intervista claudio longhi

La vitalità carsica del Ratto d’Europa

Ha intrapreso un lungo viaggio, passando per l’Emilia prima di arrivare alla capitale. Ha vinto uno dei Premi Speciali Ubu 2013, “per l’impegno nel reinventare la funzione sociale del teatro”. Non è solo uno spettacolo. È un percorso laboratoriale. Non prevede solo messe in scena. Ma attiva una rete articolata di attività e una fitta maglia di collaborazioni. È un’indagine, non esclusivamente teatrale, su quello che siamo stati e su ciò che siamo oggi. Ha il patrocinio del Parlamento Europeo, è coprodotto dal Teatro di Roma e da Emilia Romagna Teatro Fondazione, in collaborazione con l’Accademia Filarmonica Romana, Conservatorio “Santa Cecilia”. È Il ratto d’Europa – Per un’archeologia dei saperi comunitari, da oggi, 29 aprile, e fino all’11 maggio, sul palco dell’Argentina per undici serate. Una drammaturgia collettiva per un’improbabile squadra di nove elementi, chiamata a salvare il vecchio continente. È Claudio Longhi, regista, professore associato in Discipline dello Spettacolo all’Università di Bologna, a ripercorrere con noi le fasi di questo progetto, che ha ideato e diretto, e che ha visto la luce, proprio sul palco dell’Argentina, qualche primavera fa…

«La genesi è radicata ne La Resistibile ascesa di Arturo Ui (portato in scena a Teatro di Roma dal 28 marzo al 29 aprile 2011; qui potete leggere la recensione e qui un’intervista di approfondimento ndr). All’indomani di quell’esperienza, a maggio-giugno, il direttore di Ert, Pietro Valenti, cominciò a chiedermi di ipotizzare una collaborazione futura, che forse avrebbe coinvolto anche il Teatro di Roma. Dopo un incontro ad Avignone, a fine luglio, durante il quale abbiamo riflettuto sulla funzione del teatro pubblico, sul destino della regia, approcciando la questione in termini che definirei squarziniani, ovvero come modo di produzione e non come sintassi artistica, si è usciti con l’idea di pensare un progetto piuttosto che fare uno spettacolo».

Foto Giuseppe Distefano

Foto Giuseppe Distefano

Quindi nasce il ratto d’Europa?
«Sì, un primo interlocutore per me era Ert, che ha un’attenzione nei confronti dell’estero non comune, che si radica anche in prassi. Penso al Progetto Prospero, a VIE Scena Contemporanea Festival, un humus che portava a guardare verso quegli orizzonti. Poi nell’estate del 2011 cominciava la grande cavalcata dello spread, ogni volta che accendevo la televisione era una geremiade sull’Europa, avevamo perso la sovranità nazionale, c’era il rischio di commissariamento per l’Italia. Si oscillava tra l’emergenza Europa e una sostanziale indifferenza, una sorta di insensibilità rispetto al significato di Europa».

E con l’apertura dell’anno accademico 2011/2012, il tema viene affrontato in ambito universitario, giusto?
«Sì, è mia consuetudine pensare all’università come a un laboratorio dove far nascere delle esperienze, perciò ho dedicato due corsi alle ricadute teatrali del tema Europa, uno a Venezia allo Iuav (ancora non c’era stato il richiamo ufficiale all’Unibo) e uno a Bologna. Un’occasione per riflettere, per osservare la percezione di ragazzi di 25 anni. Intanto si siglavano gli accordi di coproduzione e prendeva corpo il progetto, la cui partenza ufficiale è stata – ahimè un giorno indimenticabile – la mattina del terremoto in Emilia Romagna, nel maggio del 2012, con un primo incontro ufficiale ai giardini pubblici di Modena, perché era pericoloso stare all’interno della Biblioteca Delfini dove avevamo fissato l’appuntamento».

