Paolo Magelli dirige il Metastasio Teatro Stabile della Toscana dal 2010. Si definisce “tedesco di origine slava”, per via della sua pluridecennale esperienza come regista e direttore artistico in Europa, dopo aver lasciato l’Italia nel ’73. Autore di regie che scelgono di lavorare su testi radicalmente legati alle condizioni contemporanee dell’Occidente (in questi giorni al Fabbricone è in scena il suo ultimo lavoro, il koltèsiano Quai Ouest), ha portato a Prato, in questi cinque anni, una concezione diversa di fare teatro, che molto attinge ai modelli europei: dalla creazione di una compagnia stabile di attori all’investimento sulla dimensione formativa, fino al lavoro sul e con il territorio, alla volta della definizione di un’idea di teatro pubblico come servizio culturale in senso ampio, progettato per il luogo in cui opera.
Così, questa intervista diventa l’occasione per esplorare – insieme a Magelli – la sua esperienza di artista e direttore fra Prato e l’Europa.
Per iniziare, vorrei chiederle per quali ragioni ha deciso di lavorare su Koltès e in particolare su un testo come Quai Ouest, poco conosciuto o quantomeno poco allestito in Italia e non solo.
In effetti, è un testo non molto rappresentato nemmeno in Francia. Gli amici francesi mi hanno addirittura sconsigliato di farlo. E invece, in questo momento, c’è una grande affluenza francese a Prato.
Mi sembra che lo spettacolo abbia un suo valore anche perché oggi non credo Quai Ouest vada più affrontato tanto sul piano della provocazione estetica, ma in quanto discorso profondamente politico. La tesi consiste nell’idea che se non smettiamo di vivere secondo i diktat imposti dalle leggi finanziarie di Wall Street (che chiamiamo “capitaliste”, ma sono di un capitalismo trasformato, che non investe più sulla classe operaia ma si occupa soltanto di trasferimenti di capitale e di sfruttamento della povertà nel Terzo Mondo); se non ridimensioniamo il nostro tenore di vita, pensando di dare qualcosa a chi ne ha bisogno, ad investire là dove ce n’è necessità; se non ci diamo una “regolata”, il futuro della nostra civiltà e cultura sarà la scomparsa. Siamo giustamente destinati a scomparire. E noi italiani dovremmo essere sensibili su questo punto, perché ne sappiamo tanto di invasioni barbariche, sappiamo cosa vuol dire quando arrivano gli scontenti… dovremmo avere una memoria storica rispetto alla caduta dell’Impero Romano – e allora, tutto sommato, andò anche bene, non so se rispetto a oggi si possa sperare altrettanto.
Questo è il motivo per cui questo spettacolo è stato messo da noi in scena.
All’epoca, il discorso di Koltès fu percepito come innovativo perché aveva il coraggio di unire poesia e analisi sociale. Nel frattempo, negli anni che ci separano dalla sua morte, penso che sia diventato invece fortemente, radicalmente politico. Questa differenza conferma la nostra sordità e cecità di fronte ai problemi di un mondo che finirà per sommergerci.
Quai Ouest è un grido che attende risposta. Ma è una risposta che evidentemente oggi la nostra civiltà non sa dare.
Se è così, attraverso il vostro percorso avete invece trovato qualche risposta? E, in questo senso, si trova spazio anche per qualche speranza? Non è la prima volta che affronta, nella sua opera, questioni di questo tipo e, anzi, se prendiamo in considerazione le sue regie recenti, molte di queste si possono leggere come un’indagine del nostro tempo attraverso il teatro, con particolare attenzione per i rischi a cui si espone la società occidentale contemporanea.
Prima di tutto, devo dire che mi rendo conto di essere abbastanza isolato in questo Paese. Dal punto di vista teatrale, non so quanto il mio discorso qui sia stato completo, perché in questi cinque anni a Prato mi sono limitato a mettere in scena poco; quindi, magari, il mio discorso teatrale è più compiuto, più complesso e conosciuto in altri Paesi, molto in Germania oppure nella stessa Francia o nei Paesi della ex Jugoslavia. Con grande franchezza, purtroppo, devo anche dire che, qui, a Prato, mi considero un tedesco di origine slava, fortuitamente nato in questa città. E questa è la mia condizione umana, oggettivamente.
