Dissonorata, un delitto d’onore

Recensione a Dissonorata – di Saverio La Ruina

foto di Angelo Maggio

È ovazione quando Saverio La Ruina si licenzia dai numerosi presenti incantati da Dissonorata, spettacolo di marca “Scena Verticale” andato in scena giovedì 2 agosto fra le radure dell’anfiteatro della villa vecchia, a Cosenza, in occasione del programma agostano del Festival Invasioni. Scrosci di applausi, apprezzamenti a voce alta e commozione diffusa, dopo il buio finale. Non è certo un caso se la messinscena è tra le più premiate d’Italia. Un testo che entra nelle pieghe dell’universo femminile scavandone a fondo gli umori, i desideri, le restrizioni, i pensieri. Interpretato con incredibile aderenza al ruolo e straordinaria sensibilità nel trattato come nell’enunciato, capace di portare in superficie gli aspetti più abissini dell’intimità in rosa. L’attore, drammaturgo, regista La Ruina diventa in scena Pascalina, donna di campagna del dopoguerra calabro, narratrice autobiografica di una vita di stenti e imposizioni, consumata in un agire quotidiano dominato dalla volontà maschile, schiavista e sprezzante, relegante l’essere donna a mero oggetto utilitaristico o conforme a rigide strutture di convenzione sociale. Pascalina vive nel tempo in cui la memoria è offuscata in una valle nebbiosa e racconta, a ritroso, il suo percorso esistenziale. Il viaggio nel proprio tempo è portavoce di uno spaccato epocale (sociale, comunitario), sorpassato ma non troppo, sentendolo rimembrare in sordina tra le pagine tenute nascoste del nostro diario di bordo comportamentale. La Ruina s’incarna in Pascalina: sul palco sembra non distinguersi l’uomo dalla donna, l’attore dall’uomo, il detto dall’evocato. E questo, è pratica “magica” solo dei grandissimi interpreti: far vedere nelle proprie sembianze le parvenze di ciò che si figura. Si racconta, Pascalina, dall’infanzia al diventare donna, dalla spensieratezza e le fantasie di bambina al desiderio maturo (unico concesso e possibile) di diventare sposa, come fece sua mamma e ancora prima sua nonna. Tutto nel rispetto dei dogma familiari, così che Pascalina non sta nella pelle quando un pretendente si fa avanti chiedendola in mano al pater familias. Lei è istruita a dovere, cammina a testa bassa contando le pietre per strada, non parla con nessuno, passa il suo tempo a pascolare il gregge (dovere di famiglia); non è come le altre donne vestite in modo succinto precedute dall’ignominia. Pascalina è ingenua (l’effetto di un’educazione restrittiva) e il suo presunto principe azzurro altri non è che un uomo, vinto dall’istinto come tale. Le conseguenze non tardano a delinearsi: l’uomo approfitta di Pascalina non tenendo fede alla promessa di maritarla, oltraggiando quell’illibatezza rappresentante massima qualità del suo essere e ingravidandola. Pascalina è dissonorata, e prima di lei è macchiato l’onore della sua razza intera. Non resta che un amaro rimedio a una vergogna eterna, l’uccisione di Pascalina. Il tentativo di bruciarla viva va a vuoto e la donna mette al mondo, in una stalla, il frutto del suo “oltraggio”. La Ruina va avanti per un’ora e venti sul palco, accompagnato dalle carezze sonore di Gianfranco De Franco, compositore delle musiche originali eseguite dal vivo. Pigiando delicatamente tutte le note della melodiosa composizione scenica, sfumando tutte le connotazioni interiori della protagonista. Restituendo alla platea la commozione di un groviglio concepito tra le pieghe dell’anima.

Visto al Festival Invasioni, Cosenza

Emilio Nigro

 

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