È del tutto particolare il modo in cui Beth Escudé, drammaturga catalana (oltre che regista e insegnante), affronta il tema della violenza di genere nel suo testo Aurora De Collata, la cui mise en espace, a cura dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano, è in grado di esaltare i contrasti.
Aurora è una giovane donna vittima di maltrattamenti domestici, il cui apice è raggiunto con un uxoricidio-suicidio – tema di recente tristemente agli onori di cronaca anche in Veneto. Senza cadere nella trappola del “martirio” né smarginare con la descrizione delle violenze subite e tantomeno concentrarsi eccessivamente sulla prospettiva della vittima, la Escudé dona alla scena un testo intelligente, capace di trattare un tema delicato e attuale come la violenza di genere attraverso l’ironia e il grottesco – armi in questo caso ancora più taglienti di qualsiasi pratica documentaria o di una prospettiva realista. Certo all’inizio si ride, e molto. A partire dal nome della vittima (che è anche il titolo del testo e dello spettacolo): il cognome del marito di Aurora è “Collata” – un nome che si fa tristemente presagio, per la donna che viene uccisa con un taglio alla gola. E poi i passaggi ironico-grotteschi sono in agguato lungo tutto lo sviluppo della vicenda, come trapuntando la tragedia di slabbramenti di natura opposta: da Aurora che va ad auto-denunciare il proprio omicidio alla polizia, all’inizio, agli operatori di medicina legale che decidono di farne partecipare il cadavere a un concorso televisivo per la beatificazione fino al transito dell’anima fra inferno, purgatorio e paradiso, carico di imprevedibili incontri. Ma se nelle prime scene o, meglio, “porte” (come sono chiamate nel testo, in riferimento a quelle che popolano Il castello di Barbablù) la risata è libera di invadere la platea, attraverso l’accumulo di gag, malintesi e giochi di parole, poco dopo il pubblico si trova intrappolato in un crescendo tragicomico da cui è difficile estraniarsi. È proprio l’eccesso di questa vena comica sovraccarica ad assestare il pugno allo stomaco finale per gli spettatori, nel momento in cui la donna si presenta ad un diavolo incapace di tentare e di sedurre, mentre, a colloquio con dio, si trova di fronte un essere capriccioso, solo e depresso. Sacro e profano si intrecciano nella drammaturgia di Aurora De Collata, fra talk-show televisivi (con tanto di telefonate da casa) e messe in crisi della morale e della spettacolarizzazione occidentali. Qui trovano giustapposizione e commistione anche linguaggi e registri differenti, da quello proprio della violenza di genere (ferocemente analizzato in tutta la sua inadeguatezza) a quello medico, mediatico, religioso.
Ma il testo di Beth Escudé, capace di affrontare con efficace spregiudicatezza temi di grande e delicata attualità (come l’invadenza televisiva, il decadimento della religione, oltre a quello protagonista della drammaturgia), non solo fronteggia abilmente il – linguaggio ed immaginario – contemporaneo: la scrittura dell’autrice catalana si colloca faccia a faccia anche con la grande arte e la letteratura occidentale. Primo fra tutti il riferimento, anche esplicitato, al Barbablù di Bela Bartok; poi le numerose citazioni che aprono ogni scena, da Aristotele a Strindberg passando per Ferdinando Pessoa. E poi, un affondo ancora più al cuore della tradizione si trova nella struttura drammatica, costituita da diverse scene successive ma autonome (le porte) poste in un andamento circolare, composizione che rimanda alle “stazioni” del teatro classico spagnolo, non forse quello del Siglo de Oro, ma più probabilmente all’estetica del grande teatro di strada catalano.
La mise en espace a cura dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano porta in palcoscenico tutti questi livelli di realtà con grande energia, in un allestimento essenziale che sa giocare con i canoni della finzione teatrale e lascia grande spazio all’incarnazione drammaturgica.
Roberta Ferraresi