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Il processo del Premio Scenario: dalle Semifinali alla Finale

Martedì 14 luglio, al Festival di Santarcangelo, dopo due giorni dedicati alla Finale, sono stati decretati gli artisti vincitori e quelli segnalati dell’edizione 2015 del Premio Scenario, da una Giuria presieduta da Antonio Calbi (direttore Teatro di Roma) e composta da Silvia Bottiroli (direttrice Santarcangelo Festival), Serena Sinigaglia (regista), e da Stefano Cipiciani e Cristina Valenti (rispettivamente Presidente e Direttrice dell’Associazione Scenario).

Premio Scenario 2015: “Mad in Europe – Uno spettacolo in lingua originale” di Mad in Europe
Premio Scenario per Ustica 2015: “Gianni” di Caroline Baglioni
Segnalazioni ai progetti: “Homologia” di DispensaBarzotti e “Pisci ‘e paranza” di Mario De Masi 

L’articolo ripercorre le fasi dell’edizione 2015 del Premio e racconta alcuni degli spettacoli, dalle Semifinali alla Finale. Per approfondimenti si rimanda al sito dell’Associazione Scenario

Il processo del Premio Scenario: un punto di vista “interno” dell’edizione 2015

Quest’anno ho avuto la possibilità preziosa di partecipare al Premio Scenario più “da vicino”: in quanto invitata, come membro esterno dell’Osservatorio critico, a seguire le Semifinali di Piacenza (dal 28 al 30 marzo) e di Bari (dal 28 al 30 aprile), qui e lì tre giorni belli e intensi, in cui sono stati visionati quasi 50 progetti di spettacolo provenienti da tutta Italia.
In questi giorni, 12 sono andati in scena in forma di studio al Festival di Santarcangelo, per la Finale.

Dunque, voglio approfittare della Finale del Premio Scenario 2015 per rendere conto di un’altra cosa, altrettanto importante e forse però meno in vista, che è il processo del Premio.
Scenario è un’Associazione attiva dal 1987, composta da una quarantina di soci, che sono strutture teatrali (compagnie, festival, teatri, circuiti) disseminate in tutta Italia. Funziona per “commissioni zonali”, che raggruppano più soci a livello territoriale, in modo da garantire la presenza dell’Associazione nelle diverse regioni.
Se l’anno scorso c’è stato il Premio Scenario Infanzia, nel 2015 tocca a Scenario (le edizioni sono biennali e si alternano): esce un bando aperto, a cui possono partecipare artisti under 35 inviando un progetto di spettacolo (scadeva il 31 ottobre 2014); dopodiché ciascuno degli iscritti deve presentarsi alla propria “commissione” con 5 minuti di studio; ognuna seleziona una serie di proposte che vengono ammesse alla fase semifinale (nel 2015 quelle di Piacenza e Bari); e, di qui, un Osservatorio critico composto dai soci e da alcuni membri esterni (quest’anno con me anche Pierfrancesco Pisani, impresario teatrale) sceglie i progetti che arrivano in Finale.

Ora siamo a questo punto, ma l’intenso processo del Premio Scenario non si ferma qui: una volta individuato il vincitore e il vincitore Ustica, più le due consuete segnalazioni, gli artisti arrivano in autunno al debutto.
Il viaggio di Scenario, come si vede, è un viaggio lungo. Lungo e vario, che si fonda sulla vitalità dei soci, sulla loro volontà di seguire l’accompagnamento del nuovo, il teatro in statu nascendi, i progetti di spettacolo nei loro primi passi.
Bisogna parlare senza dubbio dell’insostituibile lavoro di monitoraggio sui territori svolto costantemente dai soci, della loro capacità d’ascolto e di visione, della loro instancabile curiosità; e poi raccontare la “laicità” che anima le selezioni, che non privilegia stili, linguaggi, formati, ma si apre al nuovo nel senso ampio delle energie che la scena emergente ha realmente da proporre (e senza volergliene imporre una piuttosto che un’altra); occorre rievocare i momenti di confronto, appassionati e intensi, in una polifonia di opinioni e posizioni che trasmettono in un intreccio unico la grande biodiversità del nostro teatro; infine, non si può dimenticare la straordinaria vitalità dei teatri che nascono, che si stanno sviluppando, che si affacciano oggi ai nostri palcoscenici.
Nell’insieme, Scenario è qualcosa che sorprende (soprattutto nel contesto di crisi attuale, non solo economica). Ed è forse questo senso di sorpresa, per i vari motivi che ho descritto, il regalo più prezioso di una partecipazione “più da vicino” al processo del Premio.

