dfei mateirali e vediamo se funzionano; ma siete tutti in scena. Come si fa? Invitare qualcuno a vedere le prove?
F.R.: È successo che qualcuno venga a vederci, ma già quando siamo a un livello da farci vedere.  Chiaramente abbiamo la videocamera…
G.B.: Che usiamo però poco… Solo quando abbiamo già tante cose montate.
F.R.: Quando abbiamo cose che secondo noi funzionano già. Abbiamo comunque dei momenti in cui uno si può tirare fuori e osservare l’altro e dire, digerire… Ah, scusate: dirigere. E questa comunque è una forma ancora un po’ caotica
A.F.: da perfezionare
G.B.: La cosa importante da dire è che ci piace confrontarci
A.F.: Infatti, in questa forma da perfezionare di lavoro collettivo da sottoporre a un pensiero o a una “digestione” esterna, abbiamo diverse cose in mente per migliorarlo. Una che ci piacerebbe molto e che abbiamo iniziato a mettere le condizioni per farlo è intraprendere delle collaborazioni anche brevi in cui enti o gruppi teatrali ci offrono non solo lo spazio ma anche uno sguardo. Perché è molto interessante un contatto tra le compagnie nel momento in cui stai lavorando in modo completamente aperto, anche fragile…
F.R.: È una cosa che manca un po’ nell’ambito teatrale, mentre nella danza c’è.
A.F.: Ci sono molti gruppi, anche che sono stati qui, con cui ci piacerebbe avere questo tipo di scambio e di contatto. Ora cominceremo con Kinkaleri, che è un gruppo che ha una storia e…
F.R.: …una cifra estetica che…
G.B.: …che sentiamo abbastanza vicina…
F.R.: Come l’interesse verso i materiali, che per noi ha un ruolo molto importante: la plastica, questo grigio molto presente…
A.F.: E poi l’agire in scena una partitura visiva degli oggetti, in cui c’è una drammaturgia fra un oggetto e l’altro e un percorso visivo, una specie di mappa…
F.R.: Le tracce che vengono lasciate…
A.F.: Questo ci piace molto, ma c’è anche in lavori di altri gruppi importanti, come Motus o Anagoor. E però OperaEstate questo offre: uno spazio quasi naturalmente, senza neanche che l’avessimo pensato, la possibilità di uno scambio abbastanza continuo e naturale fra artisti: quest’anno Chiara Bersani e Sara Vilardo, qui con un primo studio, è bello poterci parlare… O con il gruppo foscarini:nardin:d’agostin…
F.R.: …che abbiamo seguito dai loro cinque minuti a Vicenza…

B.Motion/Infart pt.2

Abbiamo incontrato gli artisti del Premio Scenario 2011 in programma a B.Motion 2011 e alcuni street artists che presenteranno i loro lavori nell’ambito diInfart, una tre giorni di musica, urban art e street culture che animerà i garage di Nardini, l’Arena Cimberle, il Museo Civico e il Castello degli Ezzelini di Bassano del Grappa. In questo momento di contaminazioni, li abbiamo intervistati per sapere qualcosa di loro.

In questo secondo appuntamento ci rispondono ReSpirale TeatroKenor, foscarini:nardin:d’agostin,  H101 e Matteo Latino.

Nota: ci scusiamo e ringraziamo caldamente foscarini:nardin:d’agostin che, a causa di un errore tecnico, ci hanno rilasciato una seconda intervista poco prima di correre a teatro la sera del 2 settembre.

Di Scenario e d’altro

L'incontro con ReSpirale e inQuanto teatro

Come era prevedibile fin dalla prima presentazione, fin dalla conferenza stampa, i giorni-chiave di B.Motion Teatro sono stati questi 30 e 31 agosto a mezza settimana: non solo i pur attesissimi debutti di fine festival (Fibre Parallele e Teatro Persona), né il ritorno, con nuovi lavori, di artisti ormai “di casa” (Babilonia e Anagoor, tanto per citare i casi esemplari), ma innanzitutto e soprattutto le serate dedicate a progetti ancora in lavorazione – attenzione che ha distinto negli ultimi anni il lavoro di OperaEstate sul contemporaneo. Due serate dedicate alle compagnie della Generazione Scenario, certo, che con i loro 20 minuti di studio stanno girando i festival estivi, ma anche a progetti e idee diversi, che trovano nel contesto del festival una prima o primissima occasione di esposizione e confronto.

