Recensione a Love is my sin – Peter Brook
Un tappeto consumato, un paio di sedie in legno; un musicista – Franck Krawczyk – attraversa lo spazio vuoto e suggestivo del teatro parigino des Bouffes du Nord. Peter Brook è in un angolo della platea, serio, con gli occhi fissi sulla scena; blocchetto per gli appunti e penna in mano. Dopo poco iniziano a riecheggiare i versi in inglese dei componimenti poetici scelti, dai quali emerge uno Shakespeare che teme il passare delle stagioni e soffre per amore, perché “il tempo verrà e porterà via il mio amore. Questo pensiero è come una morte, che altro non può che piangere di avere ciò che teme di perdere”. E, infatti, dopo pochi sonetti sul tempo, si affronta il tema della Separazione.
Quello che ci descrive Shakespeare è un amore che provoca un dolore quasi insostenibile: se non corrisposto, se irrealizzabile, se finito. Ma anche l’amore quotidiano, reale, è pieno di insidie, sofferenze, battibecchi, affrontati nella terza parte dedicata alla Gelosia: “Quando il mio amore giura di essere tutta fedeltà, io le credo, anche se so che mente”.
La linea che separa l’amore dall’odio si fa sempre più sottile. I due sentimenti sono sempre più simili, e spesso si sovrappongono, vivono l’uno dell’altro, si confondono, inevitabilmente, perché “Love is my sin”: “L’amore è il mio peccato”. Nonostante le pene che provoca, Shakespeare si arrende al fatto che l’uomo non può sfuggire all’amore, non può né evitarlo né vivere senza; nonostante tutto, vi si butta ciecamente, e, a volte, un miracolo può succedere: “«Io odio» lo affrancò dall’odio, e salvò la mia vita dicendo «non te»”.
L’ultimo capitolo del breve spettacolo si intitola Il tempo sconfitto. Shakespeare ci descrive, in questa fase, un amore che vince su tutto, sul trascorrere del tempo, un amore eterno, immortale, reso tale proprio dalla poesia.
La riflessione sul rapporto di coppia procede, quindi, parallelamente a quella sulla scrittura, che diviene strumento di invettiva nei momenti di ira e delusione; di seduzione e sfogo durante il corteggiamento; di ode immortale per un sentimento che resta sempre uguale. Decantato con infiniti versi da tutti i poeti in tutti i tempi, l’amore resta eterno ed universale sempre, ed è per questo che la drammaturgia, costruita da Peter Brook attraverso 27 sonetti scritti quattro secoli fa, arriva dritta al cuore degli spettatori, comprensibile, immediata, sincera. A volte strappa un sorriso, perché spesso l’amore ci rende ridicoli, altre volteuna lacrima, ma non può certo lasciare nessuno indifferente.
La semplicità del tema e l’intimità dei componimenti è resa perfettamente dall’essenzialità della messa in scena e dalla convivialità degli attori, che sembrano instaurare una chiacchierata informale – ma meravigliosamente poetica – con il pubblico, confessandosi e costruendo con esso un discorso sull’amore. Con Love is my sin il pubblico scopre uno Shakespeare umanissimo, fragile, vicino – e di questo si deve rendere merito al genio di Peter Brook, e alla sua costruzione drammaturgica pensata per chiudere lo spettacolo affinché il messaggio, ed il pensiero ultimo di Shakespeare sull’amore arrivasse forte e chiaro:
L’amore non è lo zimbello del tempo, anche se rosse labbra e guance
cadono nel compasso della sua falce ricurva;
l’amore non muta con le sue brevi ore e settimane,
ma resiste fino all’orlo del Giudizio.
Se questo è errore e mi sia provato,
io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.
Visto al Teatro des Bouffes du Nord, Parigi
Silvia Gatto