alex serrano

Birdie, fra migranti e migrazioni, teatro e realtà

“Birdie”. Termine inglese per uccellino. Nel golf, un tiro appena sotto il par, quasi in buca. È da qui che parte l’ultimo lavoro di Agrupación Señor Serrano: dal proprio titolo, il cui doppio significato è proiettato a fondo scena all’inizio dello spettacolo. “Birdie” è una parola che parla di due mondi che si incontrano, scontrano e fondono all’interno della messinscena… e in realtà prima di tutto nella sua “sorgente”, che è una foto scattata da José Palazón a Melilla, città spagnola in territorio marocchino: sotto, un campo da golf con tanto di giocatori; sopra, una serie di persone nell’intento di scavalcare una recinzione – sembrano quasi degli uccellini sospesi su un filo, ma sono in realtà alcuni dei numerosi migranti che provano a passare lì dall’Africa all’Europa.

 

foto José Palazón

All’interno dello spettacolo, la sovrapposizione fra le migrazioni degli uccelli e quelle degli uomini di ogni tempo e luogo si ritrovano in mappe di flussi (umani, animali, ma anche monetari) che attraversano il globo; articoli di giornale che spaziano dai viaggi dei migranti a quelli dei volatili, stretti fra pubblicità legate al golf, voci allarmistiche sulla crisi economica, l’esplosione di un’epidemia di ebola, ma anche twitter e gli Hungry Birds.
Birdie parte dal disegno di un territorio comune: prima linguistico e poi narrativo e infine sociologico, nel primo atto chiamato “Stanno arrivando! Stanno arrivando”; poi ancora visivo, nel secondo – “Sono uccelli, vero?”, questo il titolo –, per portarci infine oltre, molto oltre quelle basi condivise fino a metà spettacolo.

foto di Pasqual Gorriz

La messinscena comincia da un piano di rappresentazione nel senso (più o meno) tradizionale del termine: il suo innesco è la mattinata in cui Palazón scattò la celebre immagine, con tanto di sveglia, caffè-sigaretta, doccia, giornale e commenti vari. Detto così, l’inizio sembra quello di una pièce convenzionale: ma tutto – come accade sempre nei lavori recenti dell’Agrupación – viene costruito, filmato, montato e proiettato live da Àlex Serrano e Pau Palacios (componenti del gruppo insieme a Bárbara Bloin). Non sono attori nel senso stretto del termine, ma più che altro registi, autori in scena. Costruiscono davanti agli occhi del pubblico gli scenari e i contesti, i personaggi e le storie al centro dello spettacolo, tramite modellini in scala, maquette, oggettini che vengono spostati e manipolati donando all’accadimento teatrale un particolare – e spesso oggi perduto – senso di “gioco”. Già qui, nelle micro-coreografie di gesti quotidiani volte alla rappresentazione sul grande schermo alle spalle dei due performer, fra la proiezione video e il quasi-artigianato di disegni, elaborazioni digitali, piccole magie teatrali, la realtà che vediamo giustapposta alla sua costruzione dal vivo, sempre contrappuntata da una performatività che deborda oltre l’inquadratura della telecamera, mentre la sicurezza del piano della rappresentazione si incrina.

Poi c’è la soglia fra realtà e finzione: prima con la storia della città, Melilla, presentata da cartelli a metà fra la tradizione brechtiana e la guida turistica, le cartoline e i post delle vacanze che invadono Facebook. Si avvicinano così i due piani del reale e della sua rappresentazione, dimensione che naturalmente esplode, poco dopo, con la presentazione della foto in questione. A partire da una vera e propria analisi dell’immagine, che occupa tutto il primo atto: livelli, struttura, forme, distanze, addirittura la sezione aurea con tanto di esempi celebri tratti dalla storia dell’arte; ma poi anche scavo di ogni oggetto incluso nell’inquadratura esprimendone, volta per volta, profilo, provenienza, natura (incluse le rocce, le piante, le macchine e tutti gli esseri umani, dai golfisti al poliziotto ai vari migranti sulla recinzione, a partire da quello con la felpa rossa, che scopriremo simbolo importante man mano che si svolge lo spettacolo). “La gente che si fida delle immagini”, commenta la voce off che accompagna tutto il lavoro, “non mette neanche in crisi cosa c’è dietro”.

