Una “donna imponente, con gli uomini frignanti e anelanti ai suoi piedi” mentre “nessuno, sulla scena e nell’uditorio, saprà mai quello che può accadere”. Così Peter Stein, tra i registi più importanti della scena contemporanea, descrive nelle note di regia il suo Ritorno a casa, produzione del Teatro Metastasio Stabile della Toscana e Spoleto56 Festival dei 2Mondi, in tournée dopo il debutto estivo a Spoleto (dal 14 al 26 gennaio rimasto nell’annullata stagione del Teatro Palladium di Roma).
Un testo, tra i più cupi di Harold Pinter, autore capace di svelare “il precipizio che sta sotto i discorsi di ogni giorno” di cui Stein si era innamorato nel 1964, alla prima mondiale all’Aldwych di Londra – l’anno dopo curò la drammaturgia della traduzione in lingua tedesca – poiché spiega lui stesso “ha un dialogo bellissimo e, se recitato in modo giusto – qui è il segreto – crea l’atmosfera perfetta di quel disastro totale che è la famiglia”, messo in scena soprattutto sotto l’impulso degli attori de I Demoni (Elia Schilton, Alessandro Averone, Rosario Lisma e Andrea Nicolini) dato che – spiega Stein – è “un lavoro esclusivamente per attori”.
A ospitarlo a Milano per due settimane è stato a novembre scorso il Piccolo Teatro Grassi permettendo al pubblico milanese di confrontarlo con la messinscena di taglio naturalistico e cinematografico – allestita a maggio al Piccolo Teatro Strehler – dello svizzero Luc Bondy, attuale direttore dell’Odéon di Parigi, che nel 1985 – proprio in seguito alle dimissioni di Stein – ne prese il posto alla Schaubühne di Berlino.
Di tutti gli interrogativi che solleva questo testo misterioso – all’epoca scandaloso e osceno oggi probabilmente percepito come “un innocente vaudeville a tinte grottesche” come scrive Michele Ortore su Klp – Bondy non se ne cura mentre Stein – spiega Renato Palazzi sul domenicale del Sole 24 Ore – “appiana tante contraddizioni adottando un tono uniformemente derisorio, a tratti quasi parodistico”: nella famiglia maschile e maschilista, primitiva e bieca, del macellaio Max, un vecchio, abbarbicato al suo bastone che sbraita e blatera, (Bruno Ganz nella versione francese, qui Paolo Graziosi) torna in visita senza preavviso dall’America il figlio Teddy, docente di filosofia in un’università americana (un Andrea Nicolini tontolone e sognatore) con sua moglie Ruth (per Bondy la femme fatale Emmanuelle Seigner – protagonista di Venere in pelliccia di Polanski – per Stein una straordinaria Arianna Scommegna, definita dalla critica “talento ormai maturo, pronto per grandi traguardi”, “donna sfinge che – come sottolinea Renzo Francabandera su PAC – nel finale da tableau vivant da incisione di Kempff di fine Ottocento vale lo spettacolo”). Fin dall’inizio, la donna, madre di tre figli, imbarazzata e restia a conoscere la famiglia del marito, è scambiata da tutti per una puttana per poi, quando tutto è stato chiarito, inspiegabilmente cambiare atteggiamento e decidere di restare lì e addirittura prostituirsi. Cosa le è successo?
La scenografia, realizzata da Ferdinand Woegerbauer, è sobria: il proletario salotto borghese, al cui centro domina la “poltrona-trono” del vecchio patriarca, è sovrastato da un mastodontico praticabile, che offre allo sguardo dello spettatore la ringhiera del piano superiore. “Sotto il profilo pratico – osserva Igor Vazzaz sulla Gazzetta di Lucca – è un elemento ingombrante, ai limiti del superfluo, giacché quasi niente avverrà là sopra” ma testimonia in realtà “una grande pregnanza espressiva, poiché accentua il grado di oppressione, visiva e dunque più profonda, in cui è calata l’intera vicenda”.
In questo soffocante interno londinese, come in un “orinatoio sozzo”, si agitano primitive figure di maschi, “un po’ sghembi, un po’ sgualciti – osserva Renato Palazzi sul Sole 24 Ore – come appena usciti dalle vignette di Andy Capp”: il bieco macellaio Max, un eccellente Paolo Graziosi – che già aveva interpretato questo ruolo con la regia di Carlo Cecchi – convinto che le donne siano in fondo solo pezzi di carne, i figli Lenny (Alessandro Averone) viscido e verboso magnaccia, e Joey (Rosario Lisma), grullo boxeur di dubbio talento, forse il più innocente poichè il più stupido (nella prima rappresentazione del testo questo ruolo fu dello stesso Pinter). Al quadro si aggiunge lo zio taxista Sam, un pacato Elia Schilton, considerato dalla famiglia un debole per il suo animo mansueto.
Su tutti si muove Ruth, una Scommegna prima dimessa e poi seduttrice, che appare “come in trance, forse guidata dallo spirito della suocera defunta”, evocata dal capofamiglia – sottolinea Emilia Costantini sul Corriere della Sera – “con distratta devozione, la moglie-madre morta da tempo, come un fantasma, una vestale o nume tutelare”.
Perché si comporti così resta un interrogativo aperto a numerose interpretazioni: proprio Pinter, commentando che “Ruth gli sembrava una donna libera” spiegò in una delle sue rare interviste, riportata nelle note di regia di Guido De Monticelli, che allestì il testo nel 1999: “io trovo terribilmente difficile anche stabilire cosa è accaduto ieri…si fantastica, e la fantasticheria diventa vera come fosse la realtà”.
Del resto, in un’intervista a Sara Chiappori su Repubblica, spiega la stessa Scommegna – giunta al ruolo di madre/puttana per Stein dopo aver affrontato due ruoli testoriani – regina della lussuria in Cleopatras e Madonna in Mater Strangoscias – “se ci fosse una risposta univoca sarebbe un dramma borghese mentre si tratta dell’inferno della famiglia… la famiglia sono le tue radici, la pasta di cui sei fatto. Se non la affronti, ti massacra. Ruth si riconosce nelle dinamiche che scatena: ha provato a emanciparsi, ma in fondo le appartengono. Forse il ritorno del titolo è più suo che di Teddy”.
Non sono comunque mancate le critiche al lavoro di Stein, giudicato da molti “sopra le righe”: “nell’allestimento – spiega Domenico Rigotti sull’Avvenire – è come se mancasse il tema della minaccia, scomparisse quella tensione costante dove sembra che da un momento all’altro tutto stia per precipitare, quel “sospeso” che regola le relazioni fra i personaggi”.
E se in Pinter, come in Beckett, i personaggi combattono per la sopravvivenza, per Stein – ritiene Francesca De Sanctis sull’Unità – sembra più vicino a Cechov per la precisione dei dettagli e per la quantità e la durata dei silenzi e pause”. Forse troppi. Anche se, “ogni pausa – chiarisce Rita Sala sul Messaggero – è un silenzio pieno di imbarazzo, di oscenità, persino di humour”.
Ma forse proprio nei silenzi di Ruth/Scommegna, nello sguardo rovente di ghiaccio, altero e sofferente, c’è la vera attualità della messinscena, quell’assoluta e completa consapevolezza del proprio ruolo, come in un sogno-rivelatore della propria personalità. Una fantasticheria che diventa vera come fosse la realtà.
Visto al Piccolo Teatro Grassi, Milano
Maddalena Peluso