All’Inferno. Con le Albe, il teatro e la città

Comincia tutto di bianco, di delicatezza e di luce l’Inferno del Teatro delle Albe: gli abiti di Ermanna Montanari e Marco Martinelli, i loro saluti prima di iniziare, le parole dal primo canto della Commedia che si levano davanti alla tomba di Dante, la sera tiepida e luminosa, così come il coro inaspettato, disseminato fra il pubblico che a un certo punto risponde. Fino al suono lungo di una conchiglia che chiude e apre i diversi passaggi; la camminata rapita per le strade di una Ravenna sospesa all’imbrunire, una processione che mescola artisti, cittadini, pubblico; l’incontro con una giovanissima “Beatrice” di fronte a S. Apollinare Nuovo; l’arrivo al Teatro Rasi, segnato da un ingresso individuale, personale, con i due artisti-guida che accolgono ciascuno spettatore.

Tomba di Dante (foto Silvia Lelli)

(foto Zani-Casadio)

(foto Cesare Fabbri)

Tutto sembrerebbe fuorché un inferno. E invece, una volta giunti nel cortile del Rasi, Ermanna Montanari sale su un’alta scala, mentre di fronte c’è un grande cartello che riporta il celebre incipit scritto sulla porta infernale: “Per me si va…”. Oltre la soglia dell’edificio (che fra l’altro in passato era una chiesa e ne riporta tuttora il profilo), ce ne accorgiamo subito, ci aspetta l’Inferno. Un inferno assolutamente dantesco, con tanto di divisione in canti e gironi, con Paolo e Francesca così come Farinata degli Uberti o il conte Ugolino; eppure radicalmente contemporaneo, bruciante nella sua attualità: il primo impatto è con un gruppo di militari che affrettano l’entrata del pubblico in una saletta scura, inneggiano a saccheggi e abusi, con il loro capo che infine domanda: “Vi sembra un sogno?”. No, in effetti ad ascoltarli non lo sembra proprio: se pensiamo all’Europa in cui viviamo, dove prigionia, coercizione, violenza si fanno ogni giorno più vicini mentre si allontanano sfumati i cosiddetti diritti umani, che forse per lungo tempo abbiamo dato per scontati e acquisiti. E in questo senso nemmeno paiono sogni o visioni le scene che lo spettacolo ci riserva in seguito: fra chi vende il proprio corpo e chi mette all’asta la propria onestà; dalla corruzione alla politica agli abusi di oggi come di ieri; fino all’incontro conclusivo con Lucifero, la fisionomia di una coppia abbracciata che, ruotando come un carillon, svela poco dopo lame di un coltello puntate dall’uno alla schiena dell’altra, come se il tradimento di chi ci ama rappresentasse il peccato più grande e di gran lunga fondamentale, annidato nella vita di ciascuno di noi, spesso invisibile, insospettato, e per questo forse ancor più pericoloso. Come a dire che l’inferno – lo si intuisce in Dante, lo mostrano le Albe – non è solo domani, ma è sempre già qui. E siamo noi a fare la differenza.

(foto Silvia Lelli)

(foto Nicola Baldazzi)

Ma la prima scena non è solo l’anticamera che precede – anche fisicamente, dal punto di vista spaziale – una messinscena tradizionalmente intesa, uno “spettacolo” di sala: tutti gli spazi del Rasi sono mutati, ripensati, adattati per farsi gironi infernali. Non ci sono più le file di poltroncine, né lo spazio antistante in cui di solito ci si intrattiene, ogni luogo è trafitto da intrecci di tubi innocenti su cui stanno appollaiati i diavoli che incitano il pubblico a spostarsi da un posto all’altro; ogni angolo sembra un cantiere in divenire, fra teli, pittura e impalcature; mentre lo spettacolo dilaga ovunque – lungo le scale, negli uffici, nel foyer, fra grandi momenti d’assieme e singole figure in piccole stanze parallele. E poi tornando e ritornando in un teatro sempre nuovamente irriconoscibile, vivo, animato, dal loggione da cui ci si può brevemente affacciare per passare alla platea che è convertita anch’essa in spazio per l’azione.
Lo spettacolo dilaga in senso fisico, concreto, spaziale. E di linguaggio: deflagrando ovunque nelle voci, nei frammenti visivi, nelle scritte sui muri e nei volti che spuntano a ogni angolo; partendo dai versi danteschi per agglutinare altre parole (da Simone Weil a Ezra Pound, da Boccaccio a Pasolini); e via via all’interno di grandi, potentissime immagini.