Qualche appunto sui progetti: dalle Semifinali alla Finale

Veniamo ora a qualche pensiero sui progetti di spettacolo che ho avuto modo di incontrare nelle fasi di questo processo, per l’edizione 2015 del Premio. Attraverseremo le tensioni, le visioni e le idee dei 12 finalisti presentati in questi giorni a Santarcangelo secondo alcune linee tematiche, per cercare di capire come si stia muovendo oggi il teatro italiano emergente, di cui Scenario è senza dubbio una delle “cartine tornasole” più importanti.

Solo show: micro-storie dell’umanità contemporanea
Un primo pensiero va necessariamente alle modalità sceniche e di linguaggio scelte dai due progetti vincitori. Entrambi solo-show, creati e interpretati da due donne, che sembrano suggerire una declinazione diversa e orizzonti ulteriori per questo formato, da sempre al centro della tradizione teatrale italiana con i nostri grandi autori-attori (da Totò Petrolini a Fo, fino ai giorni nostri): da un lato, dal punto di vista dell’approccio tematico, perché tutti e 2 i progetti utilizzano la solo-performance per lavorare in profondità e con radicalità sulla dimensione della solitudine (del performer in scena e dell’uomo nel mondo); dall’altro, sul piano formale, in quanto entrambi si propongono anche come tentativi di invenzione di una scrittura scenica nel campo della parola e della corporeità.
Mad in Europe dell’omonimo gruppo, scritto e portato in scena da Angela De Mattè (Vincitore del Premio Scenario 2015) è la vicenda di un’interprete al Parlamento Europeo, che si trova a circuitare fra lingue, culture, e prospettive completamente diverse fra loro: sola in una stanza, in crisi, si esprime in una lingua multiforme fra il grammelot e l’esperanto, lottando con l’efficacia della (in)comunicabilità e con l’impossibilità di ricordare la propria lingua madre. Individuo e collettività, dimensione biografica e sociale si fondono in un progetto di spettacolo che propone un’invenzione linguistica di una certa potenza, capace di farsi carico della solitudine che siamo costretti a subire in un mondo sempre più interconnesso, contrappuntando visioni intime e una lucida critica di stampo politico.
Questioni di questo genere sono al centro anche dell’intenso Gianni di Caroline Baglioni (Premio Scenario per Ustica 2015), che ricostruisce in scena, nel buio, una vicenda di follia e suicidio con pochi oggetti simbolici e un lavoro audio a partire da frammenti di testimonianze, combinandoli con una recitazione rarefatta e una partitura fisica minima, fatta di ripetizioni e variazioni al limite del biomeccanico. Attraverso questo trattamento di scrittura, il dramma intimissimo e biografico portato in scena riesce a convertirsi su piani di relazione ulteriori, dimostrandosi capace di trasmettere emozioni e sensazioni che possono appartenere a ciascuno di noi. Anche qui, il solo-show, la prospettiva micro e personale, vissuta e biografica, diventa filtro – attraverso la lingua scenica – per parlare dell’uomo d’oggi e del mondo che lo circonda, fra vita e politica.
Un monologo è anche Il piccolo guitto di Massimiliano Aceti, in cui l’autore-attore affronta micro-vicende al limite dell’autobiografia per raccontare con ironia le sensazioni ed emozioni di un giovane, che da bambino diventa adolescente, in una lingua che spazia dall’italiano alla calda familiarità del dialetto.
Se in questo progetto la prospettiva si fonda su un orizzonte prevalentemente umano ed emotivo, si torna invece sul piano dell’attualità e della politica con Kitchen Stories #1: Tutto l’Amore è Clandestino della Ditta Alesse Argira: una donna cucina per il pubblico alcune ricette tunisine, ed è il pretesto per parlare di una storia d’amore clandestina in senso stretto (il fidanzato è un irregolare), uno scambio di culture ed emozioni fra tragedia e ironia che supera le barriere linguistiche, ma anche uno zoom ad alto potenziale delle vicende che si nascondono ogni giorno sotto gli occhi di tutti.

