La metamorfosi dell’immutabile secondo Piccola Compagnia della Magnolia

Recensione a Atridi/metamorfosi del rito 1° frammento – di Piccola Compagnia della Magnolia, regia Giorgia Cerruti

foto di Ernesto Pierantoni

foto di Ernesto Pierantoni

Un’idea fatta in materia. Materia teatrale. Raccattando per strada, e non metaforicamente, materiale umano. Confessioni, impressioni, chiacchiere. Dalla gente comune. Da chi osserva, chi partecipa, chi ‘sente’. Un furgone, compagnia di otto elementi, viaggi e storie.
La progettualità artistica di Atridi – metamorfosi del rito, della Piccola Compagnia della Magnolia, è un’opera a fasi. Per ora già uscita dal bozzolo, con un accenno d’ali. «Una storia d’amore – ci racconta la Cerruti – grande quanto l’umanità». L’invocazione per Agamennone, invocazione di un assente, l’esplorazione di rapporti familiari degenerati, collassati: l’amore trasfigurata in passione. Indagine puntuale, esatta, dell’immutabilità dei codici antropici dall’universalità del classico, del tragico greco. Metamorfosi dell’immutabile. Archetipi.
La scena si presenta in bianco. Bianco funereo, bianco simbolo di evanescenza, fantasmagoria. Con un’enorme lapide/finta quinta sul fondale. Artigianale, come il resto dell’oggettistica presente nello spettacolo. Il teatro creato dalle mani.
C’è tutto delle cifre codificate: il prologo, il coro (solipsistico), il minimalismo scenico, la trama – l’uccisione accidentale del cervo, il sacrificio di Ifigenia, l’iniziazione al ‘cannibalismo’ tra parenti, l’omicidio di Agamennone, la follia veggente di Elettra, l’accenno alla furia vendicatrice di Oreste. Ma in mimesi, in metamorfosi. Elemento, quello della metamorfosi, determinante imprevedibilità nel trasposto. Adottato come caratterizzante. L’effetto è un risultato non scontato, la contaminatio tra linguaggi, retorici e contemporanei.
Un testo, reso azione dalle scene, poco più di una mezza dozzina, assemblato con dovizia da Dramaturg, districato con una dialettica enfatica, a tratti pantomimica. Pathos smezzato da estetismo e bio-meccanica.
La lentezza, pregnante in questo primo frammento studio di un progetto completo tra un anno. La lentezza non quale fenomeno svilente, piuttosto contemplativo, di compenetrazione reciproca (palco e platea), trasparenza del robusto lavoro di ricerca e (de)costruzione, ossatura dell’allestimento.
La destrutturazione dello spazio, restituendolo in un ambiente tridimensionale, con retro quinta a vista, propone un ulteriore servizio allo spettatore: scrutare la scena a diversi livelli. Predisporla, anticiparla, distraendo l’occhio, quindi i sensi, e la stasi. Aggiunta meccanica a un’estetica d’insieme modulata dal gioco e dalla contrapposizione vecchio-nuovo. Costumi e costruzione visiva di scena che ricorda ambienti di fantascienza (letteraria) post-atomica, di contrasto, antidoto, all’arcaicità del linguaggio recitativo. Nella mortificazione delle tipicità tragiche a favore del cenno, della teatralità, un ennesimo spunto di confronto e superamento del ‘canonico vs contemporaneo’. Segno della ricerca profonda, del mettersi sul palco non come esecutori o intrattenitori, ma nutriti, mossi dalla consapevolezza, dal travaglio, dall’intimità, dall’urgenza, dal sapere e volere fare sapere.

foto di Ernesto Pierantoni

foto di Ernesto Pierantoni

Istantanea della ‘saga’ attraverso i personaggi, i punti di vista degli artefici, e il filo comune della venerazione di Agamennone quale «l’unico Dio che riconoscono i bambini». Fisicamente comparso, e interpretato dall’ottimo Davide Giglio (una conferma), nell’uccisione di Ifigenia, adornata da un’originale maschera riprodotta moltiplicando gli oboli (segno di metamorfosi), e ucciso in seguito dalla moglie adultera Clitemnestra. Ucciso per passione filiale, animale, per avere strappato la femmina dalla sua cucciola.
E la mitomania di Elettra, con un corrisposto (probabilmente) alla ricorrenza di fenomeni reali, attuali, di degenerazioni nervose e megalomanie, di cui lo spazio scenico si fa risonanza. Oppure rimando al servilismo conseguenza della miseria di questi tempi, che fomenta e ridisegna i rapporti in chiave di subordinazione. Come un nuovo culto della personalità.
E l’estraneità di Egisto, come elemento alieno al morbo familiare, carnale.
Dinamismi puntellati da ceri/luci, elementi naturali – acqua, carta, lacrime, sudore – e uso dei colori essenziali (quattro: bianco, nero, rosso, rame).
Essenziale, ma presente, la regia. Volta più al veicolo che all’auto affermazione. Mirata a incorniciare la capacità attoriale, soprattutto di Giglio, a suo agio nella tragedia, in una prova dove a malapena si percepisce la finzione, perché completamente penetrato nella pelle, e le caratteristiche, dei personaggi. In crescita il resto degli attori. Una regia costruita a maglie strette con la drammaturgia. Che senza stravolgimenti ed effetti, piuttosto con intuizione e soluzioni intelligenti, si dipana efficacemente.

Un fare teatro notevole, quello della Piccola Compagnia della Magnolia, di cui sentiremo parlare. Un teatro che parte da se stesso evolvendosi nell’estensione naturale dello sviluppo dettato da tempi e innovazione. Senza per questo sconfinare nella sperimentazione sclerotica o fine a se stessa, né nei tentativi, tantomeno nelle pose avanguardiste Ma frutto, in maturazione, di competenza, dedizione al lavoro, padronanza della materia e talento puro. Un teatro d’arte.

Visto a Festival Benevento Città Spettacolo

Emilio Nigro

 

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