Dal 5 al 14 dicembre negli spazi post-industriali di Lenz Teatro, a Parma, si svolge la XIX edizione del festival Natura Dèi Teatri (ND’T), un progetto di creazioni performative contemporanee internazionali, di produzione artistica e di riflessione intellettuale sullo stato dell’arte contemporanea, fondato nel 1996 da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, direttori artistici di Lenz Rifrazioni.
Fin dalle sue origini il festival è stato contrassegnato dall’attenzione alla creazione contemporanea su scala europea, dall’interdisciplinarità degli eventi proposti e dal forte radicamento al territorio, coniugato con ad una profonda vocazione per la cultura performativa internazionale.
I Due Piani è il tema concettuale del Festival 2014 che, dopo Ovulo nel 2012 e Glorioso nella scorsa edizione, conclude il progetto triennale alimentato dalle suggestioni filosofiche di Gilles Deleuze. Il programma propone «dieci declinazioni scenico-performative dell’identità duplice, stratificata, multipla del linguaggio», attraverso creazioni internazionali di teatro, musica, danza, video e performance, inclusi due “sconfinamenti” performativi in una celebre chiesa parmigiana.
Si alterneranno dunque dal 5 al 14 dicembre nella Sala Majakovskij e nella Sala Est di Lenz Teatro: Maguy Marin, Pieter Ampe, Tim Spooner, Paul Wirkus, Via Negativa, Alessandro Berti, Andrea Azzali e le due nuove produzioni di Lenz Rifrazioni (Verdi Re Lear – L’opera che non c’è e Adelchi) introdotte dagli interventi teorici di Enrico Pitozzi.
Per approfondire temi e prospettive del festival, abbiamo incontrato i direttori artistici, Francesco Pititto e Maria Federica Maestri.
Il festival internazionale di arti performative Natura Dèi Teatri completa nel 2014 il progetto triennale incentrato sul pensiero del filosofo francese Gilles Deleuze. Dopo Ovulo (2012) e Glorioso (2013), il tema concettuale di quest’anno è I due piani. Quali sono allora i due piani dedotti dalla riflessione deleuziana entro cui il festival articola la sua proposta?
Re Lear – nuova produzione di Lenz presentata al festival – è l’opera mancata che incarna perfettamente l’idea deleuziana di desiderio ed esemplifica “i due piani” individuati dal filosofo. Verdi ha desiderato per tutta la vita comporre quest’opera, ma la tensione si risolve nella epifania di uno spettro. Il libretto c’è, ma la musica è assente e sul Lear verdiano incombe il fantasma di Shakespeare e della sua opera grandiosa. La dimensione straordinaria di questo lavoro, che presentiamo al festival in forma di studio, risiede nel tentativo di ricostruire l’opera a partire da fondamenta immateriali, invisibili, di un desiderio di cui rimangono però frammenti concreti in diverse opere di Verdi. Restituire, con la nuova scrittura musicale di Scanner, un’identità scenica a qualcosa di impalpabile: “aria sonora” come definì la musica Ferruccio Busoni. Il piano di Giuseppe Verdi e il piano di Scanner si appaiano e, per induzione, si attirano per poi respingersi e così via. Dentro questo movimento continuo si aggiungono versi che provengono dal libretto dell’opera e dal Lear di Shakespeare, movimenti e gesti performativi sia attorali che dei cantanti, mentre le immagini di un Lear nudo e di una evanescente Cordelia impongono la loro presenza per l’intera durata dello studio.
ND’T è storicamente un festival di alto valore internazionale per quanto riguarda la presenza di artisti portatori di raffinate ricerche performative provenienti da tutto il mondo. Anche in quest’edizione il parterre è ricco. In che modo gli artisti ospiti incontrano con le loro opere la poetica deleuziana alla base del progetto del festival?
Partiamo citando Deleuze: «Perché accada qualsiasi evento c’è bisogno di una differenza di potenziale e ci vogliono due livelli, bisogna essere in due, allora accade qualcosa. Un lampo o un ruscelletto e siamo nel dominio del desiderio. Un desiderio è costruire. Tutti passiamo il nostro tempo a costruire. Per me quando qualcuno dice ‘desidero la tal cosa’ significa che sta costruendo un concatenamento. Il desiderio non è nient’altro». Cos’altro è il lavoro dell’artista se non costruire, e poi costruire e poi continuare a costruire. Continuare a ricercare la differenza di potenziale, i due livelli. Un continuo duello tra passato e presente che è già passato, l’attimo esistente è già memoria. Cos’è contemporaneo? Forse due piani paralleli, due livelli di incontro e scontro, quella luce delle stelle che vediamo in cielo di notte e che pur viaggiando per sempre verso di noi mai ci raggiungerà e di cui percepiamo in primo luogo il buio dal quale proviene? La luce dalla tenebra. Come nell’inquietante immagine/metafora che Giorgio Agamben usa per descrivere il tempo presente e la contemporaneità.
