biennale teatro venezia

Recuperare il repertorio di Kylián per esaltare l’opera del Balletto di Montréal

Recensione a Le Sacre du Printemps, Bella Figura e Six DancesLes Grands Ballets Canadiens de Montréal

Foto di Akiko Miyake

L’attenzione rivolta al Canada all’interno del 7. Festival Internazionale di Danza Contemporanea di Venezia ha visto Les Grands Ballets Canadiens de Montréal, compagnia oggi diretta dal macedone Gradimir Pankov, presentare tre lavori in un’unica serata. Il primo balletto ha affrontato il titolo più affascinante e controverso della storia della danza che dal 1913, data della prima rappresentazione a Parigi, ha stimolato molti artisti a darne la loro interpretazione: Le Sacre du Printemps. La scelta del coreografo belga Stijn Celis di confrontarsi con tale capolavoro innesca inevitabilmente il collegamento con le versioni novecentesche del Sacre, dall’originaria e contrastata rappresentazione di Nijinskij-Stravinskij, alle successive versioni proposte da maestri quali Béjart e Martha Graham, passando per l’incisivo Sacre di Pina Bausch.

Il Balletto di Montréal propone un lavoro estremamente pulito, dall’impeccabile tecnica e calzante forza espressiva ma che torna ad affrontare i temi del maschile e femminile alla stregua dell’interpretazione bauschiana. La coreografia si sviluppa per quadri collettivi, gruppi di dodici uomini e dodici donne si fronteggiano; il conflitto dei corpi e della partitura musicale si costruisce tramite passi a due o danze di gruppo. I costumi femminili, abiti bianchi con macchie rosse, parlano del sacrificio, ma la composizione di Celis non consente più di rintracciare quella catarsi finale dell’Eletta che aveva caratterizzato il Sacre fin dalla sua origine. Tutto questo è ricercato e dichiarato dalla volontà del coreografo belga di rivolgersi ad una società contemporanea che vede i singoli sacrificare parte di loro stessi per mimetizzarsi nel gruppo, ma il risultato finale, pur nell’indiscussa bellezza dell’opera, non riesce ad aggiungere niente di nuovo al tema.

Di tutt’altra impostazione sono invece i due lavori che sono seguiti alla rappresentazione del Sacre: Bella Figura e Six Dances di Jiří Kylián. Il coreografo ceco, fondatore del Nederlands Dans Theater II, insignito nel 2008 del Leone d’oro alla carriera alla Biennale, ha portato all’interno del Teatro Malibran di Venezia la sua genialità e ironia riscuotendo un enorme entusiasmo da parte del pubblico. Bella Figura, pezzo del 1995, trascina lo spettatore all’interno di una poesia danzata in cui la composizione antinarrativa consente allo sguardo di lasciarsi sopraffare dalla bellezza dei corpi e del movimento.

foto di Akiko Miyake

Il potere estetico dell’opera si fonda sull’esaltazione dell’oggetto in scena; così mentre i petti nudi delle danzatrici e le loro ampie e rosse gonne-crinoline si contrappongono al fondale nero, giochi di luce e di semplice macchineria si accostano alla musicalità barocca (Antonio Vivaldi, Alessandro Marcello e Giuseppe Torelli) per sostenere la liricità del balletto. Il sipario viene utilizzato per la creazione di nuove visioni; la sua apertura determina cornici mutabili, esso diviene materiale scenico che intende distaccarsi dalla sua concezione tradizionale. Il trittico del Balletto di Montréal si è chiuso con Six Dances, breve pezzo del 1986 tramite il quale il coreografo Kylián, in un omaggio a Wolfgang Amadeus Mozart, ha costruito una bizzarra e divertente parodia del Settecento. Il carattere gioioso e la bellezza che caratterizzano le opere di Kylián lasciano tuttavia spazio al pensiero e ciò che ne risulta appare essere un tentativo del coreografo di far emergere dalle ceneri un’arte invecchiata tanto a livello musicale quanto coreutico per consentire a tutti di prenderne almeno coscienza.