Teatri d’oggi: questioni d’attualità in scena
In generale, si può notare come molti dei progetti presenti in Finale e nelle Semifinali si propongano di lavorare su un piano eminentemente politico, facendosi carico del racconto, della critica e dell’approfondimento di alcune questioni di cocente attualità che popolano il mondo contemporaneo.
È il caso di 2001: Odissea sulla Terra (Cerbero Teatro), in cui vengono ripercorsi gli eventi di quell’anno, ormai così distante da noi, ma con cui ancora non abbiamo smesso di fare i conti: due attori ci accompagnano in una scena sintetica dal G8 di Genova al crollo delle Torri Gemelle, in un continuo ribaltamento di piani e punti di vista in cui vittime e carnefici si scambiano di posto e interrogano così lo spettatore su quei fatti.
Il tema dell’immigrazione invece torna, oltre che nel già citato Kitchen Stories, anche in Scusate se non siamo morti in mare (Arte Combustibile), una drammaturgia fitta e disincantata di Emanuele Aldovrandi, che ribalta l’immaginario comune sulla questione; ma anche in altri lavori della Semifinale piacentina (Erra! di ExeidosSuper Spicy Market di Gesti per niente) e barese (Nastro di MoebiusLa marcia lunga).
Ma anche altre questioni di grande attualità si sono avvicendate sui palcoscenici di Piacenza e Bari: il problema delle violenze in carcere, del loro racconto mediatico e dell’impatto sulla comunità è stato affrontato dal Collettivo Balucani-Svolacchia con Quando scende dalle stelle; la violenza (anche emotiva) di genere in Finalmente sola di Lunaria Teatro; le mafie attraverso la vicenda di Peppino Impastato in Le bombe sono tutte buttane di Produzioni Teatro Kapò; la resistenza operaia, le lotte per i diritti, gli scioperi che ci hanno garantito i diritti che oggi abbiamo da Renata Falcone in Quindicimila; l’infanticidio (Matria di Emiliano Russo); la malasanità (Codice nero di Riccardo Lanzarone); la vicenda di Brenda Wendell Paes, trans uccisa in uno scandalo politico recente (di Simonetta Damato).

Teatri d’oggi: dal reale al surreale
In questo campo, ci sono progetti che mirano esplicitamente ad affrontare questioni d’attualità o di un certo peso politico, traducendole però in un linguaggio scenico che spinge la dimensione normale e quotidiana del reale fino ai suoi limiti estremi, e arrivano così a toccare punte di inaspettato surrealismo.
È il caso delle 2 segnalazioni di questa edizione di Scenario. Pisci ‘e paranzaportato in scena dal gruppo guidato da Mario De Masi (segnalazione Premio Scenario 2015), si fonda su di una testualità al limite dell’assurdo (forse perché appunto vera, troppo vera) e su una recitazione sovraccarica: l’incontro fra una serie di figure del nostro tempo, post- o ultra-beckettiane, alla fermata di un autobus ormai perso, è sospeso fra le polarità dell’incontro e dello scontro (fra posizioni, culture, vite), mostrando un micro-mondo fra realtà e fantasia, un ironico e feroce caleidoscopio di disagi, guardato al microscopio nelle sue contraddizioni e che cortocircuita con l’energia degli attori in scena.
Con Homologia di DispensaBarzotti (segnalazione Premio Scenario 2015) si torna per certi versi all’one-man show, restando comunque nel campo dell’incontro fra attualità e surrealtà, o, meglio, di un iperrealismo spinto all’estremo (sottolineato anche dalla scelta di utilizzare in parte il teatro di figura): la vicenda è quella di un vecchio solo, chiuso nel suo appartamento fra la tv e la poltrona; ma a un tratto la triste normalità della sua vita si incrina e prende vie del tutto inaspettate.
Su un piano diverso, ma con una temperatura simile, il lavoro della Ballata dei LennaIl paradiso degli idioti sa raccontare molto del disagio contemporaneo, però attraverso scelte iconografiche che attingono a piene mani all’immaginario pop, lo triturano e lo restituiscono in una scena cangiante e visionaria. Anche Xenos, alla Semifinale di Bari, ha proposto un affondo in un universo surreale e in una narrazione fra fantasia e realtà (Xenofilia); così come exvUoto Teatro, a Piacenza, che con il suo Sister(s) disegna un universo onirico, realissimo eppure surreale, magico e tragico, che rimastica le miserie di provincia con visioni impossibili (eppure incredibilmente così prossime al vero).