La luce e la tenebra, i due piani e la differenza di potenziale. Quel che non si può esprimere con la parola diventa per l’artista contemporaneo più vitale della luce e dell’evidente, quel che pensa di non poter vedere lo affascina, quel che è nascosto lo incuriosisce, la sua immagine-cristallo lo commuove, la rifrazione di quel che non si conosce e dell’indicibile lo esalta, senza sapere dove sia posta e quanto densa sia la materia che devia, dal principio, il suo raggio di luce. Ecco allora i volti anonimi o riconoscibili di Singspiele di Maguy Marin, Re Lear e il desiderio ricostruito di un’opera mai compiuta di Verdi-Lenz-Scanner, il Maestro Eckhart di Berti che penetra nell’oscurità dello spirito, il Corpo Sacro di Monophon, The Telescope di Tim Spooner a dar forma alla materia minima, Pitozzi a radiografare la materia sonora in Magnitudini, Wirkus-Lenz a scavare nel buio hölderliniano con Diotima, Via Negativa a ricercare il limite del corpo umano e, infine, Adelchi di Manzoni-Lenz con i suoi attori sensibili, dotati di plusvalore espressivo.
Veniamo alle produzioni di Lenz, riconosciuta compagine artistica di ricerca fondatrice del festival. A ND’T presenterete due nuove creazioni eterogenee ma coerenti con la vostra rigorosa linea estetica e poetica, Verdi Re Lear – L’opera che non c’è e Adelchi. Quali elementi hanno guidato l’approccio simultaneo – seppur entro strutture linguistiche estremamente differenti – a Shakespeare/Verdi e Manzoni?
Primo fra tutti la riflessione sulla natura della tragedia nella contemporaneità: la concezione tragica individua la contraddizione e dispera di trovare una via d’uscita. Non c’è opposizione, non c’è conflitto, antagonìa, ma la piena consapevolezza che non esista una via di fuga. La catena familiare omogenea – padre/figli – costitutiva dell’unità sociale finalizzata alla trasmissione del potere, si spezza irrimediabilmente, e i vecchi, sopravvivendo al destino di morte dei figli, (Lear a Cordelia, Desiderio a Ermengarda/Adelchi), incarnano questa contraddizione sofferente. I giovani sono rimossi dalle necessità della Storia, scompaiono inesorabilmente dalla scena della vita.
Re Lear è un primo studio, elaborato con il musicista elettronico inglese Robin Rimbaud aka Scanner, sull’opera mai realizzata da Verdi, un disegno ambizioso e di alto valore, soprattutto se messo in scena a Parma, città verdiana (in crisi) per antonomasia. Come si sviluppa – e proseguirà – il progetto e quali sono i due piani del Lear di Lenz?
Si tratta, appunto, di una premessa, di un primo studio che prelude ad un approfondimento che, oltre al confronto di due scritture musicali differenti per tempo storico ed estetico, permetta di produrre nuova ricerca linguistica nei due campi della drammaturgia teatrale e musicale. I brani proposti da Scanner sono ampie masse sonore “sentimentali”, echi di rumori e suoni della vita reale che rimandano a trame narrative di forte impatto emotivo. Così come la musica verdiana spinge alla partecipazione drammatica, quella di Scanner coinvolge il pensiero in grandi quadri. Le rifrazioni dei due autori, insieme al contesto sperimentale di Lenz, pensiamo possano favorire la creazione di nuova scrittura musicale se, dalla premessa, lo studio potrà proseguire nel proprio percorso di ricerca. I giovani cantanti sono quattro – Chekmareva Ekaterina m.soprano, Takahashi Haruka soprano, Lorenzo Bonomi e Gaetano Vinciguerra baritoni – selezionati da Donatella Saccardi docente di canto al Conservatorio “A.Boito” di Parma.