Degli artisti di Scenario qualcosa s’è già detto in diretta dalle finali (leggi l’articolo); si può aggiungere che sono stati protagonisti di due sessioni di incontri a Palazzo Bonaguro, per incontrarne le poetiche e farle incrociare fra loro, discutendo di teatro e d’altro con gli organizzatori e gli ospiti del Festival. Grande occasione per ricostruire identità e provenienze, per illuminarne i propositi e – perché no – mettere insieme i pezzi: dalle chiacchiere pomeridiane di B.Motion sono emerse molte differenze e specificità, ma anche tratti comuni che possono aiutare a fare i conti con le modalità del Premio e con le condizioni del processo creativo al giorno d’oggi. Un punto (di forza e di difficoltà) riguarda il formato richiesto dei venti minuti: le compagnie trascorrono diversi mesi (quantomeno dalla semifinale di marzo alle finali di luglio, più la tournée) a lavorare all’interno di una forma davvero sintetica; per tutti è una sfida, soprattutto declinata nel comprimere o selezionare la gran quantità di materiale elaborato durante il processo creativo in un insieme coerente di breve durata – per alcuni “trailer” capace di presentare o lasciar intuire l’intero lavoro, per altri invece corrispondente ai primi minuti (in senso cronologico) del futuro spettacolo. E dopo un così intenso periodo di concentrazione sui “venti minuti”, per tutti ad oggi la domanda è come andare avanti: per chi aveva già un piano di lavoro abbastanza definito sono cambiate tante cose, che mettono in discussione i progetti iniziali; per chi invece è arrivato alla finale “solo” con la dimensione legata allo studio, la scommessa è adesso nello sviluppo dei singoli elementi presentati. Poi l’accento è posto sulla duplice occasione offerta dal Premio, sempre nel contesto di una dimensione di confronto: prima con gli operatori (con cui vengono discussi ogni volta i lavori), ma anche con gli altri gruppi, di cui è possibile non solo vedere i progetti ma anche intercettare in alcuni casi il processo creativo.

Fuori dalle dinamiche legate alle modalità del Premio – che pure hanno assorbito buona parte delle nostre domande e delle considerazioni emerse – si riescono anche ad intuire dei frammenti di immaginario che mettono in condivisione lavori e idee tanto differenti, dall’impatto sulla scena delle più recenti evoluzioni dei mezzi di comunicazione (il modello di autorialità da “wikipedia” su tutti, ma anche quello della playlist) alla condizione generazionale, che mostra i trentenni di oggi alle prese con le macerie del capitalismo occidentale e con la precisa (precisissima in alcuni di questi lavori!) volontà di non sottrarsi alla responsabilità di raccontare il proprio mondo (altro che fine della storia!). E, infatti, ulteriore elemento che ritorna, si trova una sorta di riemersione della componente biografica, ad innesco o cornice dei singoli progetti, forse nel contesto di un tentativo di recupero dell’individuo – e quindi della sua responsabilità, della sua collocazione nella società e nella storia.

Per quanto riguarda il processo creativo, ognuno “scrive” a modo suo – e qui si avvertono le diverse specificità che caratterizzano i gruppi: se i danz’autori di Spic & Span hanno sviluppato un modello che essi stessi definiscono di “scrittura automatica”, a 6 mani, Carullo – Minasi concordano in una modalità molto simile, che però si muove per sottrazione, mentre quello di foscarini:nardin:d’agostin è condotto per accumulo e variazione. ReSpirale e inQuanto teatro tentano processi di scrittura collettiva; Matteo Latino intende invece sperimentare una dimensione drammaturgica e performativa più definita, assumendosi la responsabilità autoriale e registica del progetto (salvo poi segnalare la consistenza del continuo confronto con Fortunato Leccese, interprete con lui di Infactory). Certo, ognuno “scrive” a modo suo: si vede tanto negli studi e altrettanto torna nelle discussioni; ma, se si può azzardare una messa in prospettiva dell’esperienza di questi giorni, ognuno è dichiaratamente alla ricerca di un nuovo linguaggio teatrale, che proprio in queste settimane sta mettendo a punto. Vedremo nei prossimi quali ne saranno gli esiti.

