intervista attilio nicoli cristiani

La complessità dell’essere umano: incontro con il Teatro delle Moire

Incontro con Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani – Teatro delle Moire

Never Never Neverland – foto di Lucia Puricelli

La rassegna teatrale Who’s who? Identità plurali e cose del genere… organizzata dall’Assessorato alla Cultura delle Differenze del Comune di Venezia, in collaborazione con Vortice/Teatro Fondamenta Nuove, si è aperta (giovedì 29 novembre) con lo spettacolo Never Never Neverland – NNN di Teatro delle Moire. Abbiamo incontrato la compagnia milanese per conoscere e approfondire il lavoro artistico e la parallela attività di organizzazione del Festival Danae, giunto quest’anno alla XIV edizione.

Mi piacerebbe iniziare chiedendovi di raccontare come si è formata la compagnia. Ci sono state necessità dettate anche dalla realtà milanese di quegli anni?
Alessandra De Santis
: Prima di essere Teatro delle Moire, venivamo da un’altra esperienza: facevamo parte di un’associazione che si chiamava Metropolis, costituita sia da attori che registi; dopo aver fatto ognuno un proprio percorso, abbiamo cominciato a fare “auto-formazione”, invitando artisti e avviando collaborazioni. Poi è avvenuto un incontro fondamentale con Danio Manfredini e – per quanto non possiamo dire che sia il nostro maestro perché lui non si è voluto dichiarare tale per nessuno – abbiamo riconosciuto nella sua poetica delle cose che ci appartenevano; il lavoro di Danio sul corpo e sulla danza ha spostato la nostra attenzione dalla recitazione alla presenza e, attraverso lui, ci siamo avvicinati ad artisti quali Raffaella Giordano, Monica Francia, Abbondanza/Bertoni e molti altri.
Quando l’esperienza di Metropolis si è conclusa, Attilio ed io abbiamo deciso di portare avanti il nostro lavoro di formazione e di sperimentazione e nel 1997 ci siamo costituiti come Teatro delle Moire. Nello stesso anno ho creato un solo su Camille Claudel (Camille Claudel, Scultrice, ndr) e, in seguito all’incontro con altre autrici che stavano lavorando su delle biografie di artiste, ho pensato che mi sarebbe piaciuto provare a fare una piccola rassegna chiamando le compagnie che conoscevamo; non riuscivamo a pagarle, ma mettevamo a disposizione il teatro, con un piccolo contributo del Comune di Milano che appoggiò subito la nostra proposta forse perché, al tempo, era molto declinata al femminile. È così che è nato il Danae Festival.
La realtà milanese è complessa perché c’è molta chiusura rispetto alle cosiddette “visioni contemporanee”, rispetto al teatro del presente. È quindi difficile entrare in una stagione, chiedere spazi e attenzione. È anche difficile quindi che si possano creare delle collaborazioni tra artisti e non è mai accaduto come in altre regioni d’Italia, che una grande istituzione teatrale si sia occupata di dare voce e spazio alle nuove generazioni, o che abbia a qualsiasi titolo collaborato con realtà che sarebbero state portatrici di altri linguaggi e altre forme della scena.

Nel 2008 avete ottenuto uno spazio, LachesiLAB…
A.D.S.
: Si, ce lo siamo preso! C’è un’istituzione a Milano che si chiama Aler (Azienda Lombarda Edilizia Residenziale, ex Istituto Autonomo Case Popolari, ndr) all’interno di cui ci sono spazi fatiscenti e abbandonati; dopo lunghe trattative, siamo venuti a un accordo per uno di questi. Avere uno spazio, anche se solo dal 2008, ci ha cambiato la vita perché è innanzitutto un luogo dove si possono depositare idee, oltre che i costumi e le scenografie… Dopo i tanti traslochi da uno spazio prove a un altro con le nostre masserizie, dopo un lungo nomadismo nei posti più assurdi, freddi e talvolta anche sporchi che si potessero trovare! (ride, ndr). LachesiLAB è diventato un punto di riferimento attorno al quale si sono creati scambi, progetti di residenza con giovani artisti del territorio che hanno presentato, in seguito, il proprio lavoro a Danae.