foto di Pasqual Gorriz

Infatti, non si tratta solo delle tematiche scelte, pure fondamentali dal punto di vista politico (negli spettacoli precedenti di Agrupation sono state per esempio la bolla immobiliare o il terrorismo internazionale). Ma nemmeno soltanto strettamente di linguaggio artistico (comunque suggestivo e coinvolgente nella sua particolarità). Il discorso politico e quello estetico si fondono qui in un unicum che, congiungendoli, supera i limiti di entrambi i piani, quello della scelta delle questioni al centro degli spettacoli e quello del lavoro sul video.
La compagnia catalana negli anni ci ha accompagnato in un percorso di interrogazione, discussione e critica delle narrazioni contemporanee, di carattere mediatico ma non solo: da un lato, portando in scena così com’è la realtà della comunicazione odierna, giustapponendo pezzi di immaginario e pezzi di quotidianità, cult audiovisivi e spezzoni di tg intorno a uno stesso tema, facendone esplodere in scena la (post-)verità in un flusso incredibile di contraddizioni e rimandi; dall’altro lato, lavorando sempre per decostruzione, analisi e ricostruzione sul video, che non è assunto come uno strumento di documentazione oggettiva, ma come campo aperto alla volta della rappresentazione, della manipolazione del reale.

Negli anni Trenta Walter Benjamin rifletteva sull’assottigliamento delle differenze fra gli artisti/produttori e gli spettatori/fruitori, constatando che l’arte può diventare utile al processo politico solo se accetta di abdicare, almeno temporaneamente, alla sua tradizionale separatezza dal mondo che la circonda. Ma il filosofo era sospettoso di quegli artisti che, allo scopo di avvicinarsi alla propria contemporaneità, operavano unicamente con la scelta di temi di grande, cocente attualità; sosteneva che, a quel proposito, fosse indispensabile concentrarsi invece sui modi e mezzi produttivi. Era in quella maniera che, secondo Benjamin, l’artista poteva prendere (o tornare in) possesso dei supporti, canali e strumenti di produzione o comunicazione. E, mostrandone al pubblico il funzionamento, permettere allo spettatore di entrare in contatto o anche in una relazione diversa con essi, di comprenderli; di guardarli diversamente, anche addirittura di cambiarli (in teatro, ma anche nella realtà).
In scena, niente è come sembra, dimostrano minuto per minuto le complesse costruzioni live di Agrupación Señor Serrano, mentre sopra le teste dei performer e i loro scenari continuamente auto-costruiti, viene proiettato l’esito finale, l’immagine, quella che sembra a tutti gli effetti la realtà ma il contrappunto scenico ci conferma non esserlo mai fino in fondo.

Inoltre, sempre in un movimento rizomatico intorno al tema, che fa delle connessioni fra gli oggetti che tocca il centro estetico e strutturale dello spettacolo, compaiono spezzoni di Uccelli di Hitchcock: la gente in fuga che urla, il paesino circondato e terrorizzato da volatili sempre più minacciosi, il panico e l’impotenza, l’impossibilità di fuga e di comprensione. “Gli uccelli potrebbero anche non esserci, le persone scapperebbero lo stesso”, confida il regista in un’intervista, mentre il senso della minaccia si sposta dall’attacco effettivo dei nuovi arrivati alla proiezione su di essi delle paure umane.

Superata la soglia fra realtà e finzione, si passa a un altro piano e questione dello spettacolo, introdotto da uno snodo astratto eppure concretissimo dove vengono svelati a vista e sottolineati alcuni trucchi scenici – volute di fumo proiettate, luci sul pubblico, palline da golf moltiplicate al pc – e che trancia in due la struttura dell’allestimento (quasi a dire, ora lasciamo volatili e migranti, foto e città spagnole, lasciamo l’attualità e la contingenza per spostarci in un altro campo: quello della prospettiva macro, del passato e quindi futuro?). Dopo, è la visione in soggettiva di un “birdie” in miniatura, un uccellino accompagnato dalla sua telecamera, che mostra una versione mignon dell’origine della specie, fatta di pupazzetti alti pochi centimetri che discendono tutti da una stessa magna mater; poi la speciazione, la separazione; per proseguire con una serie di catastrofi, anche causate dall’uomo, che travolgono tutto (intemperie, incidenti, abusi). E, alla fine, un grande buco nero dove ogni cosa va a precipitare. Una buca di un campo da golf, ovviamente.