Poi il debutto modenese a maggio 2013 e quello romano nel 2014. Ma non si tratta solo di spettacoli, ci sono una serie di attività collaterali. Allora, come agisce il ratto?
«Si prendono contatti con le realtà più varie e trasversali all’interno del corpo urbano, dai centri anziani alle scuole elementari, dalle comunità religiose ai sindacati. Il ratto offre gratuitamente attori per letture, ad esempio, e in cambio chiede di portare in dote le proprie specificità, il proprio pubblico, le proprie relazioni, e così si disegnano ipotesi di lavoro. Abbiamo inanellato una serie di attività nate sulla base di questi incontri, e contestualmente proposto ai partner di creare dei laboratori di drammaturgia, lo abbiamo fatto con gli esodati a Roma e con i sindacati a Modena. Il ratto ha una vitalità carsica, dovuta ai laboratori, che hanno un’apertura verso l’esterno in termini di presentazione dei testi sul sito, e di messa in scena integrale dei testi scritti, com’è stato a Modena e come sarà qui a Roma, parallelamente al debutto dello spettacolo, con un’idea di rendere il teatro vivibile 24 ore al giorno, e di attivare una riflessione sulla funzione del teatro all’interno delle città».

Foto Longhi

Un ritratto di Claudio Longhi

Modena e Roma, due cosmi differenti, ma stesse attività?
«L’unica modalità di lavoro squisitamente romana è quella degli atelier, che vede il coinvolgimento di non professionisti, con due giorni di prove su tematiche europee e poi la restituzione pubblica del lavoro. C’è, poi, una differenza di tempi: mentre a Modena il lavoro, iniziato nel 2012 si è concluso nel 2013, a Roma si è svolto nell’arco di due stagioni».

Sul palco dell’Argentina, oltre agli attori e a una musicista, salirà un ospite diverso per ogni replica…
«Sono convinto che il teatro oggi debba tornare a essere un luogo di incrocio di saperi. C’è un’imbarazzante separazione del teatro dal corpo sociale e dal corpo civile. Aprirsi, incontrare l’altro è fondamentale. Non ci si deve chiudere su uno specifico teatrale ma pensare che uno scienziato piuttosto che un antropologo piuttosto che un pittore o un sociologo o un economista possa dire qualcosa di interessante per il teatro e in teatro possa trovare degli stimoli».

Si tratta quindi di testimonianze sull’idea di Europa?
«È un’intervista, un momento di snodo all’interno del corpo compatto dello spettacolo. Uno spettacolo costruito per sequenze tematiche, otto, dove la quinta sequenza è quella delle guerre, che chiude la prima parte di riflessione sull’Europa in senso lato. E non è un caso, perché il progetto della Ue nasce all’indomani della seconda guerra mondiale come tentativo di risposta a quella che Toniolo definisce ‘la seconda guerra dei trent’anni’ che inizia nel 1914 e finisce nel 1944. Perché di fatto prima e seconda guerra mondiale sono un grande blocco, che ha distrutto un’idea di Europa, nel senso che nel mondo della Felix Austria l’Europa è vera, si parlano due, tre lingue, c’è un’abitudine a girare, per Cechov è normale andare a Parigi piuttosto che finire a Baden, c’è un mondo europeo che crolla dopo la prima e dopo l’ulteriore devastazione della seconda guerra mondiale».

Uno sguardo a ciò che eravamo in considerazione di ciò che possiamo essere?
«Il sottotitolo dello spettacolo – per un’archeologia dei saperi comunitari – è un omaggio a Foucalt, perché c’è un confronto con un certo tipo di storia che Foucault chiama archeologia appunto. Il nocciolo è uno sguardo su quello che è stato, che ci interessa per quello che è e per quello che sarà. Il tema scelto sta tra l’urticante e l’indifferente. La partenza all’università non è stata certo entusiasmante, per un ragazzo di oggi l’Europa è l’euro, è la troika, è lo spread. C’è un prurito nei confronti della tematica europea, e anche una situazione di ignoranza diffusa, lo dico senza nessun disprezzo, perché fino al 2012 anche io ero profondamente ignorante sul tema».

foto compagnia Il ratto d'Europa

Foto Giuseppe Distefano

Quindi il ratto ha anche lo scopo di creare una coscienza?
«Di attivare una sensibilità o una riflessione. Non ho pensato questo progetto in termini europeistici o filoeuropeistici, non mi sento vincitore se chi ha preso parte al Ratto decide di votare il Parlamento Europeo, sono anche contento se qualcuno finisce per votare Le Pen, se lo fa operando una scelta».