Le arie cantate sono: Me pellegrina ed orfana soprano (Leonora) da La Forza del destino Atto I, Condotta ell’era in ceppi mezzosoprano (Azucena) da Il Trovatore Atto II, Chi mi toglie il regio scettro? baritono da Nabucco Atto III, tratti da un elenco proposto dal M° Carla Delfrate secondo un criterio di affinità tematiche e drammaturgiche con il libretto di Re Lear di Somma/Verdi e il King Lear di Shakespeare. I performer sono tre: Barbara Voghera, Valentina Barbarini e Giuseppe Barigazzi, che appare nel video della scena. I brani di Robin Rimbaud Scanner che compongono la drammaturgia musicale sono: Frame 82, Faure 100, Intercontinental, , Cazneau, I waited a lifetime, Saturday, Lachrimae Minimal. La struttura musicale complessiva contiene, in tre parentesi di silenzio, le arie verdiane eseguite dal vivo. La drammaturgia in scena presenta, in nuce, tre figure femminili, due figure maschili (di cui una virtuale) e il fool. L’installazione presenta tre schermi trasparenti con linee di fuga laterali che convergono verso il fondo sul quale sono proiettate le immagini. La prima aria proveniente da La Forza del destino presenta un testo pressoché identico a quello che appare nel manoscritto di Re Lear di Giuseppe Verdi, così come alcuni passi recitati dal Fool e da Delia; la seconda, tematica, canta la follia del Re che perde lo scettro del potere, la terza accoglie le osservazioni del critico Gabriele Baldini dal libro Abitare la battaglia sulla vita dal Maestro: «…io credo che Verdi non abbia mai più raggiunto, dopo il Trovatore, nessun punto tanto alto: Azucena è proprio quel personaggio che lo ha stranamente avvicinato il più possibile al non mai raggiunto ideale di Re Lear, perché anche Lear si sente che non è più soltanto se stesso, ma che si è caricato sulle spalle l’eredità di dolore di tutti i padri abbandonati dai figli e che, nel misurarsi con la tempesta, s’è fatto anche lui una forza della natura, un grumo di sentimenti nel quale brulicano, senza mai potersi chiarire e placare, gli affetti traditi e offesi. Per questo, tra l’altro, il linguaggio di Re Lear è eminentemente per immagini, secondo un procedimento espressivo che trova singolari analogie nel linguaggio musicale». L’ampliamento della figura del Lear shakespeariano in una dimensione di madre ci è apparsa, da subito, potente, complessa e carica di rifrazioni drammatiche e poetiche.
Al termine dell’aria Ekaterina, dirà con parole di Lear: «Dov’è che sono stata? Dove sono?». I versi del Re shakespeariano al femminile, dopo aver cantato il ricordo tremendo della madre in ceppi del Trovatore di Verdi. Così come il buffone Mica ci è parso invece, nel libretto di Somma/Verdi, figura meno articolata del fool shakespeariano. Il fool, oltre che buffone, è anche matto (come scrive ancora Baldini) ed è di questa follia che gli attori sensibili hanno nutrito i nostri Hamlet. Il desiderio di farne un buffone ragionevole è più consono alla visione razionalistica dei sentimenti umani di Verdi, così come la figura di Cordelia (Delia, nel libretto) è più delineata come figlia dotata di grazia e bellezza che non come femmina ribelle. Il desiderio inesaudito si distribuisce, e in parte trova soddisfazione, in figure disseminate nelle opere già scritte e musicate. A tal riguardo anche la drammaturgia complessiva segue l’acuta analisi di Baldini: «È probabile che Verdi leggesse il Lear – tradotto com’è da credere dal Carcano, ch’era suo amico – con molta più sottigliezza dei suoi critici, e che quella storia di padri e figli travolti nella follia e nella cecità e soggetti, senza scampo, a una natura in agguato, non sapesse suonargli congeniale. Non solo, ma poté pensare che un’opera così possentemente innervata di musica nella stessa struttura dei suoi sentimenti e delle sue immagini, non tollerasse che le si aggiungesse, per l’appunto, altra musica: tutta quella necessaria c’era già». La “musicalità” di Shakespeare è stata, nel tempo, una costante delle nostre trasduzioni sceniche delle diverse opere: Romeo and Juliet, il Sogno, Macbeth già con un innesto verdiano nel 2001, le diverse versioni di Hamlet che sembrano non avere soluzione di continuità creativa. Rimangono, però, i frammenti sparsi di quel desiderio in diverse opere e personaggi verdiani e il confronto tra concatenazioni contemporanee di linguaggio e la tradizione musicale può diventare materia d’indagine ancora più approfondita e preludio di nuova creazione.
Torniamo quindi alla definizione del “desiderio” di Deleuze: dare forma a un desiderio, dopo averne scandagliato gli impulsi primari e le manifestazioni più nascoste, è percorso affascinante di ogni ricerca linguistica; vestire un fantasma e vederlo muoversi solo attraverso il movimento delle stoffe è già averlo consegnato al mondo reale che, shakespearianamente, è fatto di sogni e di niente.