Ma nelle serate del 30 e 31 agosto il pubblico non solo ha avuto l’occasione di conoscere i vincitori e segnalati del Premio Scenario (sempre emblemi delle nuove generazioni che si affacciano sulle scene italiane), ma anche di incontrare altri progetti in fase di lavorazione, ad opera di alcuni giovani artisti che il festival ha deciso di ospitare.

Bersani | Vilardo "Le mie parole..." - foto di Adriano Boscato

Il 30, oltre ai lavori di ReSpirale e inQuanto teatro dal Premio Scenario, sono stati presentati Pas d’hospitalité di Davide Dolores e Laura Graziosi e Yogurth di Ailorus. Se la prima creazione, pur mostrando soltanto 20 minuti di lavoro, riesce a offrire al pubblico l’occasione di visionare alcuni materiali eterogenei, a diversi gradi di lavorazione, la seconda assume invece l’aspetto di uno spettacolo già concluso. Pas d’hospitalité propone una struttura testuale magnetica, ben “indossata” dalla partitura gestuale e dall’espressività dell’interprete; l’idea è curiosa quanto inquietante: una donna, sempre sola in scena, prepara (a parole) una cena per tanti amici, salvo poi scoprire che è tutto nella sua testa e nessuno si presenterà all’appuntamento. Il testo esplode nella concentrazione iniziale, in particolare nell’incalzare quasi futurista del menù che l’attrice presenta a fior di proscenio, con gli occhi sbarrati verso il pubblico, lasciando mano a mano trasudare un’ansia che inghiotte le parole e i sensi; dopo questo incipit, capace di suscitare un certo interesse, tuttavia la drammaturgia rischia di appiattirsi su modalità più canoniche del monologo d’attore, scivolando dalla buona incisività dei momenti iniziali a una più consueta interpretazione teatrale, rilanciata, in qualche caso, da una partitura fisica che nel suo affannarsi diventa quasi coreografia. Curiosa l’idea (formale e concettuale) nell’innesco, che lascia appunto trapelare la ricerca di un dispositivo testuale originale, che sembra voler fondere corpo e linguaggio – meccanismo sviluppato solo in parte ed oggetto, in qualche passaggio, di una sorta di “ritorno all’ordine” della scena, verso esiti più visti e conosciuti.
Se in questo piccolo lavoro in stadio ancora di elaborazione sono esposti pochissimi materiali, ma in alcuni casi con grande cura e concentrazione, in Yogurth la situazione è all’opposto: la scena è invasa da un’enorme quantità di linguaggi e registri, elementi e idee che non sembrano trovare una collocazione convincente nel montaggio. Viene proposto come uno spettacolo finito, ma si potrebbe considerare anche qui uno studio, pur forte di una gran varietà di materiali. Al di là di alcuni elementi che sicuramente troveranno armonia col tempo – diverse sbavature tecniche e il ruolo poco tagliente dei “servi di scena”, alcune lunghezze eccessive e qualche riferimento davvero troppo trash – sembra che Ailorus non abbia ancora trovato i limiti entro i quali racchiudere (e quindi lasciar schiudere) il lavoro: l’idea di un’indagine spietata intorno ai pilastri dell’eterna giovinezza che sembra oggi affliggere la società contemporanea, così come descritta nella presentazione dello spettacolo, può avere decisamente sviluppi differenti. Certo la carne al fuoco è tanta, troppa probabilmente, e così si rischia di perdere questa pur interessante prospettiva nella vivace confusione di idee ed elementi che si affastellano in scena.