Un progetto tentacolare. Un tema politicamente, economicamente, socialmente, culturalmente complesso. Ma affrontato con ironia…
«L’assunto di fondo è portare a teatro chi normalmente non va, e questo ha significato ricercare un vocabolario comune, parlare il linguaggio della parodia, della comicità, del riso in termini realistici. Mi rifaccio alla riflessione di Brecht sul teatro di insegnamento e teatro di divertimento, secondo cui il teatro è teatro di insegnamento, ma proprio nella misura in cui è teatro deve essere teatro di divertimento. Inoltre, dice sempre Brecht indicando il comico come la via che porta a un contatto vero con la realtà e non a un contatto sublimato o edulcorato verso cui porta la commedia, la tragedia più della commedia prende alla leggera le sofferenze dell’umanità».

Intervista a cura di Rossella Porcheddu

 

«Tempi di crisi»: da Brecht a oggi

Intervista a Claudio Longhi

Claudio Longhi, studioso e regista, ha da qualche tempo riservato le sue attenzioni all’opera di Bertolt Brecht, fino all’allestimento de La resistibile ascesa di Arturo Ui (leggi la recensione), ora protagonista di una fortunata tournée. Lo incontriamo per un percorso fra teoria e spettacolo, ricerca e politica che apre diversi squarci su quello che in tempi recenti sembra un gran ritorno alla ribalta dell’artista tedesco.

Nel suo lavoro di regista si è occupato di diverse tipologie drammaturgiche: nella sua teatrografia troviamo i testi-chiave della fondazione della cultura occidentale moderna e la grande avanguardia francese, fino a collaborazioni che fuoriescono dai canoni tradizionali della creazione teatrale e vedono coinvolti giornalisti, scrittori, scienziati e filosofi. Vorrei chiederle innanzitutto come si è avvicinato a Brecht e in particolare all’Arturo Ui.
Non avevo mai affrontato Brecht come regista, se non per un piccolo episodio di una serata all’Argentina qualche mese prima di cominciare a lavorare sulla Resistibile ascesa di Arturo Ui. Tuttavia, il mio interesse nei suoi confronti stava maturando da tempo sul piano della ricerca attraverso due canali. Il primo è Edoardo Sanguineti – che ha segnato il mio avvicinamento al teatro con l’esperienza dell’Orlando Furioso – la cui frequentazione è stata intensa, fra studio teorico e pratica; credo sia il più brechtiano fra gli intellettuali e i poeti italiani del secondo Novecento: nella sostanza di pensiero, nel rapporto con l’avanguardia, con la riflessione intorno al senso e al valore dell’esperienza dell’intellettuale all’interno di un contesto sociale. L’altro grande canale di mediazione per l’approccio al teatro di Brecht è stato lo studio su Marisa Fabbri, fra l’altro protagonista della mia prima regia; il lavoro per la monografia mi è stato molto utile per entrare dentro la complessa problematica della fortuna di Brecht in Italia.
C’è poi un antecedente – del tutto inconsapevole, non voglio mentire – che mi piace citare: in Italia una via un po’ più “oscura” del brechtismo rispetto a quella di Strehler è la via di De Bosio, uno dei primi registi italiani che ha affrontato Brecht nel nostro paese. Mi piace ricordare come la coppia De Bosio-Zorzi abbia legato il proprio percorso brechtiano all’esperienza di recupero di Ruzante; la mia prima regia con Branciaroli è stata La moscheta: mentirei se dicessi che l’ho fatta pensando a Brecht, ma diciamo che col senno di poi mi sono felicemente ritrovato in una coniugazione ruzantian-brechtiana che mi ha avvicinato di più alla via di De Bosio che a quella di Strehler.
Posso anche dire che in realtà sento come un antecedente diretto molto forte la trilogia koltesiana perché nella mia – nella nostra, perché lavoriamo sempre in gruppo – lettura di Koltès c’è stato un forte approccio di ordine politico: conosciamo soprattutto il Koltès degli anni Ottanta, quello del connubio con Chéreau, che è diventato un’icona di una certa cultura di riflusso al privato, ma c’è una fase precedente in cui era militante del partito comunista – un elemento molto forte nella fase germinale del laboratorio della scrittura koltesiana, che poi precipita nella scrittura degli anni Ottanta, in cui rinnega ogni gesto politico al proprio teatro.
Quando si arriva all’Arturo Ui allora lì si passa da una fase di interessi generali a una serie di condizionamenti specifici: il Teatro di Roma ha formulato una richiesta per uno spettacolo con alcuni specifici requisiti per il programma dell’Argentina e in un momento in cui il mio interesse su Brecht era molto forte inevitabilmente mi sono trovato ad andare in quella direzione. Avevo letto e visto l’Arturo Ui, ma non mi aveva entusiasmato; tuttavia quando ho cominciato a pensare a dei possibili testi brechtiani, sono rimasto folgorato dalla prima battuta della prima scena: «Tempi di crisi».