Mi ritengo politicamente isolato, perché non mi riconosco nella sinistra italiana. Per spiegarlo, faccio riferimento a un libro che sta scrivendo un mio grande amico, Tariq Ali, che sta lavorando “sull’estremo Centro”. Ecco, vedo la sinistra italiana come “l’estremo Centro”; per me, è difficile collocarmi al suo interno, perché ne sono assolutamente fuori, sia dal punto di vista culturale che intellettuale. E credo che “l’estremo Centro” sia il grande problema dell’Italia e dell’Europa in generale.
Questo spettacolo è legato a questo tipo di discorso: parla di una borghesia che ha perso l’amore, che ha capito che la finanza è un trucco, che ormai è sull’orlo del suicidio; e dà spazio a un mondo di sub-cultura che – in tutta la sua crudeltà – possiede molta più umanità rispetto a quella borghesia che accidentalmente frequenta in quei quattro giorni e notti. Koltès prevedeva che, alla fine, Abad uccidesse Fak; invece, io sono andato più avanti con i personaggi, perché credo che oggi ci sia bisogno di andare fino in fondo e perché penso che qui non si tratti di modificare o meno la Costituzione, ma di ricominciare a parlare di principi veri, chiari, di ripartire da zero.
A teatro non si danno risposte, a teatro si pongono domande. In questo caso, la domanda è quel grido di disperazione di Koltès, che attende riscontro. Poi, naturalmente ci si augura che qualcuno voglia e possa darsi una risposta. Ma il teatro non può più essere come nell’Ottocento, ai tempi di Verdi, uno spazio in cui si sollevano le rivoluzioni; al massimo, può essere un dialogo con intelligenza di uno spazio territoriale. Oggi, la rivoluzione si può organizzare soltanto con gli strumenti di massa, che però sono tutti controllati dal Capitale o dallo Stato: a cominciare da internet, una libertà virtuale nella pratica che però a mio avviso politicamente è molto reazionaria; per proseguire poi con le televisioni, che sono in mano ai magnati o a chi controlla il Paese dal Parlamento. Evidentemente viviamo in una società di cervelli indirizzati, controllati, con una pessima scuola che viene sempre più impoverita, dove la cultura è all’ultimo posto… Non che negli altri Paesi la situazione sia sempre migliore, ma credo che l’Italia non sia un Paese libero.
Vorrei cogliere anche l’opportunità di approfondire il suo metodo registico. Ha avuto esperienze di lavoro in teatro in Italia e all’estero, in culture teatrali differenti. Nei suoi spettacoli – e anche in Quai Ouest – si avvale di artisti che collaborano con lei da molti anni. Penso, ad esempio, al ruolo svolto dal dramaturg…
Siccome sono laureato in slavistica e ho praticato molto in Francia e Germania, per me, la stanza più intelligente del teatro è una stanza che in Italia non esiste: la stanza dei drammaturghi. Al suo interno, c’è un drammaturgo che si occupa dei rapporti con il pubblico, chi è specialista in linguistica ed è impegnato nelle traduzioni, chi va a vedere tutti i giovani in giro per il Paese per segnalare sia nuovi testi che nuovi registi; c’è poi il capo-drammaturgo, che a volte scrive dei testi e una figura importantissima, che è quella del drammaturgo di sala, una specie di alter ego, – come direbbe Brecht – “l’uomo che dice sempre no”.
Ho constatato che finalmente in Italia si comincia a vedere la presenza del dramaturg. Ben venga. Però, per me, dove si formino rimane ancora un enigma: in Europa conosco almeno una quindicina di università che hanno una scuola di drammaturgia, cosa che in Italia manca. Infatti, nel nostro piano triennale è compresa l’intenzione di aprire una scuola di questo tipo, con insegnanti come la stessa Željka Udovičić [la dramaturg di Quai Ouest, con cui Paolo Magelli collabora dal 1986, ndr], Biljana Srbljanović, Jan Fabre, scrittori, drammaturghi di sala e traduttori di grandi teatri tedeschi o francesi che vengano a insegnare questo mestiere. Credo sia un discorso da sviluppare a livello universitario, che duri quattro anni, dove occorre imparare perfettamente due lingue, per poter leggere testi e segnalare nuovi autori. I dramaturg leggono almeno due-tre testi al giorno, quindi mille testi all’anno. Chi fa questo lavoro nel teatro italiano?