Il filtro del racconto: mito, epica, fiaba, teatro
Ci sono anche progetti che affrontano i nodi-chiave del contemporaneo ricorrendo a strutture archetipiche, mitiche, epiche, della fiaba o della storia.
Per quanto riguarda quelli giunti in Finale, è il caso dell’originale lavoro sulla rapsodia svolto da Industria Indipendente con Ho tanti affanni in petto: una riscrittura dell’Iliade che si scompone e ricompone davanti agli occhi dello spettatore, nelle voci e nelle azioni di una decina di interpreti, vertiginoso corpo unico della narrazione. Alle Semifinali, a Piacenza, si è visto un approccio al mito anche in Scimmie di If Prana (sempre intorno all’Iliade) e in Come l’acqua in un bicchiere rotto di Piera Mungiguerra (da Orfeo e Euridice).
Un altro piano è toccato da quei progetti che si sono concentrati su specifiche figure del mito, arcaico o modernissimo, per affrontare vicende e questioni di carattere più biografico (nelle Semifinali: Il minotauro di Alessandro StellacciCajka_7050 di Alice Bachi, Anema ‘e carne di Di Tommaso/CredentinoKaligola di Luca Trezza).
Per tutto un altro verso, si pone su un livello piuttosto prossimo anche Biancarosarossa di MAB ensemble: una rilettura ironica e feroce della fiaba portata in scena da due attrici in modo espressionista e stilizzato, avvolte da una ricerca visiva di una certa potenza, dalla magia di alcune soluzioni di artigianato teatrale di impatto e da un sapiente lavoro sonoro (live e non). Nelle Semifinali di Piacenza, la fiaba è stata utilizzata anche dalla Compagnia del Minotauro, con Nello stomaco di Barbablù, così come da Intus che, attraverso Peter Pan, ha affrontato i problemi di genere negli adolescenti; e, in misura diversa, da La Storia Infinita di Mara Cassiani, un lavoro di grande impatto visivo ed emotivo che includeva un alto grado di imprevidibilità tramite l’interazione con dei bambini in scena.
Su un altro piano ancora, possiamo richiamare Courage! di Murè Teatro, che parte invece da Madre coraggio per parlare dell’instabilità del mondo di oggi (e del teatro in particolare): oltre a pezzi brechtiani c’è la fuga dall’Italia e il miraggio di una vita migliore all’estero, la precarietà e il sacrificio, lo sfratto e la resistenza, portati in scena con energia da tre attori, insieme a musiche dal vivo e intelligenti soluzioni sceniche.

