Recensione a Untitled_I will be there when you die – coreografia di Alessandro Sciarroni
Occhi chiusi alla ricerca della concentrazione. Verso una strada intima, privata. Prendendosi il tempo necessario per attraversarla; semplicemente per esserci. Intorno tutto bianco e asettico. Quattro performer sono fissi e immobili, in attesa di iniziare a intraprendere la propria pratica, allontanandola dal quotidiano e trasportandola in un luogo sospeso, in una stanza interiore.
Inizia come il precedente Folk-s l’atto secondo del progetto di Alessandro Sciarroni, lo spettacolo Untitled_I will be there when you die: con i performer a occhi chiusi. Il coreografo e regista marchigiano ha intrapreso un viaggio che indaga le pratiche performative col tentativo di interrogarsi sul concetto di sforzo, costanza, resistenza. Dopo il bellissimo Folk-s (leggi l’articolo di Rossella Porcheddu), in cui 6 danzatori davano vita al ballo tipico bavarese dello Schuhplattler chiedendosi “fino a quando esisterà la tradizione?”, ora è la volta di Untitled in cui i 4 performer sono giocolieri professionisti alle prese con le clavette: non sono attori, non sono danzatori; sono semplicemente performer.
Lorenzo Crivellari, Edoardo Demontis, Victor Garmendia Torija e Pietro Selva Bonino sono veri giocolieri, abituati a numeri che divertono, tengono col fiato sospeso, rendono l’atmosfera vivace e colorata. Con questo lavoro Alessandro Sciarroni raggiunge un vero e proprio ready-made della performance: il coreografo/regista priva la giocoleria dei suoi stereotipi, o meglio, decontestualizza il lancio delle clavette – non siamo al circo, non siamo per strada, siamo in teatro. Così la pratica acquista una dimensione altra, si fa atemporale.
Una volta aperti gli occhi, i performer rivolgono lo sguardo verso l’alto iniziando poi a lanciare un attrezzo. Battono il ritmo con ogni presa, nelle diverse modalità di afferrare la clavetta: rintocco nella mano, rumore sordo o felpato, leggero. È una ripetizione sonora e visiva; è qui che si nasconde l’atemporalità.
Questo battito viene registrato da Pablo Esbert Lilienfield, posto al lato della scena e impegnato a creare il meraviglioso suono, musica e note che accompagnano i quattro nella pratica, nel lancio, nel divertimento, nella fatica. Il rumore diventa dapprima meccanico, e si ripete, si mescola poi al pianoforte, ricorda le lezioni di Barber.
Schematicità nel suono, schematicità nei movimenti. Lo sguardo va dal basso verso l’alto, segue il tracciato delle clavette, fino a quando si entra in un loop mentale per cui gli attrezzi sembrano viaggiare da soli, non più lanciati da braccia attente e veloci, ma tirati da fili invisibili. La reiterazione visiva spinge la mente ad annullare il corpo e a concentrarsi sulla clavetta; quando cade è come se si spezzasse qualcosa, una magia; come se si rompesse una relazione affettiva, un amore.
Viene da chiedersi: che cos’è il tempo? Untitled diventa un viaggio, una metafora di un tempo bloccato, sottovuoto, in cui solo quando arriva l’errore riprende a scorrere. I performer sembrano lanciare gli oggetti nel tentativo di salvarli dall’impatto col terreno. A cosa pensano quando lanciano la clavetta? C’è qualcosa di commovente nel loro lancio, nel loro giocare insieme mentre la musica accompagna questo viaggio che cresce in un’esplosione di sfumature – sfumature che hanno il loro corrispettivo visivo anche nei colori dati dalle belle luci di Rocco Giansante, che creano ombre proiettate sul fondale.
Alessandro Sciarroni diventa un artista visivo del movimento, del tempo, dello spazio.
E questa sua opera è un resistere a tutti i costi, con la clavetta sulla fronte; significa esserci, fino alla morte. Oltre il tempo, oltre la definizione di una parola. È rimanere indefinito, come lo stesso titolo dello spettacolo che non riesce a contenere la meravigliosa magia che accade in scena.
Visto a Santarcangelo 13 – Festival Internazionale del teatro in piazza, Drodesera XXXIII – Mein Herz e B.Motion Festival
Carlotta Tringali