Recensione a Auntie and me di Fortunato Cerlino
Morris Panych, autore, regista e attore, è uno dei più importanti personaggi della scena teatrale canadese, e non solo. Scrittore geniale e intelligente, mette a nudo problematiche esistenziali senza giri di parole, si interroga sulla vita e, da arguto drammaturgo, crea storie che fanno riflettere e ridere, che si parli di rapporti umani, di morte o della dialettica tra bene e male. Esistenzialismo, situazioni paradossali e dialogo serrato da teatro dell’assurdo, umorismo acre e una vicenda dolorosa da black comedy: questi gli ingredienti principali di Auntie and me, primo dramma di Panych tradotto e messo in scena in Italia.
È la storia di Kemp che si definisce un disilluso ma in realtà si aggrappa con tutto se stesso proprio alle illusioni, anche se con lucida consapevolezza; appartiene alla categoria dei ‘vinti’ ed è un uomo che nasconde speranze e dolori dietro un muro di cinismo. Dietro tutto questo una vera e profonda solitudine, quella che ci porta a scavare dentro noi stessi, punto focale di tutto il dramma; la solitudine che si percepisce fin dall’inizio, non appena entriamo nella spoglia camera da letto di Grace, la zia. Anche lei è sola, dimenticata da tutti, e anche lei, forse con più tenacia sebbene anziana, è guidata da un filo di speranza. Lui è un uomo che si lascia vivere e troverà proprio in questa vecchia, di cui aspetta la morte per mettere le mani sull’eredità, l’unico punto di riferimento; lei è diffidente ma non disdegna la presenza del nipote cui, poco a poco, si affezionerà. Auntie and me è un’amara riflessione sui rapporti interpersonali ma soprattutto sui veri affetti della vita.
Nonostante la tenerezza che ispirano, il tono tragico è smorzato dalla sagace penna di Panych. Le battute taglienti e schiette di Kemp sulla morte e sull’omicidio fanno ridere senza infastidire, anche perché si uniscono alla maestria di Alessandro Benvenuti, regista e attore proveniente dal cabaret. La controparte, la zia Grace, è Barbara Valmorin, un’attrice che si definisce artigiana della parola che qui, però, gioca la sua interpretazione sull’espressività; rimane, infatti, praticamente muta per tutto il tempo, interagendo con il nipote solo con lo sguardo. Ma la perfezione della costruzione drammaturgica viene esaltata anche dal taglio cinematografico che il regista, Fortunato Cerlino, usa nel dramma, interrompendo il dialogo con dissolvenze in nero che scandiscono il passare delle ore, dei giorni e delle stagioni. Così passerà un anno dal loro primo incontro, e forse Kemp un’eredità l’avrà, ma sarà solo una magra consolazione.
Visto al Teatro Mercadante, Napoli
Stefania Taddeo