Adelchi riprende invece la biennale indagine manzoniana intrapresa nel 2013 con i monumentali Promessi Sposi e rimarca la continuità del vostro percorso di ricerca ormai ventennale con attori sensibili. In che modo la tragedia ha incontrato, in questo nuovo lavoro, l’universo della sensibilità? Quale sarà la cifra estetica di quest’ultima produzione?
Adelchi è il secondo lavoro legato al nostro progetto biennale dedicato a Manzoni. È il lato oscuro de I Promessi Sposi: una tragedia-blind spot, un’area cieca, una zona di non visione a luminosità intermittente. In questa macchia scura, a tratti illuminata dalla presenza di Dio, si compie il comune destino luttuoso dei due fratelli – Ermengarda e Adelchi. Questi due piani si rispecchiano nel buio/luce interiore dell’interprete Carlotta Spaggiari (Ermengarda), attrice con sindrome dello spettro autistico, e coincidono con la sua più intima natura: duplice nel suo assoluto desiderio di presenza e bisogno di ritiro, nella ipersensibilità emotiva dispiegata in silenzio espressivo, nella straordinaria densità artistica silenziata dalla fobia comunicativa. La sua duplicità assume nella creazione scenica forme misteriose; scardinando i processi logici e analogici, le prevedibilità comportamentali, ci avvicina al sublime: forza distruttrice e rigeneratrice dell’atto performativo. In Adelchi si sostanzia la ricerca pluriennale di un “verbo” pedagogico che renda le persone affette da disturbi dello spettro autistico in grado di esprimere le emozioni silenziate attraverso le stimolazioni drammaturgico-sensoriali dell’esperienza teatrale. Attraverso questo processo si ribalta la prospettiva dalla quale guardare alla sensibilità: gli apparenti limiti cognitivi e comportamentali delle persone sensibili non sono più considerati unicamente sintomi di un deficit patologico, ma divengono elementi da elaborare e tradurre in linguaggio estetico contemporaneo attraverso il confronto e l’agone – anche fisico e vocale – con i classici.
Il programma di ND’T prevede due “sconfinamenti” in spazi urbani altri dalla sede storica di Lenz, presso la chiesa di Santa Maria del Quartiere, dove prenderanno vita sia il Maestro Eckhart di Alessandro Berti che la performance elettronica Corpo Sacro di Andrea Azzali. È questo un tentativo di allargare il tessuto performativo extra moenia e rendere la città un ambiente di performatività diffusa, visto il ruolo cruciale – ma topograficamente periferico – di Lenz nella vita culturale di Parma?
È nel DNA del festival, da sempre tempo-spazio di dialogo non solo con artisti e formazioni interdisciplinari, ma con i luoghi del territorio. Il festival, in origine Laboratorio delle Arti, è stato nei primi dieci anni uno spazio di ricerca, in cui gli artisti venivano invitati a realizzare workshop in condizioni e luoghi di lavoro inediti e stimolanti. La valorizzazione, la fruizione e la ricerca di nuove funzionalità pubbliche di monumenti storici e ambientali della provincia di Parma sono stati i principi costitutivi dell’attività di Natura Dèi Teatri; elemento distintivo e fondativo del festival è stata infatti l’interazione tra il patrimonio storico, artistico e monumentale dei territori coinvolti nella provincia di Parma, e le creazioni live che in esso venivano create. Negli anni sono stati “contaminati” complessi monumentali di grande valore artistico, come la Corte medievale di Giarola, il Palazzo Ducale di Colorno, la cinquecentesca Rocca dei Rossi di San Secondo Parmense, oltre a chiese, chiostri, piazze, ville e giardini storici. Dal 2009 – con lo slittamento del festival nel periodo autunnale – sede e fulcro del progetto è Lenz Teatro, esempio di teatro concreto ottenuto da spazi post-industriali reinventato ad abitazione creativa, il festival si è evoluto nella dimensione di un progetto drammaturgico in dialogo con artisti e formazioni di significativo profilo estetico. Il tentativo di quest’anno è di tornare a colloquio con i luoghi storici della città, esaltando la relazione concettuale tra la creazione artistica e l’identità dello spazio in cui viene presentata. Ad essere dominante e determinante rimane sempre l’identità dell’opera d’arte e non il preconcetto politico-culturale.
Inevitabile una domanda sul futuro, considerata anche progettualità pluriennale che contraddistingue il lavoro di Lenz Rifrazioni e ND’T. Dopo Deleuze esiste già una traccia concettuale e tematica per le prossime edizioni del festival?
Il prossimo progetto triennale è la Materia del Tempo – Porte (2015), Punto Cieco (2016), Scia (2017) – e si ispira questa volta alla ricerca plastica di Richard Serra, un artista fondamentale nella definizione della lingua scenica di Lenz.
Intervista a cura di Giulia Morelli