Ritmi ancestrali, sonorità arcaiche si diffondono. Fumo corposo si spande come nebbia. Maschere di maiale coprono volti, mani guantate muovono fili, animano personaggi. Una bici per due corre veloce, solcando strade per svelare vite. Tra mosse, contromosse, botte e risposte, pedine si muovono sulla scacchiera di Beckett, piccoli tossici di provincia abitano interni domestici, tra spaccio di marjiuana e tragedie familiari. Della XV edizione di Collinarea, che si è svolta a Lari dal 19 al 28 luglio, restano suoni, immagini, frammenti visivi o sonori, per una diversità di proposte, per un programma eterogeo, che ha invaso la rocca rinascimentale e il piccolo teatro, gli spazi aperti e quelli chiusi, che ha unito protagonisti della scena contemporanea e compagnie emergenti, sotto la direzione artistica di Loris Seghizzi, Roberto Bacci, Luca Dini, e con il contributo di Massimo Paganelli. Un festival il cui sottotitolo – genius loci – mette in evidenza il legame con il piccolo borgo toscano, luogo fuori dal tempo. Un “figlio voluto; cresciuto grazie all’entusiasmo di un gruppo di persone che non si è mai sciolto, rendendo onore alla storia di Scenica Frammenti, una storia di compagnia teatrale a carattere familiare” – come si legge sul sito di Collinarea. Un’edizione, quella 2013, che propone due co-produzioni della Fondazione Pontedera Teatro, Il Guaritore del Teatro Minimo e Thanks for Vaselina di Carrozzeria Orfeo, le prime nazionali di Scenica Frammenti, Sogno di un Marinaio, ispirato a Il Marinaio di Fernando Pessoa, e 13 6 81, una matrioska di storie, entrambe con la regia di Loris Seghizzi, senza ricercare un’omogeneità tematica, ma tracciando un percorso di continuità con artisti che ormai si possono definire habituées del festival, e individuando molteplici traiettorie, che attraversano mondi surreali e realtà malavitose, conferenze tragicomiche e partite con la morte.
Resta la piacevole convivialità che ha accompagnato The living room, lavoro del Workcenter of Jerzy Grotowsky and Thomas Richards, ma quel viaggio iniziatico che si compie durante lo spettacolo non riusciamo a farlo nostro, come ricordiamo la violenza delle spranghe e la velocità nella corsa di due adolescenti, in frammento da tandem – in anteprima nazionale – di Lo Sicco-Civilleri, ma le loro storie non restano impresse. È poetico, emozionante, oscuro, carico di tensione e sapienza artigianale, Finale di Partita del Teatrino Giullare, spettacolo pluripremiato, produzione del 2006 di cui molto si è detto e scritto. E poggia su una drammaturgia cruda ma ironica, ha un ritmo incessante con pause di respiro drammatico, Thanks for Vaselina di Carrozzeria Orfeo, presentato in forma di studio (leggi qui l’intervista a Gabriele Di Luca), “controcanto degli ultimi al mondo del benessere”. Solitudini esistenziali, fragilità umane, sono quelle che attraversano i lavori di Roberto Latini, di Ciro Masella e di Andrea Cramarossa, visti tra il 25 e il 27 luglio.
Esterno castello, buio, vento. Tintinnare ferroso, sangue che cola sul mento, schiena ricurva sulla sedia, bottiglia in un mano, parole amare sulle labbra, Roberto Latini in Noosfera Museum – terzo capitolo del progetto Noosfera, prodotto da Fortebraccio Teatro – è un naufrago su un’isola deserta, dove la parola è cantilenata, il gesto è dondolato, la figura umana risucchiata e la mente offuscata da densità materiche. C’è un vibrare di chiavi che non aprono nessuna porta, una patina dorata sugli occhi, quasi a celare lo sguardo, c’è l’incedere incerto dell’ubriaco, un blaterare ripetuto e sconnesso, e quel ‘mettere la strada sotto i piedi’ senza andare in nessun posto, girando intorno a una vita che si riavvolge su se stessa. Un lavoro di cui si è parlato in occasione di Primavera dei Teatri, dove è stato presentato in prima nazionale (leggi qui), uno spettacolo metaforico, che stimola diverse visioni e molteplici interpretazioni.
Sempre esterno, ancora castello: bava alla bocca, occhi di carta, Andrea Cramarossa (Teatro delle Bambole) affronta Kafka nel regno dei cieli – spettacolo per un attore solo – mascherando volto e sguardo dietro figure antropomorfizzate, utilizzando vecchi mangianastri che sputano voci del passato, accendendo e spegnendo luci domestiche che ondeggiano all’oscillare degli stati d’animo. È un padre duro e esigente, un figlio ricurvo e malaticcio, una madre un po’ sbiadita. È la famiglia che accerchia e soffoca il singolo, la società che calpesta l’individuo. Mescola l’autobiografia kafkiana con brani tratti da La metamorfosi, Il digiunatore, Nella colonia penale, l’attore pugliese, per uno spettacolo cupo, che se riesce – in alcuni momenti – a schiacciarci con un senso di oppressione, a suscitare un disagio, un malessere, in altri resta intrappolato, chiuso in se stesso, non rende palpabile fino in fondo l’angoscia dell’esistenza.
Interno, teatro, claustrofobia, la luce della luna che squarcia il buio di uno spazio angusto. Reclusione e immaginazione, solitudine e follia. Quella di Nannetti Oreste Fernando, tratteggiata nella pièce firmata da Ciro Masella e Kantestrasse, meglio noto con lo pseudonimo di N.O.F.4., dove quattro sono i luoghi che ne hanno imprigionato il corpo ma non la fantasia: un orfanotrofio, un carcere, due manicomi. Una biografia, quella del “colonnello astrale, scassinatore nucleare, astronautico ingegnere minerario” incisa con la fibbia della cintura sul muro del padiglione Ferri nell’ospedale psichiatrico di Volterra. Una storia, quella del viaggiatore, del visionario, dello psicotico, raccontata da quattro attori, e da molte (forse troppe) parole. Se Muro riesce a restituire il vociare interiore, l’affollamento mentale, l’asfissia psichica, quel frastuono che rende l’uomo folle e geniale al tempo stesso, si sente la mancanza – di tanto in tanto – di un’incisione che sia silente, di un solco muto, di un fragore sordo, che possa lasciare spazio all’inquietudine, al turbamento, e infine al sogno.
Rossella Porcheddu