(foto Nicola Baldazzi)

Ma non è solo questo il senso di apertura del teatro, per un progetto che si è articolato a partire da una Chiamata Pubblica – il termine è rimasto anche nel sottotitolo dello spettacolo – con cui le Albe hanno voluto coinvolgere nel processo di creazione e nella messinscena altre persone, artisti, studenti, cittadini di Ravenna e non solo: hanno risposto in 700 alla chiamata, hanno lavorato insieme (come performer, ma anche all’allestimento), ora sono tutti qui da settimane, dandosi il cambio sera per sera. Si legge nelle presentazioni del lavoro, che uno dei riferimenti è lo spettacolo medievale, quello in cui – prima che si desse qualsiasi canone di teatro modernamente inteso – la città andava in scena e i cittadini erano i protagonisti. Sono anni che Ermanna Montanari, Marco Martinelli, le Albe, similmente, mentre accolgono con cura le persone in teatro, dall’altro lato lo aprono alla città, di modo che le persone possano – non solo vederlo, conoscerlo – ma anche farlo e farlo proprio. Vedere dopo spettacolo la comunità che si è creata intorno a questo progetto, i loro rapporti, il loro stare insieme per intorno al teatro è emozionante quasi quanto la fruizione dello spettacolo.
Allora Inferno dilaga anche dall’azione dei suoi ideatori attraverso i corpi delle decine e decine di performer che, insieme agli attori delle Albe, hanno dato vita ai gironi danteschi: con il contrappunto-guida, narrativo e epico di Ermanna Montanari e Marco Martinelli, si avvicendano coppie di giovani per mano nel canto V, avari e scialacquatori, una schiera urlante di Erinni, lotte corpo a corpo. Come il teatro è dappertutto, così gli attori: che stanno sopra, dietro, di lato, a fianco e di fronte agli spettatori in ogni momento. Accerchiati dal teatro, condotti a guardarlo da vicino, in certi momenti a farne concretamente parte.

Dire che Inferno è “itinerante” è dire poco (e anche per la sola parola “spettacolo” ci sarebbe qualche dubbio in termini di potenziale riduttività). Dai cori luminosi del crepuscolo alla processione condivisa, alle esplorazioni all’interno del Teatro Rasi, è un viaggio vero e proprio: per noi che lo guardiamo e viviamo qualche ora, che veniamo identificati – si legge nella presentazione – con Dante stesso; ma anche per loro che l’hanno voluto, creato e vissuto lungo settimane e mesi, e per chi vi si è avvicinato durante il processo di lavoro. L’Inferno – sia quello di Dante che quello delle Albe – è un viaggio, naturalmente – come vuole la Commedia – un viaggio in ascesa o in salita. Testimoni ne sono le decine e decine di scale che si scorgono dappertutto: dai piccoli gradini bianchi davanti alla tomba del poeta alle pareti del Rasi, dall’entrata in teatro al montacarichi che accoglie Minosse fino ad arrivare all’uscita, che è un finale di una rara potenza visiva, emotiva, umana. Al buio, una lunga scala a pioli è appoggiata a un albero enorme, secolare. Non se ne vede la fine, come a indicare il viaggio che prosegue. Intorno, l’abbraccio di un cerchio di persone, artisti, cittadini, spettatori, che guardano rapiti con il naso all’insù, per “riveder le stelle” o forse scorgere un pezzo di futuro: delle proprie vite, del progetto (che prevede altre 2 tappe sulla Commedia, nel 2019 e nel 2021) o quantomeno di quello strano stare insieme che in certi momenti riesce a essere il teatro, cosa che le Albe tante volte sono riuscite a rendere concreto e vivo, e in particolare in questo episodio.

Roberta Ferraresi

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