Nel 1999 è nato Danae: come convive e dialoga l’attività della compagnia con quella del festival?
A.N.C.
: Siamo in una fase transitoria: l’attività della compagnia sta crescendo mentre quella del festival, che ha avuto una grossa ascesa, subisce i contraccolpi di ciò che significa organizzare un’iniziativa come Danae, legata a quei linguaggi contemporanei che non riescono a trovare finanziamenti adeguati. Per un certo periodo, anche a causa della mancanza di uno spazio, il festival è stato la principale attività dell’associazione; la parte produttiva era sempre collegata a progetti più piccoli e meno impegnativi, legati alla dimensione urbana: a forme che ci permettevano, visto che non avevamo un luogo fisico, di costruire un lavoro agile. Dal 2008 con LachesiLAB, e anche grazie al fatto che Danae stava arrivando al suo massimo apice, i due aspetti si sono ben affiancati: abbiamo avuto uno spazio che poteva creare una buona sinergia tra festival e compagnia… tutto si è accelerato, l’attività è diventata frenetica…
A.D.S.
: Nei primi anni – che erano caratterizzati dalle stesse difficoltà economiche che stiamo rivivendo ora – il Teatro delle Moire era presente al festival con lavori propri; in seguito abbiamo deciso di non partecipare, perché fare entrambe le cose stava diventando schizofrenico. Non so se torneremo mai a rappresentare nostri spettacoli al festival; per il momento le due attività sono scisse, anche tenendo fede all’impegno di non mettere in campo una legge di scambi che – vista la mancanza di spazi e di opportunità di rappresentazione – a volte ci è stata proposta. Questo ultimo triennio siamo stati sostenuti dalla Fondazione Cariplo che, nel momento in cui è venuto meno tutto, ha fatto le veci dell’ente pubblico.
A.N.C.
: Gli enti pubblici ci sono – il Comune è quello che ci sostiene maggiormente – ma hanno modalità di relazione faticose, chiedono un enorme investimento di tempo ed energie. Di certo la Fondazione ha incentivato l’attività culturale lombarda che altrimenti rischiava di spegnersi e, forse fuori dalle logiche di potere, ha finanziato sia la grande istituzione che la piccola compagnia, realtà anche deboli hanno avuto così la possibilità di rafforzarsi. È stato molto importante, anche se avrebbe dovuto essere il compito di un ente pubblico; adesso però sono state presentate progettualità e collaborazioni mirate in ambito culturale che coinvolgeranno insieme Fondazione Cariplo e Regione Lombardia.

Never Never Neverland – foto di Lucia Puricelli

Caratteristica della vostra poetica, e nello specifico di Never Never Neverland – NNN, è il riferimento alla cultura pop. Vi riappropriate di oggetti e materiali inutilizzati. Come avete lavorato alla costruzione drammaturgica dello spettacolo?
A.D.S.:
Essendo costretti alla povertà, abbiamo cercato di fare di necessità virtù – che, poi, è diventata un interesse profondo. Come diceva Kantor, senza volere fare paragoni, i vecchi oggetti, gli scarti, messi in scena riprendono una nuova dignità, una nuova vita e, in qualche modo, diventano eterni. E anche per noi non si tratta di un’operazione di nostalgia ma di una possibilità di tenere assieme il passato, il presente e il futuro. In particolare abbiamo recuperato abiti e oggetti che appartenevano alle nostre famiglie e ai performer coinvolti nel lavoro o provenienti dai nostri vecchi spettacoli. Quindi li abbiamo depositati a terra, creando una sorta di isola, e abbiamo cominciato a capire, improvvisando, cosa potesse accadere.