Giovani del nostro tempo
C’è un’altra linea ben presente nelle Semifinali, percepibile in filigrana anche nei progetti giunti in Finale: quella della visione dei giovani sul proprio statuto, sul proprio tempo, sull’instabilità e la precarietà che governa le loro vite, sulla difficoltà di arrivare e l’impossibilità di fermarsi, la volontà e non volontà di diventare grandi, la competizione, l’indecisione, l’incertezza.
A Piacenza, da Livello 4 con Fuori di sesto, Color Teatri con I fantastici 5; da OSM con Superman, al teatro di figura di Manimotò (Tabù), fino a Homo Sacer di Luoghi Comuni; mentre a Bari, Il rimedio di Irene Canale e What are you dying for? di Ailorus.
A Piacenza, lavoravano su questi piani anche alcuni progetti dedicati al tema della maternità (Io te e noi due di Frettoli/GalassiB & B di DaeronfilmNé – non si sa come si nasce… di Spazio-T e Gurdulù Teatro).
Su un piano diverso, quello delle nuove tecnologie e del loro impatto sulla dimensione umana contemporanea, a Piacenza si è vista la proposta di Manifesto di Big Action Money, strutturato su una drammaturgia composita che attinge tanto ai new media quanto a fonti testuali più classiche; mentre a Bari, Addiction di De Mix, che ricostruisce in scena le diverse prospettive e pratiche che si irradiano intorno a vicende di cyberbullismo.

Roberta Ferraresi

Sopra tutto: la parola. Le Finali del Premio Scenario 2011

Alle 10 di un lunedì mattina moltissime persone si trovano davanti al Lavatoio di Santarcangelo, operatori e artisti di tutta Italia che si danno ogni due anni appuntamento per incontrare quelle che Cristina Valenti (direttrice artistica di Premio Scenario) ha giustamente definito – nel titolo del volume edito da Titivillus che ha curato – “le generazioni del nuovo”. Il Premio allora, oltre che rappresentare una grande occasione di visibilità (per gli artisti) e confronto (anche per operatori e critici), può diventare un momento per fare i conti con le tendenze che animano o andranno ad animare i palcoscenici italiani di questi anni. Basti ricordare che da qui sono passati Scena Verticale e il Teatro delle Ariette, Davide Enia ed Emma Dante, fino ai più recenti Babilonia Teatri, Pathosformel, Teatro Sotterraneo, Anagoor. Ma non è solo la Generazione Scenario, composta da vincitori e segnalati, a diventare un possibile riferimento per nuovi modi di fare e pensare teatro: in finale sono arrivati Fibre Parallele, Gli Omini, Daniele Timpano così come Marco Valerio Amico di gruppo nanou o Roberto Corradino – tutte forme e idee di performatività estremamente differenti, che hanno saputo, dopo l’esperienza del Premio, approfondire e sviluppare una poetica e una estetica originali, trovando una collocazione inedita nel panorama teatrale nazionale e, anzi, inaugurando a volte linee di ricerca di considerevole risonanza. Le finali del Premio diventano un’opportunità, insomma, anche per mettere insieme frammenti di prospettive ed esperienze che si incontrano ogni sera in teatro, così come per tracciare genealogie da verificare o smentire, per confrontarsi con quei nodi che stanno oggi ad innesco di tanti progetti di ricerca performativa.

Quindici studi di 20 minuti, selezionati fra centinaia di proposte inviate da tutta Italia, si sono contese il Premio nella “maratona” delle due giornate dell’11 e 12 luglio, nel contesto del Festival fra il Lavatoio di Santarcangelo e il Teatro Petrella di Longiano: i progetti finalisti rappresentano una enorme varietà di estetiche e linguaggi, propositi e modalità di composizione, dalla nuova danza al teatro di parola, da idee che fanno riferimento al musical e altre rivisitano le forme del cabaret. Le finali del Premio mostrano una molteplicità irriducibile, capace di rendere conto della vivacità della creazione emergente dello spettacolo dal vivo, all’interno di cui, ad ogni modo, si distinguono con forza e decisione alcune linee di indagine condivise.