foto di Pasqual Gorriz

Sembrerebbe un finale amaro, un’apocalissi globale. E invece l’ultimo capitolo, intitolato “È questa la fine del mondo?”, con l’interrogativo, torna sull’uomo, sul soggetto, sul micro-. Torna alla foto di Palazón e dà voce a ciascuno dei protagonisti dell’immagine: una giocatrice di golf, il poliziotto, l’autore stesso. Nel mentre, una figura incappucciata in una felpa rossa, che ha seguito di spalle tutta la messinscena seduta su un tavolo a bordo scena, si alza, viene al centro del palco. La voce off ci ricorda che le migrazioni fanno parte del passato, presente, futuro di ciascuno. La platea è spazzata da due grandi ventilatori. Si sente il vento in faccia, fra i capelli, il rumore e la densità dell’aria. Perché è proprio vero che per un motivo o per un altro “ogni giorno qualcuno si mette a volare”, come dice infine la voce narrante chiudendo lo spettacolo.

Roberta Ferraresi

 

 

 

Biennale Teatro 2014: Leoni e residenze fra arte e realtà

Parte la nuova Biennale Teatro. Fra i prestigiosi Leoni (che hanno inaugurato il festival il 4 agosto), gli incontri con gli artisti nel tardo pomeriggio e le prime presentazioni delle compagnie in residenza, è cominciata la quinta edizione della rassegna con la direzione di Àlex Rigola. Già questi primi momenti di confronto e condivisione si dimostrano importanti opportunità per provare a rintracciare qualche elemento che contraddistingue il lavoro svolto dall’artista catalano nei suoi anni di lavoro a Venezia.

[da sx] Il Presidente Paolo Baratta, Jan Lauwers, Fabrice Murgia, Àlex Rigola (direttore Settore Teatro) - Copyright la Biennale di Venezia, ph. G.Zucchiati

[da sx] Il Presidente Paolo Baratta, Jan Lauwers, Fabrice Murgia, Àlex Rigola (direttore Settore Teatro) alla cerimonia di premiazione – Copyright la Biennale di Venezia, ph. G.Zucchiati

Il festival si è inaugurato con i prestigiosi riconoscimenti che ogni anno l’istituzione veneziana conferisce alla carriera di un artista di riconosciuta fama internazionale  (Leone d’Oro) e all’innovazione di una giovane promessa del teatro (Leone d’Argento). Il primo va quest’anno a Jan Lauwers, ormai gradito habitué della scena italiana e anche della Biennale veneziana; Leone d’Argento invece per il giovane Fabrice Murgia, purtroppo meno noto ai palcoscenici nostrani ma promessa riconosciuta a livello internazionale.
È una Biennale che non a caso quest’anno premia due artisti basati in Belgio (Lauwers ad Anversa, Murgia a Bruxelles). Questo, infatti, negli ultimi anni si è consolidato come territorio di riferimento per la sperimentazione artistica, soprattutto nell’ambito delle live arts (con la danza in primis, ma negli ultimi tempi non soltanto).
Va notato che nella gran parte dei casi non si tratta di percorsi di sperimentazione fini a se stessi o comunque attivi sul piano eminentemente formale: se il teatro di Lauwers diventa naturale e potente punto d’incontro di arti diverse (dall’arte visiva al cinema, dalla musica al racconto alla danza) per scavare in profondità fra le luci e le ombre dell’umano, anche l’autorialità di Murgia sembra muoversi verso orizzonti piuttosto prossimi, utilizzando la commistione fra teatro e cinema per creare «ambienti che immergono lo spettatore in un magnetismo che lo avvicina alla parte più nascosta dell’essere umano» (così si legge nelle motivazioni del premio).