Il lavoro del Dramaturg, Renato Gabrielli, si affianca alla vostra ricerca fin dall’inizio?
Attilio Nicoli Cristiani
: Fin dal lavoro preparatorio in cui indaghiamo ciò che ci interessa e quali sono le tematiche e i solchi dentro i quali vogliamo metterci, facciamo una serie di letture coadiuvate anche da Renato Gabrielli. Ci riuniamo intorno a un tavolo e condividiamo pensieri, stiliamo una sorta di bibliografia e filmografia, seguendo molteplici strade.
A.D.S.:
Questo non è materiale di scrittura; è materiale che si deposita su di noi, nel pensiero e sulla carne. Con tutto questo, andiamo in sala. Solitamente lavoriamo facendo delle domande ai performer, che possono essere sia di natura tematica che personale e il performer risponde con una improvvisazione. Lavorare con noi richiede di essere molto disponibili e malleabili, al di là della questione dell’esibizione del corpo. Ad esempio in Neverland c’è molta nudità ma protetta e discreta, necessaria; non è presente alcun discorso sulla provocazione. Dopo questa serie di improvvisazioni, fatte sia insieme che singolarmente, si producono dei materiali che filmiamo e riguardiamo, cercando di capire come costruire… Non è esattamente un montaggio perché lavoriamo anche sulla restituzione: l’azione presentata da una persona viene rifatta da tutti. È interessante vedere come questa muta sul corpo di un altro attore, in base alla sua esperienza. Non necessariamente chi ha prodotto un materiale poi ne sarà il protagonista.
A.N.C.
: Anche in questa fase di laboratorio in sala c’è la partecipazione del drammaturgo: solitamente la sua presenza è richiesta quando le improvvisazioni diventano più mirate e quando cominciano a crearsi dei grumi e delle ripetizioni di azioni che evidentemente cominciano a prendere corpo. Nel caso di Neverland,si erano definiti degli elementi – come ad esempio la partenza con i vestiti a terra – e Renato, osservando da fuori le azioni, ci ha fornito degli spunti su cui il lavoro ha iniziato a prendere forma.
A.D.S.
: L’aspetto molto interessante che abbiamo scoperto è stato che, lavorando sull’affastellarsi di abiti fino a diventare dei soggetti informi in cui spariva completamente la riconoscibilità del corpo, paradossalmente l’accumulo di materiale diveniva rivelatorio; il coprirsi, anziché camuffare, svelava. Ma del resto gli abiti avevano funzione di maschera e la maschera cela e rivela al tempo stesso (interessante ricordare che la parola “persona” deriva dal greco prósōpon cioè “maschera dell’attore”).
Perlopiù mettiamo in scena corpi molto diversi tra loro per età e forma e cerchiamo di utilizzarli per creare dei corto circuiti, essendo interessati a un ribaltamento dei cliché, nel tentativo di far passare un’altra idea di bellezza che non derivi solo da un’estetica ma dalla complessità di un essere umano.

Renato Palazzi in una recensione a Never Never Neverland ha parlato di “un’affannosa ricerca di un’incerta identità”. Cosa vi interessa maggiormente di questa ricerca e perché può essere solo “incerta”?
A.D.S.
: La questione dell’identità riguarda la felicità e l’infelicità, il desiderio: cosa vogliamo veramente essere e cosa desideriamo per noi. Sicuramente viviamo in un momento in cui è molto difficile posizionarsi, perché siamo continuamente bersagliati da modelli da seguire e da oggetti che dobbiamo desiderare. Nel contesto economico/politico in cui viviamo è difficile trovare la propria collocazione perché tutto è pensato per lasciare sempre i nostri desideri frustrati. Allora qualcuno non ne può fare a meno e si mette in cammino, comincia la propria ricerca del proprio posto nel mondo, una ricerca che forse non riesce mai a fissarsi in un punto, una ricerca che forse per noi attori ha la sua risposta nel palcoscenico. Personalmente quando sono in scena sento di avere un posticino nel mondo e mi sento meno disadattata di quando sono fuori nella realtà.
In questo lavoro, che è una continua trasformazione, tentiamo di restituire l’idea dell’impossibilità di essere qualcosa o qualcuno, perché immediatamente ci si trasforma in qualcos’altro, spinti da un desiderio che non si sa quanto sia personale o dettato dall’esterno. Insomma l’eterna oscillazione di Pirandelliana memoria, tra essere ciò che siamo o essere ciò che gli altri vogliono che siamo.
Nello spettacolo è anche presente il discorso sull’infantilismo, il fatto che si debba rimanere sempre giovani e prestanti. Da una parte è vero che un artista ha dentro di sé il bambino – deve averlo – però chiaramente questo atteggiamento contiene anche un dato di ambiguità e può avere dei risvolti molto negativi. Riafferriamo quindi il Peter Pan di Barrie come il “grande Peter Pan” Michael Jackson, che è stato cannibalizzato dal mondo e anche da se stesso; nessuno ha mai capito – ne saprà mai – chi fosse veramente quest’uomo.

Cosa significa per voi portare Never Never Neverland a Teatro Fondamenta Nuove, in occasione della rassegna Who’s who? Identità plurali e cose del genere… ?
A.N.C.
: Ci fa molto piacere essere a Venezia con questo spettacolo – che è il primo dei lavori di una trilogia sull’infanzia – e venire in questo luogo che è uno dei punti di riferimento del teatro contemporaneo nel territorio veneto e anche nazionale. Mi sembra si sposi perfettamente con la contestualizzazione in questa rassegna, perché il tema è legato alla riflessione sull’identità. Prima di Neverland, abbiamo attraversato tutta una fase creativa legata ai travestimenti, lavorando su icone pop che ci hanno ritagliato anche un certo tipo di pubblico. Adesso il nostro lavoro si è aperto, non è più così legato allo specifico tema identitario. Stiamo lavorando anche sul tempo e sulla memoria.
A.D.S.:
A noi interessa parlare dell’essere umano e della sua fragilità, delle sue contraddizioni; questo coinvolge anche l’identità, ma non solo.