Un dispositivo ovale: un grande tavolo cavo, sul cui perimetro corrono trenta postazioni numerate (ognuna con una sedia e uno schermo), sotto un soffitto che sa di tetto effimero del Globe Theatre, di vela di nave, di planisfero, come dichiara Yves Degryse, uno dei fondatori del collettivo Berlin, nell’intervista a cura di Altea Alessandrini.
Gli spettatori sono 30 e non potrebbero essere di più. Il teatro-nave è in una chiesa modenese dei primi del Settecento (San Carlo), l’aria è pulita e inodore e il pubblico curiosa negli angoli, prima di venire chiamato da uno dei registi del gruppo belga a prendere posto a bordo.
La prima scelta è random: ognuno si siede dove vuole. Leggermente scettici, prendiamo posto e aspettiamo, sorridendo ai vicini. Nello schermo associato ad ogni postazione entra una persona-personaggio-non attore che, dopo essersi ambientato e aver lasciato ambientare lo sguardo dello spettatore, inizia a raccontare la sua storia. Sono persone in carne e ossa, riprese, durante le interviste-video fatte dai due registi (Bart Baele, Yves Degryse), probabilmente consapevoli della destinazione del loro racconto. È una docu-fiction, drammaturgia di finzione creata a partire da narrazioni reali. Comincia così l’esperienza di fruizione di Perhaps All the Dragons…, terza tappa, dopo Tagfish (2010) e Land’s End (2011), del progetto Horror vacui.
Nel corso dello spettacolo, seguiranno altri quattro racconti, nell’ordine definito da una lettera trovata nell’incavo del tavolo in corrispondenza di ogni postazione. L’intero impianto drammaturgico si basa sulla teoria dei sei gradi di separazione che, restando in ambito teatral-cinematografico, aveva già affascinato John Guare, commediografo statunitense, e il regista Fred Schepisi che ha adattato la sua pièce per il grande schermo negli anni Novanta.
Si è insieme ad altri 29 spettatori, eppure si è soli in un dialogo unilaterale con le cinque persone che non incontriamo e con le quali non interagiamo, ma che vediamo e ascoltiamo.
Che cosa stiamo facendo, davvero, nella chiesa settecentesca, a fianco ad altre 29 persone, mentre ascoltiamo la storia di cinque sconosciuti? Stiamo diventando il sesto grado di separazione tra loro? Stiamo prendendo parte a una riflessione sulle modalità, i criteri, gli strumenti del conoscersi e del comunicare? Stiamo riscrivendo le coordinate della relazione teatrale? Stiamo prendendo atto del fatto che il mondo non è poi così grande, che siamo potenzialmente tutti connessi, ma non siamo in grado di comunicare, stabilire una relazione, creare un contatto? Eppure, il complesso dispositivo ci porta a partecipare tutti insieme al gioco di sguardi che si crea in Perhaps All the Dragons…, noi ne siamo il collante e, per quanto tutti di spalle, a guardare degli schermi (condizione quanto mai quotidiana), tra noi 30 circola una strana energia. Tutte le storie che ascoltiamo possono potenzialmente reagire le une alle altre ma solo se noi siamo presenti, capaci e disponibili a metterle in connessione: per questo parliamo di teatro e non di cinema.
C’è, però, un passaggio ulteriore che, forse, fa parte del progetto dei Berlin e, forse, ne è un’imprevista conseguenza. Una volta usciti dalla chiesa, gli spettatori pongono gli uni agli altri una serie di domande: a te chi è capitato? Qualcuno aveva per caso il matador e sa spiegarmi cosa intendeva? La cantante d’opera ha cantato anche per te?
Così, si comincia a parlarne, si fa comunità e si capisce che con quasi tutti, ma forse non con tutti, si può avere un video in comune; che, nella sequenza di quasi tutti, ma forse non di tutti, c’era almeno una persona in video che spiegava la teoria dei sei gradi di separazione; che quasi ogni video, ma forse non tutti, poteva modificarsi leggermente, nel corso dello spettacolo, di spettatore in spettatore. Ascoltando gli altri (o leggendo le recensioni dello spettacolo) chi partecipa sa che non esistono due racconti di questa esperienza uguali. Calcolando – con un certo margine di errore – le combinazioni di montaggio possibili si avrà un risultato di 142.506 drammaturgie diverse, ammesso che i video siano sempre uguali, cosa di cui abbiamo motivo di dubitare, e considerando la possibilità che il medesimo video si ripeta nella sequenza di più spettatori durante la stessa replica. Un numero impressionante di spettacoli diversi e simultanei nello stesso dispositivo.
Infine, un ulteriore segno si aggiunge alla formula chimica di questo esperimento: il titolo. Si tratta di un passaggio tratto dalla Lettera a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke che recita: “Forse tutti i draghi nelle nostre vite sono principesse che non attendono altro che vederci agire, solo una volta, con bellezza e coraggio”. Le cose apparentemente più perturbanti, quindi, sono potenzialità e occasione per reagire, per compiere scelte, per cambiare direzione, per trasformare draghi in principesse e storie individuali in una storia collettiva.
di Nicoletta Lupia