Dalla residenza di Gabriela Carrizo - foto di Futura Tittaferrante

Dalla residenza di Gabriela Carrizo – foto di Futura Tittaferrante

Si potrebbe dire qualcosa di simile per i lavori di Gabriela Carrizo di Peeping Tom (anch’essa torna in questi giorni a Venezia per la Biennale, con una residenza con la sua compagnia), da molti anni in Belgio: il suo teatro-danza prende molto, moltissimo dal cinema, ma ne riversa gli stimoli sul piano concettuale-emotivo creando scene dalla straniante cifra onirica, a volte straziante, altre sorprendente. Anche qui, si tratta tutt’altro che di manierismo o astrazione, o peggio ancora virtuosismo: le atmosfere quasi lynchiane che hanno fatto conoscere Peeping Tom sulle scene mondiali si originano dritte dal cuore stesso dell’inquietudine umana, delle paure e delle emozioni, del trasporto e delle relazioni che si sviluppano o meno fra l’uno e l’altro. Così anche si potrebbe dire per Jan Fabre (Anversa), altro artista che è tornato più volte alla Biennale veneziana, per spettacoli e/o laboratori.

L'incontro al Teatro Piccolo Arsenale - foto di Ilaria Scarpa

L’incontro al Teatro Piccolo Arsenale – foto di Ilaria Scarpa

Si potrebbe pensare che esiste grande affinità fra le edizioni del festival dirette da Rigola e quest’area della creazione. Ma se proviamo a dimenticare il dato geografico (pure importantissimo, come si è detto, anzi determinante), questa “doppietta belga” dei Leoni 2014 ci può forse offrire una qualche chiave di lettura in più per provare a comprendere il lungo e vario lavoro che l’artista catalano sta svolgendo a Venezia dal 2010, fra laboratori e spettacoli, incontri e residenze.

Quello dell’importanza di orientare una instancabile sperimentazione linguistica a precisi fini di carattere etico ed umano è uno dei temi portanti del primo incontro di questa Biennale Teatro: coordinate da Andrea Porcheddu, sul palco del Teatro Piccolo Arsenale, si sono presentate al pubblico le 5 formazioni in residenza per questa edizione del festival (oltre a Carrizo, i greci Blitz Theatre Group, gli andalusi La Zaranda, i catalani Sr. Serrano, gli italiani Ricci|Forte e gli artisti del progetto Author Directing an Author, Marco Calvani, Nathalie Fillion, Neil LaBute).

La prima (e fondante) questione su cui il critico ha invitato gli artisti a confrontarsi, infatti, è proprio quella del rapporto fra teatro e realtà, chiedendo loro che cosa possa, oggi, considerarsi contemporaneo.
Comincia Aggeliki Papoulia di Blitz. A suo avviso, «when you’re trying to create a dialogue with what happens – in every field –, it’s always contemporary» (“quando stai cercando di creare un dialogo con ciò che accade – in qualsiasi campo – è sempre contemporaneo”). Ma il teatro non si ferma qui: secondo Christos Passalis, sempre di Blitz, lo scopo del mezzo artistico non è quello di riportare la realtà in scena così com’è, ma di distorcerla; non si tratta di raccontare direttamente la crisi, il terrorismo, l’epoca mass- o post-mediale: «we strongly believe that this is not reality». O, meglio, che quella non è la nostra sola realtà. Questo è, a suo avviso, il senso di lavorare oggi al contemporaneo. Mentre per Nathalie Fillion «there is not only one “reality”», non c’è una realtà sola e univoca da trattare, ma è una questione di percezione individuale. Àlex Serrano aggiunge un elemento di grande importanza: secondo lui il contemporaneo ha poco o nulla a che fare con quello che accade per strada o con le notizie che rimbalzano sui giornali; e nemmeno si lega essenzialmente all’utilizzo di nuovi linguaggi e new media (campo che attraversa il lavoro dell’artista con la sua Agrupaciòn). «These are just forms – constata Serrano –, instead contemporary is to try to communicate your idea with best tools to an audience»; ed è così che entra in gioco nel discorso al Piccolo Arsenale, la cruciale questione del pubblico.