Infine, il 31 agosto, assieme alla seconda parte della Generazione Scenario (foscarini:nardin:d’agostin, Matteo Latino, Carullo – Minasi), chiude la serata il primo studio di Chiara Bersani e Sara Vilardo per Le mie parole sono uomini. L’idea, nata nel contesto del laboratorio che Rodrigo Garcia ha tenuto per la Biennale Teatro nel 2010 e in cui le giovani performer si sono conosciute, è quella di mettere a confronto due differenti linguaggi, mondi, corpi. Il modo in cui il pubblico è reso partecipe di questa ricerca si sviluppa in un’esposizione di materiali dall’aspetto e dalla provenienza più disparati. In un angolo del Garage Nardini si inseguono, con insolita naturalezza e tranquillità, diverse scene – certo una consistente quantità di materiali ancora allo stato embrionale, ma che in alcuni momenti dimostrano una densità interessante. In particolare, la modalità testuale “a parete” e un particolare uso dello spazio, l’intreccio fra le due presenze in scena quasi contrappuntato così come la declinazione individuale di un’amara inadeguatezza, trattata con una certa ironia e sospesa fra il biografico e il performativo. Qualche resistenza invece si trova in una (forse) eccessiva complicazione della scena, sempre predisposta e smontata a vista, e, in alcuni passaggi, nel rischio che la vivacità e l’originalità dei materiali sia a volte inghiottita dai cliché teatrali. Non è possibile andare oltre, perché lo slancio che troverà o meno questo progetto attraverso le fasi di montaggio è, ad oggi, imprevedibile; per ora, in questo caso come negli altri incontrati qui a Bassano, è importante, davvero, dichiararne il segno e l’urgenza espressa dentro e fuori dalla scena.

Roberta Ferraresi

 

B.Motion / Infart pt. 1

Abbiamo incontrato gli artisti del Premio Scenario 2011 in programma a B.Motion 2011 e alcuni street artists che presenteranno i loro lavori nell’ambito di Infart, una tre giorni di musica, urban art e street culture che animerà i garage di Nardini, l’Arena Cimberle, il Museo Civico e il Castello degli Ezzelini di Bassano del Grappa. In questo momento di contaminazioni, li abbiamo intervistati per sapere qualcosa di loro.

In questa prima parte ci rispondono inQuanto Teatro (Menzione Premio Scenario 2011), 108, Carullo-Minasi (Vincitore Premio Scenario per Ustica 2011) e Ufocinque.

Sopra tutto: la parola. Le Finali del Premio Scenario 2011

Alle 10 di un lunedì mattina moltissime persone si trovano davanti al Lavatoio di Santarcangelo, operatori e artisti di tutta Italia che si danno ogni due anni appuntamento per incontrare quelle che Cristina Valenti (direttrice artistica di Premio Scenario) ha giustamente definito – nel titolo del volume edito da Titivillus che ha curato – “le generazioni del nuovo”. Il Premio allora, oltre che rappresentare una grande occasione di visibilità (per gli artisti) e confronto (anche per operatori e critici), può diventare un momento per fare i conti con le tendenze che animano o andranno ad animare i palcoscenici italiani di questi anni. Basti ricordare che da qui sono passati Scena Verticale e il Teatro delle Ariette, Davide Enia ed Emma Dante, fino ai più recenti Babilonia Teatri, Pathosformel, Teatro Sotterraneo, Anagoor. Ma non è solo la Generazione Scenario, composta da vincitori e segnalati, a diventare un possibile riferimento per nuovi modi di fare e pensare teatro: in finale sono arrivati Fibre Parallele, Gli Omini, Daniele Timpano così come Marco Valerio Amico di gruppo nanou o Roberto Corradino – tutte forme e idee di performatività estremamente differenti, che hanno saputo, dopo l’esperienza del Premio, approfondire e sviluppare una poetica e una estetica originali, trovando una collocazione inedita nel panorama teatrale nazionale e, anzi, inaugurando a volte linee di ricerca di considerevole risonanza. Le finali del Premio diventano un’opportunità, insomma, anche per mettere insieme frammenti di prospettive ed esperienze che si incontrano ogni sera in teatro, così come per tracciare genealogie da verificare o smentire, per confrontarsi con quei nodi che stanno oggi ad innesco di tanti progetti di ricerca performativa.

Quindici studi di 20 minuti, selezionati fra centinaia di proposte inviate da tutta Italia, si sono contese il Premio nella “maratona” delle due giornate dell’11 e 12 luglio, nel contesto del Festival fra il Lavatoio di Santarcangelo e il Teatro Petrella di Longiano: i progetti finalisti rappresentano una enorme varietà di estetiche e linguaggi, propositi e modalità di composizione, dalla nuova danza al teatro di parola, da idee che fanno riferimento al musical e altre rivisitano le forme del cabaret. Le finali del Premio mostrano una molteplicità irriducibile, capace di rendere conto della vivacità della creazione emergente dello spettacolo dal vivo, all’interno di cui, ad ogni modo, si distinguono con forza e decisione alcune linee di indagine condivise.

