Un realismo feroce e beffardo che il regista argentino Alfredo Arias è riuscito ad interpretare con la giusta dose di vitalità e freschezza.
Sarebbe un peccato perdersi Circo Equestre Squeglia in tournée dal febbraio 2014 (tra le date Teatro Ferdinando di Napoli, il Carignano di Torino e il Teatro Argentina di Roma) dopo il fortunato debutto al Napoli Teatro Festival. Lo spettacolo ha chiuso quest’ultima edizione, aperta con quello che Rita Cirio sull’Espresso ha ironicamente definito il “pacco” che Peter Brook ha tirato a Napoli e che, nonostante i grandi nomi in cartellone, o forse soprattutto per quelli, ha deluso non poco. Ha fatto però eccezione l’ultimo weekend del festival con un pubblico in delirio per Vertigo 2.0, poetico e possente lavoro della compagnia di danza israeliana Vertigo Dance Company, fondata da un’emozionata Noa Wertheim e attiva da 20 anni, in scena nella suggestiva location, tra il Vesuvio e il mare, del Museo Ferroviario di Pietrarsa, ex sede dell’opificio borbonico.

Nel 1900 Raffaele Viviani, dopo aver perso il padre, entrò nel Circo Scritto per interpretare insieme a Pulcinella e Colombina una zarzuela carnevalesca. L’allegria del clown nascondeva però la sofferenza per una vita di stenti e umiliazioni ed è quello ad ispirarlo nella composizione di Circo Equestre Squeglia e di tutta la sua opera. Ed è così che ci si affeziona da subito ai personaggi, primo tra tutti al clown Samuele, interpretato mirabilmente da Massimiliano Gallo, e a donna Zenobia, un’intensa e dolente Monica Nappo. La storia gira intorno a loro e ai rispettivi consorti, adulteri e bugiardi – Giannina, contorsionista al trapezio, “vezzosa e zingaresca” e Roberto, interpretato da Francesco di Leva, cavallerizzo volgare, presuntuoso e fatalone. La prima scapperà con il “toscano”, furbo e svelto, da poco entrato nel circo, mentre il secondo, dopo la corte sfacciata alla sensualissima Nicolina, la giovane e brava Lorena Cacciatore – meno cattiva che nelle intenzioni di Viviani perché anche lei vittima di se stessa – finirà in malo modo rovinando anche la giovane amante. A far da contorno alla vicenda sono gli altri personaggi, tutti abilmente interpretati: in particolare Bagonghi, uno straordinario Tonino Taiuti e sua moglie Bettina, la “donna serpente” che all’epoca di Viviani era una vecchia dalla lingua lunga e velenosa e per Arias diventa con facilità un travestito, interpretato da Gennaro Di Biase, che “non sa stare al suo posto”, alla maniera di Almodovar, sferzante e libero da qualsiasi convenzione sociale. Ad interpretare il narratore esterno, pensato da Arias per leggere le didascalie e “raffreddare” la vicenda è Mauro Gioia, elegante in frac e finissimi occhialini neri, un po’ decadente e un po’ beccamorto.

Gioca un ruolo fondamentale la partitura musicale, negli arrangiamenti di Pasquale Catalano: ad essere ripresa è la tradizione orale campana dal vasto repertorio di “fronne ‘e limone”, quei canti cioè, in parte estemporanei, costruiti su moduli melodici “a picco”, col quarto grado eccedente, con la funzione, tra l’altro, di comunicare a distanza. Belli e coloratissimi, sebbene di umile fattura, anche i costumi di Maurizio Millenotti e le luci di Pasquale Mari.
Si può anche restare indifferenti, e quasi infastiditi, dalla carrellata di banalità, ingenue e grottesche, di cui è piena la vicenda di Viviani e che Arias rimette in scena sfiorando spesso il limite, così come si può non amare, considerandola stucchevole, un’opera come Natale in casa Cupiello di Eduardo De Filippo che con quel “te piace o’ presebbio” intendeva ribadire proprio la predilezione della cultura napoletana alla sceneggiata e al patetico. Del resto – come spiega Luciano De Crescenzo nel saggio Il dubbio – c’è chi preferisce l’albero di Natale: è quella la differenza tra gli uomini d’amore e gli uomini di libertà.
Visto al Napoli Teatro Festival Italia
Maddalena Peluso