Dove osano Ricci e Forte

Recensione a Pinter’s Anatomy di Ricci e Forte

Pinter's Anatomy

foto di Mauro Santucci

Capita ormai raramente d’uscire dal teatro soddisfatti, ancora di più d’uscirne senza parole.La sensazione è quella di sentirsi totalmente svuotati e al contempo carichi e pieni d’energia. La critica – mi dico – dovrebbe mantenere una distanza, analizzare, avere un quadro preciso di ciò che vede. Ebbene se lo facessi oggi, se iniziassi riportando un quadro preciso, analizzando, allora non sarei fedele né all’opera, né a me stessa, tanto meno a voi.
Allora comincio dalla cosa più evidente, questa sensazione che corre sottopelle, un misto tra adrenalina e ansia pura, un sentimento che preme e sembra quasi lacerarti le mani. Le parole di una canzone di Olivia Newton John “A place where nobody dared to go” (un posto dove nessuno ha osato andare) che ritornano in mente ciclicamente. Se lo spettacolo è ciò che rimane nella memoria dello spettatore, come teorizzava Banu, allora nel caso di Pinter’s Anatomy di Ricci e Forte, questa memoria diviene fisica. Non si tratta di immagini ma piuttosto di sensazioni che ancora a distanza di giorni tornano a sfiorarti la pelle, un quadro emotivo che per il suo impatto si propone ancora e ancora. Venticinque minuti intensi, alla fine dei quali è difficile definire ciò a cui si ha appena assistito; la definizione arriva nelle ore successive lentamente, come in una polaroid all’inizio tutto sembra bruciare poi si chiariscono forme e colori.

foto di Fabio Cussigh

foto di Cedric Lefebvre

Invitati direttamente dal CSS di Udine, Ricci e Forte si focalizzano sull’interpretazione della poetica pinteriana andando a scavare a fondo nelle dinamiche di cinismo e violenza, nei dialoghi geniali delle situazioni claustrofobiche del maestro anglosassone. Ne emerge una drammaturgia ruvida e ipercontemporanea, che interroga l’individualismo della società moderna e lo scopre come nuova forma di emarginazione (da se stessi e per se stessi). Emarginazione razziale, sessuale, emarginazione culturale. Il divario si apre tra un obitorio e un plastificato paesaggio disneyano, apici di due mondi tra i quali gli esseri umani si dimenano nella funambolica ricerca di un’identità. È questo il primo appiglio, il primo contatto. Quattro attori per tre spettatori, quattro corpi solcati da memorie e vissuti persi nella contingenza del  presente. Un rapido susseguirsi di vite strappate, lacerate da solitudini violente, desideri inappagati, false verità. Tutto dipinto con il tratto cinico del migliore dei Damien Hirst se non per qualche irruzione violenta alla maniera di Basquiat. E allora sono monologhi illuminanti, dal vocabolario crudo e spicciolo ma diretto e inneffabile; dialoghi dall’architettura complessa  di una chiarezza che non lascia vie di scampo, finestre su un’umanità intima e sporca, che macchia e  lascia il segno. Travolto, sconvolto, coinvolto, lo spettatore resta stordito da tutta questa vita, che brucia e lotta a denti stretti e davanti ai suoi occhi – in un ultimo impeto di gioia – muore.  Era tutto un finire.

Una vera prova di resistenza per gli attori – Marco Angelilli, Pierre Lucat, Giuseppe Sartori, Anna Terio – che non abbandonano per un attimo gli occhi dello spettatore portandolo a piccocon loro anche nel più violento gioco di ruoli. Un lavoro che colpisce e resta addosso come l’emozione del sentirsi riconoscere chiamare per nome e la liberazione poi del lasciarsi strappare la pelle di dosso. Una memoria fisica difficile da dimenticare.

Visto a Teatro San Giorgio, Udine

Camilla Toso


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