Sembra che in questi anni, in Italia, si assista a un singolare ritorno di attenzione nei confronti di Brecht, dopo anni di grande fortuna e altri di successiva rimozione. Quali sono, secondo lei, le ragioni che presiedono questa sorta di riattivazione?
Credo che da un certo punto di vista la fortuna del teatro brechtiano in Italia – in generale la sua diffusione nel secondo Novecento – sia una cartina tornasole di quello che è lo stato dell’arte sul piano dell’impegno politico e ideologico diffuso all’interno della comunità.
Il teatro brechtiano ha avuto un’esplosione nel dopoguerra – il momento consacrante per l’Italia è indiscutibilmente il Piccolo di Milano – che coincide con la fase della grande avventura politica dei teatri stabili, che vedono in Brecht e nel Berliner Ensemble un modello di teatro e drammaturgia che si vuole impegnata all’interno della società. È una fase eroica che va avanti e trapassa il ’68 e l’impegno ideologico forte del dopo-contestazione: fra gli Anni ’60 e ’70 c’è davvero un laboratorio intenso di riflessione e sperimentazione su Brecht, al servizio di una sinistra che si sta armando in una situazione di forte tensione politica che porta agli Anni di piombo. Poi effettivamente c’è il riflusso al privato degli anni Ottanta, che se da un lato coincide con la problematicissima categoria di postmoderno – legata alla fine della storia e alla morte delle ideologie che culmina col crollo del muro di Berlino – dall’altro, in particolare per l’Italia, assistiamo all’ultima ferale conseguenza del ’68, che, come dice Sanguineti, ha bloccato il dibattito politico nel nostro paese, perché scadendo immediatamente nella deriva di Piazza Fontana e del terrorismo ha fatto sì che fosse materialmente impossibile intervenire ideologicamente in maniera forte perché immediatamente si veniva tacciati di essere cattivi maestri, di essere propugnatori della strategia della tensione. Ed è un blocco che ha determinato una latitanza assoluta di Brecht tra anni Ottanta e anni Novanta. Il ritorno di Brecht in questi ultimi anni è sicuramente un tratto forte per noi – penso al debutto di qui a qualche mese della Santa Giovanna dei macelli di Ronconi – ma non è un fenomeno solo italiano: dall’Opera da tre soldi di Bob Wilson col Berliner Ensemble, in cui uno dei maestri del teatro postmoderno incontra la roccaforte dell’avanguardia europea, fino alla Busker’s Opera di Lepage.
Questa sorta di Brecht-renaissance credo sia prima ancora una engagement-renaissance o quantomeno un primo tentativo di lettura critica della cultura postmoderna che sta cominciando a emergere. Le cose stanno cambiando e – da quello che ritengo essere il mio osservatorio privilegiato di docente universitario – lo sto notando proprio negli studenti: sono test che faccio spesso, chiedendo ad esempio che cos’è la borghesia; per lungo tempo mi è stato risposto che siamo tutti borghesi e non esistono più le classi sociali. Mi viene sempre in mente quel passo terribile di Come si diventa materialisti storici? di Sanguineti in cui dice che gli unici che sono rimasti veramente comunisti sono i capitalisti perché sanno di che classe sono esponenti, mentre il proletariato ha perso il senso dell’appartenenza ad una classe. La vera tragedia è che circa il 98% dell’umanità rientra in condizioni di proletariato o sotto-proletariato e nemmeno sa di esserlo. Ho come l’impressione che una fase di riacquisizione di coscienza di classe sia inevitabile e mi auguro che non sia traumatica al punto di scadere in una destabilizzazione dello stato, estremamente pericolosa in un momento come questo. Proprio per questo motivo penso sia determinante interrogarsi con tutti gli strumenti che sono a nostra disposizione sull’importanza della politica e dell’ideologia all’interno del nostro vivere. E credo che gli allestimenti di Brecht siano un termometro di questa febbre: ognuno ci arriva coi suoi bagagli di esperienza, con le sue letture, coi suoi universi di riferimento, ma ci stiamo arrivando.