Prima fra tutte è la parola: se in tempi recenti il Premio ha dato significativamente spazio a una precisa tendenza della ricercache aveva eletto la resa visiva a canale privilegiato di rapporto col pubblico, alle finali 2011 si osserva una tendenza inversa, che riporta la scrittura drammaturgica tradizionalmente intesa al centro dell’attenzione (almeno in una decina di lavori). È una verbosità poetica, fra ricerca sonora e strutturazione metrica, che apre a orizzonti di inedito lirismo vicino più al formalismo d’avanguardia che ai giochi del secondo Novecento, quella che si ritrova sul palcoscenico del Lavatoio e del Teatro Petrella: tante rime e ancor più soluzioni analogiche che guardano tanto alla poesia tradizionale quanto all’hip hop; rimandi e cacofonie emotive, che vanno spesso a costruire spaccati di impostazione intimista. L’enorme passione per la parola poetica e in genere per l’elemento testuale arriva in molti casi a saturare tutta la scena (e a volte anche la performance), debordando in litanie impressioniste vicine al borbottìo e alla glossolalia. La fisicità dell’azione è spesso dissociata dall’espressione vocale, dando vita a un curioso contrappunto fra corpo e testo che a volte apre a slanci di decisa originalità, mentre in altri casi non si dimostra sempre efficace.

Parlare del nostro Paese, oggi alle prese con le sue peggiori espressioni socio-economiche e culturali, sembra essere la necessità più diffusa, soprattutto in relazione al ruolo della religione cattolica (a cui sono diffusissimi i rimandi) e alla condizione del precariato, lavorativo e non solo, che affligge oggi giovani e meno giovani. Autobiografie di una generazione e della sua genealogia sono sostenute da scritture drammaturgiche originali che si appropriano dell’immaginario pop degli ultimi vent’anni, raccontando più a parole che con i fatti la crescita e la rassegnazione della società contemporanea: Teatri Sbagliati (Bairdo) porta in scena in un curioso musical decadentista l’altro lato dello schermo, con 4 stereotipi televisivi al femminile che provano a scappare dalla propria trappola; La Quarta Scimmia (Wonder Woman+Gesù Cristo) mostra un incontro fra una ragazza-immagine e un operaio, destinati a riconsiderare le proprie possibilità di riscatto sociale; in Raep (di Mauro Santopietro) è il confronto fra un lavoratore di ieri e uno di oggi a innescare la dialettica, anche qui senza soluzioni possibili. In questi e altri spettacoli il mondo è affrontato attraverso la prospettiva individuale – che si può vedere nel più ampio contesto dei tentativi di recupero del soggetto dopo il crollo autoriale postmoderno – e quindi si addentrano, con grande spazio per l’introspezione, nelle situazioni-chiave della condizione umana: il rapporto con la società, la dimensione di coppia, il conflitto generazionale. Al centro: il fallimento che si trasforma in icona (televisiva o fumettistica, politica, da stadio o da rotocalco) e la presa di coscienza rispetto alla propria condizione. Senza domani e nessun lieto fine. O, meglio, nessuna fine: a sorpresa (ma poi non così tanto) emerge con forza il segno di Beckett da Aspettando Godot in poi; l’inedia e l’impotenza la fanno da padrone, mentre la rivoluzione sognata resta relegata a discorso utopico che occupa più le bocche che le azioni dei personaggi in scena. Molti dei progetti finalisti danno vita ad ambienti materici che svaporano nei rimandi surrealisti, ricordando certo il teatro dell’assurdo ma anche tanta pittura coeva (su tutti la drammaturgia che si sgretola nel sogno di Carullo-Minasi, Premio Scenario per Ustica). L’incontro fra tematiche di cocente attualità (dal precariato in giù) con l’estetica para-beckettiana va a creare un insolito cortocircuito che sembra trovare una certa efficacia quando si sviluppa secondo linee comiche, ma più spesso resta intrappolato nelle sue stesse maglie, risolvendosi in panoramiche delle possibili vie di fuga da una realtà inaffrontabile.
