Lisbona sulla pelle: la visita guidata di Clàudia Dias

Festival Danae. XI edizione
Recensione di Visita guiada di Clàudia Dias
Foto di Patricia Almeida

Foto di Patricia Almeida

Milano, quasi primavera. La città fiorisce di eventi e festival, tra cui brilla per freschezza e innovazione Danae (24/03-30/04), festival di danza, teatro e performance organizzato dal Teatro delle Moire, arrivato quest’anno alla decima edizione.  La rassegna propone “un calendario straordinariamente ricco, nel quale si incrociano progetti che costruiscono veri e propri scenari: urbani, corporei, virtuali, in un continuo ‘trasloco’ della visione”.

Il festival si è aperto con l’irriverente spettacolo della coreografa Cristina Sagna, mentre la seconda proposta in programma, Das coisas nascem coisas, è l’ultima creazione della giovane danzatrice e performer portoghese Clàudia Dias, cui il festival dedica una personale, che affianca quest’ultimo lavoro a Visita guiada, progetto del 2005 in cui per la prima volta la giovane danzatrice si cimenta anche come autrice del testo.

In una scena nuda, neutra, l’autrice ed interprete entra in vesti quotidiane: jeans, maglietta e un sacchetto della spesa. Guarda il pubblico con intensità, senza negare la strana relazione che “si instaura tra chi guarda e chi sa d’essere guardato”. In silenzio, si spoglia con meticolosa asetticità, rivelando da subito l’intimità di questo lavoro, che ci parla di una città vissuta nel corpo, di una memoria che è geografia dei luoghi e delle emozioni. Inizia una strana visita guidata, un percorso tracciato con il filo interdentale. La performer vuota il sacchetto della spesa: assorbenti colorati, sigarette, pacchetti di fazzoletti, fiammiferi, una bottiglietta d’acqua, dentifricio; sono gli oggetti di una quotidianità collettiva, segni condivisi di una pubblica intimità. La danzatrice veste sul corpo questi oggetti, ne fa un abito marziano, con cui comporrà, poco dopo, le delicate miniature della città di Lisbona: con il dentifricio crea precise onde, ed ecco l’oceano; poi la sabbia di tabacco, il Cristo Rei evocato da due fiammiferi incrociati; un piccolo castello di carta è il promontorio dell’Alfama, in un continuo contaminarsi di storie personali e collettive, in un rimando ironico che vuole lo spettatore complice incantato di una città interiore e condivisa insieme.

Su un sottile tappeto sonoro di vento, si cuciono le storie di Clàudia: la prima notte d’amore in un albergo impolverato che affaccia sul mare; il terremoto di Lisbona del 1755, quando la città era una delle più importanti al mondo; i luoghi del turismo e dello spaccio, un uomo che getta rose alla foce del Tago e ancora un’amica violata e le leggende del Castelo Sao Jorge. Un gioco di continui rimandi tra personale e collettivo, storia e quotidianità, sottile ironia e cruda realtà.

Solo a fine percorso, a fine visita, si sente un accenno di fado zoppicante, che incespica sulle prime note: la danzatrice raccoglie il filo interdentale che ha delimitato la scena, il filo che ha cucito le storie segnandone lo spazio; e nella ripetizione di questo gesto, nella ricomposizione che questo gesto attua, si accenna un piccolo movimento di danza, come che fosse possibile solamente dopo quelle parole, dopo quel racconto in cui il corpo è stato sì manifesto nella sua nudità ma silente, quasi immobile.

Un lavoro delicato ed intenso, intelligente, denso di livelli di lettura e di linguaggi: uno sguardo che fa sentire Lisbona nell’aria, e la voglia di “tornare, per sapere di essere partiti”.

 

 

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