Le polarità coinvolte dall’opera di Brecht riguardano tanto il lavoro degli attori che il ruolo del pubblico: come avete lavorato su questi due livelli? Cosa resta dell’effetto di straniamento oggi, in quella che si vuole un’epoca post-ideologica?
La questione è ovviamente enorme, perché capire che cosa sia l’effetto di straniamento non è semplice: basti pensare che nelle interviste, gli attori e i collaboratori di Brecht dicono che con loro non ha mai parlato di straniamento. Quindi c’è un’overdose di riflessione sul piano teorico, ma una sostanziale elusione del problema quando ci si trova a discuterne materialmente con gli attori.
Per me è stato importante per capire – per arrivare a intuire cosa può essere – l’effetto di straniamento, il saggio di Brecht sulla scena di strada, quando equipara la recitazione epica a quella che avviene subito dopo un incidente: i testimoni, cercando di raccontare cos’è successo, utilizzano una sorta di mescidanza fra raccontare e agire per cercare di sortire un effetto su chi sta ascoltando.
Un’altra cosa che mi è servita molto – forse quella che mi ha aiutato di più nell’allestimento dell‘Arturo Ui – viene dal rapporto con Marisa Fabbri: prima di diventare una grande attrice del teatro di regia, è stata un’attrice di tradizione, essenzialmente una caratterista del teatro all’antica italiana. In seguito ha utilizzato questo caratterismo come strumento di straniamento; è accaduto quello che Mirella Schino, riguardo alla Duse, ha definito come un processo di risemantizzazione, da parte delle nuove generazioni, di stilemi provenienti da tradizioni precedenti. Ho cominciato a riflettere più sistematicamente su tutto il grande rapporto di Brecht con il kabarett e la cultura popolare, nonché sulla tradizione tutta italiana del caratterismo: il pedale del cabaret, del varietà, del caratterismo è quello che ho avuto più presente lavorando su Brecht.
Infine, vorrei fare una riflessione su una scelta precisa per questo spettacolo: in generale ci è stata riservata un’ottima accoglienza da tutti i punti di vista, ma alcuni critici ci hanno contestato lo scarso coraggio nella via dell’attualizzazione. In realtà si è trattata di una scelta deliberata: il rimando a quello che sta succedendo oggi è ovvio e poteva essere anche un’associazione di Hitler alla figura di Berlusconi, sarebbe stato molto facile fare un’operazione del genere. Ma dentro l’idea di straniamento c’è un principio ideologico, etico, politico, poetico, esistenziale: ossia che le cose viste da lontano si vedono meglio. Infatti, quando Brecht vuole parlare ai tedeschi di Hitler non lo porta mai in scena direttamente: lo trasforma in un gangster di Chicago, in un predone cinese, in Creonte dell’Antigone. Perché fa quest’operazione? Perché ha necessità di richiamare i tedeschi a guardare oggettivamente una storia di cui sono complici. Quando ci sei dentro come fai a guardare una storia con oggettività? Credo che vedere cos’è successo nella Germania weimariana degli anni Venti ci aiuti a guardare meglio cosa sta succedendo oggi: credo sia molto più forte il tipo di impatto che ci può venire da un’operazione di questo genere.

Roberta Ferraresi