Visto al Teatro Malibran, Venezia

Elena Conti

Un tempo per respirare

Recensione a OxygenArsenale della Danza

Foto di Alvise Nicoletti

Il respiro: forse l’elemento più caro alla danza. Su questa valutazione si apre il 7. Festival Internazionale di Danza Contemporanea: Oxygen, elaborato dal Direttore Ismael Ivo assieme ai venti giovani allievi dell’Arsenale della Danza, è un gioco di respiro fisico, di relazioni nello spazio (biologico prima ancora che geometrico).

La diversa ossigenazione di un corpo lo rende di volta in volta danzatore, attore, atleta. È una clorofilla che attiva l’efficienza fisica e la controlla, allineando il ritmo interno dell’organismo al tempo esterno imposto dal coreografo. Così come il cantante, anche il danzatore solfeggia.

La frequenza e la profondità del respiro contribuiscono all’aumento o alla diminuzione nel ritmo di esecuzione di una sequenza, e in quanto tali sono un linguaggio utilizzato dai danzatori quando, non aiutati dalla musica, devono costruire un ensemble perfettamente sincronico. Si ascolta il respiro di chi è davanti a noi e si respira con lui, è l’unico modo per prevedere il ritmo dei suoi movimenti.

Ma non è solo un mezzo di uniformazione dinamica: il respiro genera il pianto, il riso, e tutte le emozioni che si affacciano al corpo. Con le parole di Ismael Ivo, «L’ossigeno è connesso alla percezione del nostro corpo. Provoca un contatto tutto interiore, che scatena sentimenti e sensazioni». Applicare il concetto alla danza al punto da imbastirvi uno spettacolo è rischioso ma necessario, perché le teorie vanno messe in pratica per coglierne i punti di forza e i lati più fragili.

Foto di Alvise Nicoletti

Oxygen è il risultato di uno studio intensivo compiuto dai danzatori dell’Arsenale della Danza insieme a Ismael Ivo, e si presenta con una struttura apparentemente vigorosa ma effettivamente passibile di qualche ingenuità. Azzerate trame o connessioni narrative, lo spettacolo gioca su un’astrazione fatta di spazi vuoti e costumi bianchi. Interessante il trucco, un alone bianco attorno agli occhi che appiattisce sorprendentemente i tratti somatici e rende i volti assonnati e vellutati, con un tocco di inquietudine.

Seducente il prologo, impersonato dalla danzatrice indiana Hema Sundari Vellaluru. Davanti all’ingresso del teatro, accompagnata da colpi di percussioni ma soprattutto da un delicato silenzio, elabora un inserto a coda di rondine tra sequenze meditative, un lento contact con il suolo e frammenti di bharata natyam. È una sorta di gong che raduna gli spettatori: quando la danzatrice lascia il suo posto e sguscia dentro l’ingresso principale, il pubblico può finalmente entrare.

Lo spettacolo è sicuramente lungo, forse un po’ troppo, e in alcuni punti affiora una certa debolezza nella perdita momentanea del focus concettuale e nella ripetitività delle sequenze, oltre al candore naïf di qualche particolare, come un cielo proiettato sul pavimento con le nuvole che vi scorrono sopra. Ma è tenace l’energia dei danzatori, allettante il loro radicamento nello spazio, e la freschezza dell’esecuzione fa vacillare qualche pecca nell’impostazione coreografica. Interessante la collaborazione con l’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Maffeo Scarpis, che ha eseguito dal vivo musiche di Arvo Pärt e John Adams.

Resta la sensazione di una sperimentazione stimolante, condotta con serietà e professionalità nel metodo, ma a tratti un po’ sfocata e leggermente scucita dal suo contesto.

Visto al Teatro alle Tese, Venezia

Agnese Cesari