Prima fra tutte è la parola: se in tempi recenti il Premio ha dato significativamente spazio a una precisa tendenza della ricercache aveva eletto la resa visiva a canale privilegiato di rapporto col pubblico, alle finali 2011 si osserva una tendenza inversa, che riporta la scrittura drammaturgica tradizionalmente intesa al centro dell’attenzione (almeno in una decina di lavori). È una verbosità poetica, fra ricerca sonora e strutturazione metrica, che apre a orizzonti di inedito lirismo vicino più al formalismo d’avanguardia che ai giochi del secondo Novecento, quella che si ritrova sul palcoscenico del Lavatoio e del Teatro Petrella: tante rime e ancor più soluzioni analogiche che guardano tanto alla poesia tradizionale quanto all’hip hop; rimandi e cacofonie emotive, che vanno spesso a costruire spaccati di impostazione intimista. L’enorme passione per la parola poetica e in genere per l’elemento testuale arriva in molti casi a saturare tutta la scena (e a volte anche la performance), debordando in litanie impressioniste vicine al borbottìo e alla glossolalia. La fisicità dell’azione è spesso dissociata dall’espressione vocale, dando vita a un curioso contrappunto fra corpo e testo che a volte apre a slanci di decisa originalità, mentre in altri casi non si dimostra sempre efficace.