C’è una differenza culturale fra la mia esperienza di vita e la mia esperienza in questo teatro che è difficilmente colmabile. È stato difficile e lo sarà ancora, perché qui tutto è basato sulle restrizioni. Prendiamo la questione da un altro punto di vista. Quando sono arrivato a Prato, il teatro aveva diversi debiti e aveva subito un ridimensionamento dei finanziamenti. Tuttavia, in questi anni, siamo riusciti ad aumentare la produzione. Come ho fatto? Con i pochi fondi a disposizione ho cercato di dare un’impronta diversa. Innanzitutto ho cercato di mettere in scena il meno possibile e mi sono tolto gli onorari per le regie. In questo senso, un altro punto importante è stato la creazione della compagnia stabile, che ha permesso di calmierare i costi. Senza di loro non avrei potuto fare assolutamente niente! Questo ha permesso di produrre Peter Stein, Roberto Latini, Armando Punzo, Valerio Binasco, Antonio Latella – che ha fondato qui la sua compagnia –, e di presentare al Magnolfi 40 spettacoli di gruppi toscani. Abbiamo cercato di dare più spazio possibile. E, dall’altro lato, siamo andati a recitare nei circoli, a Viaccia, a Vaiano, a Montemurlo… Io vorrei che ci fosse maggiore coordinamento fra i teatri toscani e, poi, che la Fondazione Toscana Spettacolo vi agisse con degli input. È uno spazio di circa quattro milioni di abitanti, con dei teatri abbastanza splendidi.
Anche se siamo riconosciuti a livello regionale come agenzia di formazione, non siamo stati molto aiutati, con alcune piccole eccezioni della Provincia e del Comune: abbiamo creato una scuola per attori gratis, abbiamo lavorato sui costumisti cercando fondi in Europa, così come per quanto riguarda la formazione nel campo dell’illuminotecnica.
Secondo me, ci sarebbe qualcosa che va chiarito di nuovo a livello politico. Spero che questi “alimenti” arrivino, ma il discorso è molto, molto complesso. Magari le sembrerò troppo duro, ma è la realtà. Con tutte le difficoltà che abbiamo avuto, credo che abbiamo cercato di fare tutto il possibile.
In Quai Ouest la compagnia stabile del Teatro è affiancata a due attori di grande caratura. Volevo appunto cogliere l’occasione per chiederle una testimonianza su questa esperienza, che dura ormai da diversi anni.
La compagnia stabile ha fatto enormi sacrifici: nonostante stipendi non certo alti, gli attori hanno fatto di tutto, dagli spettacoli ai laboratori nelle scuole. Hanno fatto un lavoro sul territorio formidabile! Oggi, nei nostri teatri, ci sono molti giovani spettatori – non era così, quando sono arrivato a Prato. È il frutto di questo lavoro: penso siano rimasti affascinati dal vedere come il teatro sia uno spazio democratico, dove si può sognare, dove c’è dell’amore… Si sono ritrovati in cento sul palcoscenico del Metastasio e del Fabbricone! Questo è il lavoro che c’è da fare. Se negli ultimi vent’anni si fosse operato in questa direzione, oggi, qui, sarebbe come a Rennes, al Théâtre National de Bretagne, dove Le Pillouër ha 14 mila abbonati, perché negli anni passati il mio amico Emmanuel de Véricourt ha sviluppato questo tipo di lavoro per dieci anni.
Non a caso, la parte della riforma [il nuovo Decreto Ministeriale 1 luglio 2014, ndr] che condivido è quella che riguarda il territorio e la lunga tenitura degli spettacoli. È un lavoro che qui stiamo facendo fin dal mio primo giorno di direzione, anche se, quando sono arrivato, c’era qualche perplessità a riguardo. Che senso ha investire dei soldi per debuttare altrove? Bisogna stare qui!, fare un lavoro in questo luogo, per e con queste persone. Si vive una volta sola e si vive in un certo spazio, che, in questo caso, per me, è la Toscana – anche se teatralmente è organizzata in un modo che non condivido, perché credo sia strutturata a compartimenti stagni.