Dalla residenza di Blitz Theatre Group - foto di Futura Tittaferrante

Dalla residenza di Blitz Theatre Group – foto di Futura Tittaferrante

Sono posizioni diverse, idee differenti e a volte anche opposte (come sottolinea Gabriela Carrizo) di teatro e di vita. Come constata Stefano Ricci, ognuno di questi approcci è condivisibile; «tutte le motivazioni che ci portano a interrogarci sul linguaggio teatrale sono valide», per riprendere le parole stesse dell’artista. Anche quando si tratta di esplorare i delicati rapporti fra realtà e finzione o di affrontare il tema del contemporaneo. Tutto sommato, se proprio si volesse trovare a questo punto un filo comune, si potrebbe dire che sono tutti approcci “minimali” alla questione del reale e del contemporaneo; nel senso di quel minimalismo che ha scarnificato i linguaggi nell’arte del nostro tempo: che spoglia i mezzi artistici della tentazione virtuosistica, dal peso dei canoni, dalle stratificazioni autoreferenziali per indirizzarli alla migliore efficacia possibile. Ma questa è di nuovo, ancora, una questione soprattutto stilistica. Qual è il punto, quindi?

Un tassello al discorso si aggiunge se spostiamo l’attenzione sul tema dell’attore, della sua presenza e del suo ruolo nel lavoro scenico – altra domanda sottoposta agli artisti durante l’incontro pubblico. «I don’t really care about actors, I’m interesting in person» constata Papoulia, mentre per Josè Manuel Mora (collaboratore di Carrizo) il loro lavoro consiste prima di tutto in un incontro umano. Per La Zaranda, l’attore deve “avere le ali”, cercare di “costruire dei ponti” ma anche accettare “il rischio di cadere nel vuoto”. Per Stefano Ricci, l’unica caratteristica che deve possedere un attore è «respirare, essere in vita» («oggi non è così scontato», puntualizza l’artista); «con queste persone, poi, si può fare un viaggio e forse costruire dei ponti per comunicare a qualcun altro». Di nuovo l’idea del ponte, della relazione. Tutte le idee d’attore, per quanto diverse, insistono infatti sul piano dell’incontro umano, del confronto autentico innanzitutto fra persone (fra attori e poi con gli spettatori), dell’esperienza reale all’interno del teatro e della creazione artistica.

Dalla residenza di Ricci|Forte - foto di Ilaria Scarpa

Dalla residenza di Ricci|Forte – foto di Ilaria Scarpa

Una delle caratteristiche distintive delle 5 edizioni della Biennale Teatro dirette da Rigola si può pacificamente riconoscere nell’ampio ventaglio di artisti invitati al festival, nella molteplicità dei linguaggi e percorsi, nel “politeismo” teatrale si potrebbe dire, con Claudio Meldolesi, che è stato ogni anno testimoniato a Venezia: dal teatro-danza (Carrizo, Fabre, La Veronal) ai drammaturghi dei nostri tempi (LaBute, Ravenhill, ma anche Mouwauad, Tolcachir), dalle eccellenze della grande regia europea (Ostermeier, Castellucci, Bieito, Lupa) a artisti che investono invece sulla dimensione dell’ensemble; ci sono stati rappresentanti della cultura di gruppo e dell’autorità registica, autori-attori e autori tout court, amanti del classico e dei new media; tutti coinvolti in spettacoli, incontri, laboratori.

Ma scavando nella varietà e nella molteplicità di queste scelte artistiche, sulla scorta dei discorsi che si stanno portando avanti in questi giorni a Venezia, è possibile seguire in filigrana qualche strada ben solida. Si potrebbe allora ipotizzare – allargando gli orizzonti anche alle passate edizioni – che una di queste si possa rinvenire proprio essere quell’attenzione per i rapporti fra teatro e realtà, nello specifico della sua declinazione sul piano dello scavo dell’umano, sia esso espresso in senso emotivo-relazionale o etico-politico.

Roberta Ferraresi

Questi contenuti hanno origine dal laboratorio Theatre Communitydiretto da Andrea Porcheddu e Anna Pérez Pagès con Roberta Ferraresi e Futura Tittaferrante per Biennale College – Teatro 2014.