Parlare del nostro Paese, oggi alle prese con le sue peggiori espressioni socio-economiche e culturali, sembra essere la necessità più diffusa, soprattutto in relazione al ruolo della religione cattolica (a cui sono diffusissimi i rimandi) e alla condizione del precariato, lavorativo e non solo, che affligge oggi giovani e meno giovani. Autobiografie di una generazione e della sua genealogia sono sostenute da scritture drammaturgiche originali che si appropriano dell’immaginario pop degli ultimi vent’anni, raccontando più a parole che con i fatti la crescita e la rassegnazione della società contemporanea: Teatri Sbagliati (Bairdo) porta in scena in un curioso musical decadentista l’altro lato dello schermo, con 4 stereotipi televisivi al femminile che provano a scappare dalla propria trappola; La Quarta Scimmia (Wonder Woman+Gesù Cristo) mostra un incontro fra una ragazza-immagine e un operaio, destinati a riconsiderare le proprie possibilità di riscatto sociale; in Raep (di Mauro Santopietro) è il confronto fra un lavoratore di ieri e uno di oggi a innescare la dialettica, anche qui senza soluzioni possibili. In questi e altri spettacoli il mondo è affrontato attraverso la prospettiva individuale – che si può vedere nel più ampio contesto dei tentativi di recupero del soggetto dopo il crollo autoriale postmoderno – e quindi si addentrano, con grande spazio per l’introspezione, nelle situazioni-chiave della condizione umana: il rapporto con la società, la dimensione di coppia, il conflitto generazionale. Al centro: il fallimento che si trasforma in icona (televisiva o fumettistica, politica, da stadio o da rotocalco) e la presa di coscienza rispetto alla propria condizione. Senza domani e nessun lieto fine. O, meglio, nessuna fine: a sorpresa (ma poi non così tanto) emerge con forza il segno di Beckett da Aspettando Godot in poi; l’inedia e l’impotenza la fanno da padrone, mentre la rivoluzione sognata resta relegata a discorso utopico che occupa più le bocche che le azioni dei personaggi in scena. Molti dei progetti finalisti danno vita ad ambienti materici che svaporano nei rimandi surrealisti, ricordando certo il teatro dell’assurdo ma anche tanta pittura coeva (su tutti la drammaturgia che si sgretola nel sogno di Carullo-Minasi, Premio Scenario per Ustica). L’incontro fra tematiche di cocente attualità (dal precariato in giù) con l’estetica para-beckettiana va a creare un insolito cortocircuito che sembra trovare una certa efficacia quando si sviluppa secondo linee comiche, ma più spesso resta intrappolato nelle sue stesse maglie, risolvendosi in panoramiche delle possibili vie di fuga da una realtà inaffrontabile.
La denuncia delle croci e delle delizie dell’Italietta televisiva, arraffona e qualunquista, omertosa e compromessa, ne ha fatta di strada dalla polemica al vetriolo con cui Babilonia Teatri ha vinto il Premio nel 2007. Anche qui, secondo una modalità compositiva ormai consolidata dalle realtà ormai affermate della ricerca emergente (come Teatro Sotterraneo, Fibre Parallele, Menoventi), si trovano consistenti immissioni di frammenti provenienti dalla realtà quotidiana, fra citazioni assolutamente pop (la musica di Festivalbar, l’immaginario variopinto dei fumetti, l’estetica della clubculture) e cortocircuiti basati su interferenze più strutturali, anche allo scopo di trovare un terreno di condivisione più forte con il proprio pubblico: sembra che i giovani artisti dei nostri giorni abbiano fatto tesoro proprio dei dispositivi istituiti dalla tv (dalle serie, dai talk-show, ma anche dai canali musicali come Mtv), certo con loop, moviole e rewind, ma anche con refrain che rimandano ai tormentoni e canzoncine o intermezzi musicali che hanno ragioni di alleggerimento e stacco. Ad ogni modo sono gli anni Novanta di musica, serie tv, cartoni animati a dominare in tutte le loro forme, celebri o dimenticate, come se si avvertisse diffusissima la necessità di fare i conti con quel decennio che ha cambiato la realtà politica contemporanea, dal crollo del Muro di Berlino in poi. Ma il “made in italy” (titolo dello spettacolo-manifesto dei Babilonia che ormai sembra potersi eleggere a categoria) di cui tanto si parla, non è qui quello dei “megafoni”, irriducibili e impersonali, a cui ci ha abituati l’ensemble veneto. L’affondo, invece, è personale e sembra declinarsi in versioni più “emotivo-intimiste”. Tornano le piccole vicende individuali a far da specchio deformante della Grande Storia; e, con esse, fa timidamente capolino sul palco qualche frammento di personaggio. Se la scena di ricerca emergente degli ultimi anni ha presentato nuove soluzioni capaci di ibridare secondo prospettive innovative l’idea di personaggio e quella di performer (spettacolo e autobiografia, scena e realtà), alle finali di Scenario si trovano pochi casi che vanno in questa direzione – sicuramente fra i vincitori/segnalati (Matteo Latino, foscarini:nardin:dagostin), così come nello studio presentato da inQuanto Teatro, progetto in cui una “gang” di cinque performer, come elementi di una session jazz, si incastona nell’idea di riportare il mondo alla “felicità” dell’età elisabettiana, fra sfilate di elettrodomestici e qualche guizzo scenico davvero intelligente. La maggior parte dei progetti, tuttavia, sembra affidarsi a un canone più consueto di persona in scena, certo esplosa, frammentata e ricucita, ma appartenente a un contesto preciso e portatrice di una storia (come di un’emotività) ben definita: i personaggi sono decisamente connotati (dall’età al lavoro, alla provenienza) e la narrazione si arricchisce spesso di dettagli concreti, estremamente radicati in una struttura drammaturgica compiuta.

Le finali del Premio Scenario 2011 prospettano un nuovo teatro dove la ricerca drammaturgica tout court torna al centro dell’attenzione, anche dando luogo ad esiti di inedito lirismo. Il pop incontra la poesia, negli studi visti a Santarcangelo e Longiano, così come l’attualità è rielaborata sul palcoscenico attraverso la creazione di mondi paralleli dal retrogusto onirico e surreale. Il predominio della parola, che deborda fino ad occupare tutta la scena, è contrappuntato da azioni minimal a fare da didascalia a micro-storie più raccontate e narrabili che agite e vivibili. L’attenzione al pop, al quotidiano, al contemporaneo di tutti i giorni – tanto nella danza quanto nella prosa – sembra rappresentare una rinnovata coscienza, da parte degli artisti, del rapporto con la realtà; ovvero sembra esprimere, allo stesso tempo, la necessità di un maggior radicamento autoriale nel mondo contemporaneo per quanto riguarda le fonti, ma anche l’esigenza di andare alla ricerca di un incontro concreto con il pubblico.

Roberta Ferraresi