Il Matrimonio: dell’inconsapevole colpevolezza

Il senso nobile del pop.
I Cantieri Teatrali Koreja hanno debuttato, durante l’edizione 2014 del Teatro dei Luoghi Fest, con  Il Matrimonio, spettacolo tratto dall’omonimo testo di Gogol del 1842 che, nel 1868, venne trasposto in versione operistica da Musorgskij.
Salvatore Tamacere e i suoi attori riprendono tanto il tono grottesco e nero del miglior Gogol – i cui testi, muovendo dalla commedia, rovinano nella più cupa tragedia, mostrando i limiti di un’umanità spezzata tra il vecchio e il nuovo della metà dell’Ottocento -, quanto la musicalità dell’opera incompiuta, e, in questo andirivieni inseriscono un altro elemento che rimane costante durante tutta la rappresentazione: un metateatro esasperto con il fine di produrre un effetto comico, nella maggior parte dei casi, e di caos volutamente soffocante in altri momenti chiave dello spettacolo.


Gli attori sono già nell’area di gioco quando entra il pubblico – e ci resteranno, senza mai uscire di scena -, un pianoforte sulla sinistra, un divano bianco al centro, un praticabile a scale sullo sfondo, una toletta da attrice sulla destra e, a seguire, l’elemento che, fin da subito, attira l’attenzione dello spettatore e lo guida nella sua lettura interpretativa: un confessionale, nell’accezione televisiva del termine e della cosa. Due pareti rivestite di gommapiuma isolante, una telecamera su un treppiedi a terra: è l’angolo del contatto diretto con un pubblico sordo, l’antro dell’introspezione egocentrica, il luogo della solitudine e dell’auto-presentazione, lo spazio della sintesi voyeristica. Nel confessionale, gli attori rendono manifesta la loro critica ai luoghi dello sguardo televisivo, corrotto, banale, omologante.

Il soggetto è quello tipico di un certo teatro borghese ottocentesco: gli intrecci amorosi orchestrati da Madama Fëkla (Erika Grillo) per far sposare il giovane scapolo Podkolësin (Carlo Durante) con la bella e svampita Agaf’ja (Emanuela Pisicchio). Il regista risolve la trama calandola in un altrettanto noto contenitore, un format televisivo ibrido al confine tra Il gioco delle coppie e Uomini e Donne: quattro pretendenti (interpretati da Francesco Cortese, Giovanni De Monte, Fabio Zullino e lo stesso Durante) per una giovane da maritare. Ed è un tourbillon di canzoni (il piano è magistralmente suonato in scena da Ivan Banderblog), colori, luci, coreografie, movimenti rapidi, monologhi di candidatura, litigi grottechi e, ancora, uscite ed entrate continue dalla scena alla sala, dal testo alla tv contemporanea. Non stiamo solo assistendo alla messa in scena dell’opera di Gogol, non siamo solo gli spettatori indiscreti del programma della De Filippi o chi per lei, ma siamo i complici responsabili della legittimazione di un sistema, ci dilettiamo della disperazione altrui e, inconsapevolmente, ne facciamo un brand. Non poteva mancare, in conclusione, il parere del pubblico stesso, direttamente convocato alla votazione finale, in un sistema di specchi e rimandi continui che triangola tra sala, scena, ripresa audiovisiva, allusioni al contesto dell’opera ottocentesca e alla nostra cultura populista occidentale, europea, italiana.  DSC_0354

In questa attualizzazione non accondiscendente, ma divertente, consapevole e intelligente del testo di Gogol tutto trova uno spazio di sovrapposizione: la performance degli attori si innesta su un sistema scenico congegnato per mettere in ridicolo la pericolosità del mass media servendosi dei suoi stessi linguaggi. Lo spettatore coinvolto è parte del sistema multilivellare, lo riconosce, vi si identifica, e, infine, lo rifiuta nell’amarezza.

E l’amore? Il matrimonio? La salvezza? Forse non sono più accessibili perché i sistemi di simulazione sono diventati talmente tanto complessi da impedire l’immersione, l’approfondimento, la sostanza. “Come disse Liala, ti amo disperatamente”, diceva Umberto Eco nella sua prefazione a Il nome della rosa, sottolineando come, nelle logiche postmoderne, un amore puro sia diventato impossibile e possa venire facilmente tacciato di ingenuità. I Cantieri Teatrali Koreja creano un ordito fine mostrando l’intreccio tra inettitudini ed evidenziando quanto le gabbie culturali e sociali trovino, a seconda dei tempi, diverse e mostruose declinazioni e come spesso l’inconsapevolezza muti poco di segno diventando colpevolezza.

Visto al Teatro dei Luoghi Fest, Lecce

Nicoletta Lupia

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