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Un labirinto d’illusioni. L’altra storia del Minotauro

Recensione a Il Minotauro – adattamento di Jean Paul Denizon e Adriano Mottola

foto di Christian Cerbone

De Il Minotauro di Dürrenmatt, nello spettacolo diretto da Jean Paul Denizon, se ne vedono le sembianze. E se ne prova pietà. Non la bestia verso cui provare disprezzo. Non il mostro nauseabondo perché oltraggio agli dei e all’uomo. Un essere, piuttosto, immolato a capro espiatorio. Che suscita tenerezza. Perché l’uomo è violento, è animale. E nel fare carnefice ciò che gli è altero, sazia la bestia, propria, dimorante tra le carni.
E si vede, il mezzo uomo – mezzo toro, perché evocato dalla narrazione di Adriano Mottola interprete del testo che riadatta con Denizon. Confezionando un’ora abbondante di teatro di narrazione in cui parola, musica e prova d’attore sono miscelati perfettamente risultando di altro gradimento.
Ci sono tutti, direttamente dal mito: Teseo, Arianna, i 14 sacrificati (sette ragazze e sette ragazzi). E la storia mostruosa della bestia concepita da una donna e un animale. Non una donna qualunque, una regina. Innamorata del toro sacro che Poseidone donò all’infame marito. Credendo di giocare la Dea, il re, non mantenne il patto del sacrificarlo. Sua moglie, vittima d’un sortilegio della dea offesa, s’innamorò del possente animale. Se ne invaghì al punto di non potere fare a meno di accoppiarsi. Lo fece grazie all’astuzia di Dedalo che la fece diventare una finta giovenca. Lo stesso del labirinto dove il Minotauro è prigioniero. Insieme a mille altri suoi simili. Riflessi negli specchi che l’illudono di non essere solo. L’illudono di appartenere a un gruppo, una razza come tutte le altre. Lo scorrere narrativo descrive l’ignara prigionia della bestia, fino all’epilogo funereo per mano di Teseo fiancheggiato da Arianna.
Ha corpo umanoide lo scherzo della natura, pelliccia taurina, zoccoli, mani, braccia, e una testa d’animale.
Il testo di Dürenmatt, lo focalizza protagonista. Inducendo lo spettatore a incagliarsi negli istinti privi di ragione d’un essere innocente. Illuso, condannato per nascita. Ignaro. Considerato un’empietà da chi ne ha deciso il destino. Punizione divina. Segno dell’infamia di Creta. Una vittima predestinata. Colmo di allegrezza nel vedersi specchiato in infiniti simili, convinto d’essere tra fratelli.
La costruzione della lunga narrazione veicolata dalle musiche originali di Danise – Piano’s (R)Evolution (un pianoforte a coda la cui cassa armonica diventa produzione di suoni) volge verso la perfettibilità dell’audizione alla platea. Frasi ben scandite, toni soffusi, interposizione di danze, movimenti e canto, affinché l’ascolto non risulti noioso. Obiettivo raggiunto grazie alla padronanza dialettica di Mottola, in atteggiamento deferente, probabilmente un cenno registico per suscitare compassione nello spettatore. Gli abiti (semplicissimi) e le incisività di un testo fluente e parecchio fruibile, ricamano il tutto in un climax costantemente teso al catturare attenzione. Con qualche smagliatura qua e là per via della tipologia di spettacolo (gli alti e bassi sono le ombre di un’ora e mezza di narrazione) e una riverenza nell’espressività interpretativa che potrebbe irritare, talvolta.

Un allestimento dove il corpo è come annichilito per far posto a parola ed evocazione. Intenso l’immaginifico proiettato dal testo: fa vedere forme, colori, sentimenti al pari di scene costruite. Con la libertà di potere “allestire” nell’intimo della nostra fantasia.
Il Minotauro, acquistando consapevolezza, si fa cosciente della sua reale condizione di recluso. È solo. Comprende di essersi soltanto riflesso. Capisce di non potere amare, agire, ragionare da umano. Patisce, invece, l’uomo, da innocente, in una ennesima, crudelissima, finale bugia. Teseo gli si manifesta mascherato da mezzo toro. L’entusiasmo della scoperta, esploso in una danza, condurrà invece ad un’amara morte. A tradimento.
Il mito che rappresenta, dice, ancora di tutta l’umanità.

Visto al Festival Benevento Città Spettacolo

Emilio Nigro