emma dante acquasanta

L’ “acquasanta” del Sud

Recensione a Acquasanta – regia di Emma Dante

foto di Angelo Maggio

Un uomo ancorato. Non alla terra ferma, disprezzata, vissuta con alienazione, legato invece a corpose corde di canapone al mare, acqua benedetta, luogo dove esplicitare l’essere, l’esserci. Un uomo avvinghiato al suo destino di marinaio unito all’acqua da un cordone ombelicale che lo fa non svezzato ai ritmi ipocriti dei meccanismi terreni.
Ritmi scanditi in tempi altri, sull’immaginaria barca dove Carmine Maringola rievoca i suoi trascorsi marittimi nella scena disegnata, scritta e diretta da Emma Dante, l’eroina siciliana acclamata dentro e fuori nazione. Ritmi incalzanti, succitati, a consolidare la cifra stilistica della regista palermitana che nei tempi scenici traspone l’istinto liberato. L’istinto scardinato da sovrastrutture figlie di un retroterra culturale, soffocante e causa di timori attitudinali, vergogne.

Acquasanta è la storia di una passione, forse l’unica possibile per sorte natale, per il mare e le meraviglie di un universo altero. Passione diventata malattia, tinta da povere ambizioni, poco confacenti alla caratterizzazione topica della gente dei moli. L’ambizione del nutrirsi di questo amore per la spuma e la balìa delle onde. Sulla testa dello “Spicchiato” Maringola, degnissimo personaggio dell’idea attoriale della Dante, gravitano dei contaminati a ridestargli, con il loro ticchettìo inesorabile, l’anelito fantasmagorico del tempo rievocato nei ricordi. I ricordi dei suoi trascorsi di mozzo, anzi mezzo mozzo, esperto di nodi e navigazioni, interrotto da un beffardo destino e abbandonato sulla terra ferma così aspramente rifiutata («a terra ferma è n’illusione»). E allora il ricordo diventa immaginifico, ultimo stadio folle mediante cui ritornare sull’acqua, a immedesimarsi ancora sulla prua di questa nave fantastica, in balia della burrasca (semiotica dell’alterazione nervosa, del dissapore dell’abbandono), impersonando la sua ciurma mossa da fili di pupi, tentativo estremo di comunicare giorno e notte con il suo mare.

Acquasanta è un molo palermitano. Dal quale u’ Spicchiato si imbarca a quindici anni. È l’acqua Santa del mare, puparo, burattinaio di un destino divenuto malasorte. Perché principe subordinato a legge di terra ferma. Legge di uomini. Il marinaio, allora, è come il pastore errante leopardiano, statuario testimone di una comprensione atavica con le verità silenti del divenire universale tradotte all’errante dallo svelarsi vergine della natura e i suoi linguaggi. Comparsa, fra le greggi di uomini animati da ben altri fili…
Acquasanta
è un racconto che si compie nella virulenza benefica dell’avvertito. Traducendo simultaneamente dal palco all’anima. Come da voci sfuggevoli qua e là e senza apparente legame, ma strutturate intimamente a mo’ di decalogo.

foto di Angelo Maggio

Grazie a una regia contemporanea, decanonizzata, con incursioni di tradizionalità modernizzate, volta all’ingraziarsi il pubblico nel primo quarto d’ora di scena, con servigi e coinvolgimento diretto, ironico, dinamico, interattivo, e un battere in 2/8 costante nel resto dell’opera da mantenere vivido questo sussultorio rapporto tacito con la platea. Una regia dalla fisiognomica accentuata, corporale e poetica, vibrante. Lustrando la compiutezza, la percezione di una linearità precisa, dipanata nonostante la difformità del racconto, una pastura di emozionali resoconti orali appartenenti alla psiche e all’indole di un uomo strappato al grembo materno, che riporta in superficie con le risonanze della suggestione piuttosto che con trame narrative. L’uso maestrale del testo, codificato dal dialetto, quale riconoscenza identitaria, mediterranea, e traccia di mistificazione tra finto e inscenato. Codice della lettura subliminale di quel sociale portato in scena non sottoforma di denuncia ma di osservazione partecipe di umanità, rintracciabili in strutture interiori comuni, destinate al manifestarsi in accaduti sofferenti, marginali, miseri. Avanguardia e disciplina attoriale, purezza estetica e azzuffo interpretativo pensato all’assimilazione pulsante, radiografia di interni sensibili seminati in platea e germogliati per il tempo del trasposto.

Commistione estetica (i fili ai quali mediante tre carrucole sono attraccate delle ancore; la prua di una scialuppa di salvataggio, i contaminati sulla testa del personaggio) e fisica, in sospensione tra l’onirico, allucinatorio, e un concreto beffardo materializzato dal ricordo.
Maringola è superbo, passando da un pupo a un personaggio, da un carattere a un altro, dall’ambiguo all’individuale, dal doppio al sé. Con gli occhiali sul naso… Segno di appartenenza.
Lo spettacolo chiude la rassegna “More Fridays” di marca Scena Verticale, andata in scena al teatro Morelli di Cosenza grazie all’impegno dell’amministrazione comunale cosentina. Gradito responso in numeri e critica in una terra in cui il contemporaneo – inteso come termine – fa pensare ancora a qualcosa di astratto. Quando ci vorrebbero, semplicemente, più riconoscimenti al merito e alle giovani forze contro i monopoli dei soliti noti cementificati da strette di mano, mafie e prostituzioni fisiche e intellettuali.

Visto al Teatro Morelli, Cosenza

Emilio Nigro