C’è un divano sgualcito, un tavolo non apparecchiato, una finestra sempre chiusa. Ci sono due serre domestiche per la coltivazione di marijuana, due piccoli spacciatori di provincia, un padre scappato in Messico e tornato con abiti e curve femminili, una madre sfatta, sempre in cerca di soldi, affetta da ludopatia, un’adolescente credulona, che diventa corriere della droga. Ci sono abbandoni, solitudini, ferite e rancori, in Thanks for Vaselina di Carrozzeria Orfeo, presentato in forma di studio durante la XV edizione del Festival Collinarea di Lari. A raccontarci nascita e evoluzione dello spettacolo – coprodotto da Fondazione Pontedera Teatro e in collaborazione con La Corte Ospitale e il Festival Internazionale Castel dei Mondi di Andria, dove sarà presentato in prima nazionale – Gabriele Di Luca, che firma il testo, partecipa alla regia collettiva e entra in scena insieme a Massimiliano Setti, Beatrice Schiros, Alessandro Tedeschi e Francesca Turrini. Appena ritirato, a Spoleto, il Premio Siae alla Creatività 2013 come miglior autore teatrale, per “un’incisiva espressione di moderna drammaturgia che fa uso di un linguaggio acre, disadorno, a volte osceno, e che non teme lo scandalo e l’irriducibilità del tragico”, l’attore e autore marchigiano tratteggia le linee del nuovo spettacolo del quale – per ora – abbiamo avuto soltanto un assaggio.
«In questo primo atto c’è la presentazione dei personaggi e lo svelamento dei conflitti principali, mentre il secondo è più emotivo, e il terzo è quello delle catastrofi. È una commedia, anche molto dura, che inizia – già in questa prima parte – ad aprire dei crepacci, tratteggiare delle zone d’ombra».
Si tratta di una vicenda familiare?
Sì, i cinque personaggi in scena hanno una storia familiare che li unisce e li riunisce in un luogo, ma ognuno ha anche il proprio vissuto personale. Ci sono la lotta per il potere e la lotta per l’amore. Dietro lo spaccio di marijuana c’è l’America che bombarda il Messico per distruggere le piantagioni di droga. Ci sono due trentenni senza nulla davanti e con poco dietro che hanno scelto due modi completamente diversi, la disillusione e l’idealismo sfrenato, per combattere il male della loro generazione. Ci sono una madre che ha abbandonato il figlio e un’adolescente sola, cacciata di casa, che dorme in macchina. C’è, sullo sfondo, una collettività che sfrutta le insicurezze, il bisogno di amore, la solitudine. Ci sono coppie sfaldate e mancate riconciliazioni. È il controcanto degli ultimi al mondo del benessere.
In questo, come in altri lavori di Carrozzeria Orfeo, si ruba alla realtà?
Sempre, ma si mescola con il surreale, con l’assurdo. Perché la quotidianità così com’è, come l’apprendiamo dai giornali, a un certo punto diventa piatta e io credo che il teatro abbia bisogno, invece, di trovare qualcosa di diverso, per raccontare la realtà e la non realtà. Vivo in un paese di seicento abitanti sul Lago di Varese, pieno territorio leghista dove si parla solo dialetto, e i due vecchi di Robe dell’altro mondo (leggi la recensione), per fare un esempio, li ho visti migliaia di volte. Quella madre ludopatica di Thanks for Vaselina l’ho incontrata tante volte, in tanti bar.
Da una parte la violenza del quotidiano, dall’altra la ricerca di surrealtà. Non vuole essere, però, un ammorbidimento?
L’immagine che riassume il mio modo di vedere la vita è questa: c’è un uomo che sale su uno sgabello, si mette una corda al collo, e quando lascia andare lo sgabello crollano lampadario e muro, e lui si trova a terra con un taglio sulla mano. È un alternarsi costante di tragicità e ridicolo. L’ironia apre una strada verso il pubblico e credo che sia un grandissimo antidoto alla retorica.
C’è, negli spettacoli di Carrozzeria Orfeo, la cura della parola ma anche la presenza forte del corpo, l’attenzione all’azione, alla danza, come si è visto in precedenti lavori. Sarà così anche in quest’ultimo spettacolo?
Nel secondo atto ci sarà un momento onirico, un lavoro ritmico e coreografico, creiamo una partitura per cinque piattini e cinque tazzine di caffè. Tentiamo di mettere un po’ di tutto nei nostri lavori, azione e parola, musicalità e ritmo, violenza e dolcezza. Perché il cinismo senza il suo contraltare di speranza non ha senso, e così l’amore senza il contraltare di odio, e così la crudezza senza poeticità.
Intervista a cura di Rossella Porcheddu