La denuncia delle croci e delle delizie dell’Italietta televisiva, arraffona e qualunquista, omertosa e compromessa, ne ha fatta di strada dalla polemica al vetriolo con cui Babilonia Teatri ha vinto il Premio nel 2007. Anche qui, secondo una modalità compositiva ormai consolidata dalle realtà ormai affermate della ricerca emergente (come Teatro Sotterraneo, Fibre Parallele, Menoventi), si trovano consistenti immissioni di frammenti provenienti dalla realtà quotidiana, fra citazioni assolutamente pop (la musica di Festivalbar, l’immaginario variopinto dei fumetti, l’estetica della clubculture) e cortocircuiti basati su interferenze più strutturali, anche allo scopo di trovare un terreno di condivisione più forte con il proprio pubblico: sembra che i giovani artisti dei nostri giorni abbiano fatto tesoro proprio dei dispositivi istituiti dalla tv (dalle serie, dai talk-show, ma anche dai canali musicali come Mtv), certo con loop, moviole e rewind, ma anche con refrain che rimandano ai tormentoni e canzoncine o intermezzi musicali che hanno ragioni di alleggerimento e stacco. Ad ogni modo sono gli anni Novanta di musica, serie tv, cartoni animati a dominare in tutte le loro forme, celebri o dimenticate, come se si avvertisse diffusissima la necessità di fare i conti con quel decennio che ha cambiato la realtà politica contemporanea, dal crollo del Muro di Berlino in poi. Ma il “made in italy” (titolo dello spettacolo-manifesto dei Babilonia che ormai sembra potersi eleggere a categoria) di cui tanto si parla, non è qui quello dei “megafoni”, irriducibili e impersonali, a cui ci ha abituati l’ensemble veneto. L’affondo, invece, è personale e sembra declinarsi in versioni più “emotivo-intimiste”. Tornano le piccole vicende individuali a far da specchio deformante della Grande Storia; e, con esse, fa timidamente capolino sul palco qualche frammento di personaggio. Se la scena di ricerca emergente degli ultimi anni ha presentato nuove soluzioni capaci di ibridare secondo prospettive innovative l’idea di personaggio e quella di performer (spettacolo e autobiografia, scena e realtà), alle finali di Scenario si trovano pochi casi che vanno in questa direzione – sicuramente fra i vincitori/segnalati (Matteo Latino, foscarini:nardin:dagostin), così come nello studio presentato da inQuanto Teatro, progetto in cui una “gang” di cinque performer, come elementi di una session jazz, si incastona nell’idea di riportare il mondo alla “felicità” dell’età elisabettiana, fra sfilate di elettrodomestici e qualche guizzo scenico davvero intelligente. La maggior parte dei progetti, tuttavia, sembra affidarsi a un canone più consueto di persona in scena, certo esplosa, frammentata e ricucita, ma appartenente a un contesto preciso e portatrice di una storia (come di un’emotività) ben definita: i personaggi sono decisamente connotati (dall’età al lavoro, alla provenienza) e la narrazione si arricchisce spesso di dettagli concreti, estremamente radicati in una struttura drammaturgica compiuta.

Le finali del Premio Scenario 2011 prospettano un nuovo teatro dove la ricerca drammaturgica tout court torna al centro dell’attenzione, anche dando luogo ad esiti di inedito lirismo. Il pop incontra la poesia, negli studi visti a Santarcangelo e Longiano, così come l’attualità è rielaborata sul palcoscenico attraverso la creazione di mondi paralleli dal retrogusto onirico e surreale. Il predominio della parola, che deborda fino ad occupare tutta la scena, è contrappuntato da azioni minimal a fare da didascalia a micro-storie più raccontate e narrabili che agite e vivibili. L’attenzione al pop, al quotidiano, al contemporaneo di tutti i giorni – tanto nella danza quanto nella prosa – sembra rappresentare una rinnovata coscienza, da parte degli artisti, del rapporto con la realtà; ovvero sembra esprimere, allo stesso tempo, la necessità di un maggior radicamento autoriale nel mondo contemporaneo per quanto riguarda le fonti, ma anche l’esigenza di andare alla ricerca di un incontro concreto con il pubblico.

Roberta Ferraresi