Recensione a The Valley of Astonishment – di Peter Brook e Marie-Hélène Estienne
La mente, meccanismo di insondabile e misteriosa perfezione e drammatico labirinto di turbamenti ad un tempo, è da quasi due decenni il fulcro della ricerca drammaturgica e teatrale di Peter Brook e di Marie-Hélène Estienne, in scena al Funaro di Pistoia con The Valley of Astonishment, nella seconda ed ultima tappa italiana dello spettacolo (la prima è stata al Teatro Stabile dell’Umbria), a rimarcare l’attenzione del Centro Culturale toscano verso le più raffinate – e rare – preziosità internazionali.
L’ultima fatica del leggendario regista inglese trapiantato da mezzo secolo in Francia, oltre a confermare la bellezza e la poesia di un’estetica ormai divenuta classica e per questo intramontabile nella propria essenzialità restituita con calore, si presenta come un ideale terzo atto d’una trilogia che sonda con vibrante umanità lo sconfinato campo d’azione – e distruzione – del cervello.
La mente ed in particolare la memoria tornano con questo lavoro al centro della scena brookiana dopo L’homme qui, prodotto dal Bouffes du Nord nel 1993 e ispirato allo splendido romanzo L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello del neurologo britannico Oliver Sacks, raccolta di casi clinici in forma di racconti che esplorano la meraviglia della diversità, e Je suis un phénomène (1998), tratto da Una memoria prodigiosa del neuropsichiatra Aleksandr Lurija, che di Sacks fu maestro.
L’ispirazione primigenia da cui si sviluppa e deriva il proprio titolo The Valley of Astonishment è questa volta non un testo scientifico, divulgativo o tecnico-specialistico ma un poema persiano del ‘700, Il verbo degli uccelli di Farid al Din ‘Attar, èpos costellato di parabole edificanti che si snodano a partire dalla trama principale, in cui uno stormo di volatili attraversa sette valli per raggiungere il proprio nuovo dio, la fenice, mistico uccello dal becco cosparso di fori, come un flauto, simbolo della totalità dell’esistente.
È proprio questa totalità, evocata in principio dall’attore-narratore Jared McNeil, già apprezzato in The Suit, quella che riesce ad abbracciare, nel presente, Sammy Costas (una magnetica e inarrivabile Kathryn Hunter), caso clinico lurjiano, giornalista che scopre a oltre quarant’anni – o meglio, rivela a chi inconsapevole la circonda – di essere dotata di una stupefacente memoria sinestetica che le permette di serbare ed evocare simultaneamente ogni istante della propria vita, legando i ricordi, in maniera sempre diversa, alla percezione e ai contingenti stimoli sensoriali. Ciò che per lei è sempre stato naturale e spontaneo, ricordare sempre e tutto, nel confronto con il mondo assume i crismi del prodigio, sconvolgendo la sua vita.
La mente di Sammy raccoglie e conserva le tracce del tempo, della vita e dello spazio legandole a colori, odori, suoni, forme, numeri, parole che si materializzano nel proverbiale spazio vuoto brookiano sotto forma di suggestioni verbali e musicali, sostanziate in un dialogo costante col pianista Raphaël Chambouvet e con Toshi Tsuchitori (strumenti a corde, fiato e un’anfora). La capacità di Sammy di ricordare è innata, inspiegabile, infinita e intraducibile in termini che non sconfinino oltre la sua percezione.
Sammy e la sua memoria diventano oggetto di studio da parte del dipartimento di Scienze Neurocognitive, dove McNeil e Marcello Magni – consolidato interprete brookiano, spesso in coppia con Hunter – si alternano nel ruolo di ricercatori e di altri casi clinici di sinestesia, e in breve la donna viene riconosciuta come “fenomeno”: ricorda qualsiasi cosa, ogni dettaglio, ogni volto, ogni parola, anche detta in altre lingue (come l’incipit dell’Inferno dantesco, metafora letteraria dell’oscurità in cui la protagonista è sull’orlo di sprofondare). Da qui a perdere il lavoro e a venire ingaggiata in uno show televisivo di “fenomeni” il passo è breve: a furia di immagazzinare dati idioti – ma incancellabili – per il diletto del pubblico, Sammy precipita con sorridente leggerezza brookiana nella tragedia dell’impossibilità di dimenticare. In questo dramma umano che i “normali” riescono a malapena a immaginare si insinua lo scacco a cui la natura e la fisiologia del nostro cervello condannano la scienza, che non può e non sa ancora decifrare e spiegare il mistero quotidiano della memoria, dei suoi meandri, dei suoi salti e dei suoi – altrettanto tragici – vuoti.
Su una scena aperta, in cui solo tre sedie, un attaccapanni e un tavolo costituiscono l’apparato scenografico, lo spazio per l’immaginazione è sconfinato e si traduce in una modulazione delle luci che, assieme alle musiche, suggeriscono i passaggi sinestetici che strutturano l’universo neurologico e percettivo di Costas-Hunter e degli altri personaggi. La drammaturgia è di una pulizia elementare, impregnata di poesia, di gesti silenziosi, di familiare ironia e cerca costantemente il rapporto diretto e, si passi il termine, interattivo con gli spettatori, più che disposti a compatire le vicende vissute sul palcoscenico.
Il finale tragicomico del caso clinico, in cui Sammy finge di dimenticare per non affliggere i suoi medici, si chiude sui versi del poema degli uccelli, che cito a memoria: anche se un giorno si perdesse traccia dell’esistenza dell’uomo nel mondo, una sola goccia di pioggia custodirebbe il segreto della sua esistenza. Di nuovo, la totalità e la continuità, il senso di una presenza nel tempo oltre i limiti dell’esistenza, la partecipazione a un ordine dell’essere che trascende gli anni a nostra disposizione sulla terra: la memoria, un dramma straordinario, fenomenale o meno che essa sia. L’approdo nella valle dello stupore.
Visto a il Funaro, Pistoia
Giulia Morelli