Tuttavia, anche a livello nazionale, sono stati intrapresi dei percorsi che lasciano sperare in qualche possibilità di cambiamento, sono state seminate con ostinazione delle azioni e delle idee, anche se bisognerà aspettare di vedere i frutti nel lungo periodo.
Le ho descritto le nostre difficoltà. Lavoriamo, lavoriamo come pazzi, ma bisogna riconoscere che siamo in uno stato di sofferenza permanente. Spero che prima o poi i giovani dicano “basta”, che si impegneranno per cambiare qualcosa. Ma, qui, si torna al problema di cui parlavo prima: i cervelli della nostra società sono controllati da quello che ho definito “estremo Centro”, che li ha totalmente razionalizzati e, di più, vi ha introdotto la paura. Penso che la crisi, prima di tutto, sia all’interno delle nostre teste.
Siamo arrivati alla contraddizione che un popolo solare come quello italiano è diventato triste, è diventato inconsistente rispetto a quei settori dove era all’avanguardia della creatività e della ricerca. Se osserviamo la situazione da un punto di vista semiotico, i segni sono veramente terrificanti. Proprio in questo Paese, che è l’università del mondo, in cui basta passeggiarvi per vedere, conoscere, studiare, capire… Bisognerebbe investire sulla cultura, sulla bellezza, educare i bambini in questo senso.
Rispetto ai “segni terrificanti” che descrive, c’è però anche il ruolo della responsabilità individuale di saperli interpretare e di elaborare, in merito, una risposta. Se il contesto si delinea in questo modo, ciò non significa necessariamente che anche le nostre azioni debbano andare in quella direzione.
È vero, sono completamente d’accordo. Per questo, qui, le mie scelte sono state anche difficili; avrei potuto farne di più “comode”: scegliere altri testi o attori conosciuti… Credo profondamente di aver fatto delle scelte difficili ma giuste; almeno di aver cercato di aprire una strada… forse qualcuno, dopo di me, la seguirà, farà anche meglio di me, e costruirà un’autostrada su questo sentiero.
Rispetto alla sua esperienza di direttore artistico, qui e in altri Paesi, vorrei concludere chiedendo, a suo avviso, quale ruolo ha e potrebbe avere il teatro nella società contemporanea.
A questa domanda aveva risposto genialmente, cinquant’anni fa, Paolo Grassi: il teatro in ogni entità urbanistica deve essere servizio sociale, come la chiesa, la stazione dei carabinieri, l’ospedale. Perché l’Italia ha i teatri, ma sono spesso contenitori vuoti; ci dovrebbero essere invece gli artisti, i quali è necessario che lavorino sul territorio e che siano adeguatamente pagati per farlo. In Germania, che si tratti del Thalia Theater o del Berliner Ensemble, il direttore e i registi hanno uno stipendio nella norma, perché si tratta di soldi pubblici. Accettata questa regola, ce ne sono poi altre: certo, non si potranno avere retribuzioni vertiginose, ma allo stesso tempo nessuno potrà obbligare a contratti-capestro o a scritture di venti giorni… è il mercato degli schiavi. In Italia, di solito, funziona che il direttore di turno va nel suo teatro per qualche tempo, per realizzare il proprio spettacolo; invece dovrebbe stare lì otto-dieci ore al giorno – poi salendo fino a dodici, quando ci sono le prove –, per lavorare per la cultura. Il teatro dovrebbe essere la Maison de la Culture.
Il teatro soprattutto fa un lavoro di arare, arare, arare dalla mattina alla sera il territorio per gettare dei semi. Ma in Italia, questo, è un lavoro che non si fa. Basti pensare al famoso discorso delle “eccellenze”: abbiamo distrutto la possibilità di presentare in Parlamento quella legge a cui aveva lavorato Strehler – in fondo, una copia di quella tedesca sui servizi culturali, ma adattata all’Italia – e si è scelto di operare sulle “eccellenze”, il che in alcuni casi ha determinato una gara allo spreco in certi centri. Si è pensato che i centri fossero tutto. Invece, il centro non esiste: esiste solo lo spazio in cui viviamo.
Intervista a cura di Roberta Ferraresi