Abbiamo intervistato Simona e Hossein, occupanti della prima ora del Teatro Valle − che preferiscono essere presentati solo con il nome proprio − per farci meglio spiegare le decisioni e le motivazioni che li hanno portati, insieme agli altri artisti e cittadini, a costituire la Fondazione Teatro Valle Bene Comune, componendo una riflessione più ampia sulle attuali condizioni teatrali nostrane, all’indomani della conferenza stampa di presentazione della stagione Altresistenze, «una programmazione artistica lunga tutta una stagione – comunicano – ma anche un progetto culturale, creato e co-gestito da artisti».
Come siete arrivati all’istituzione e all’idea di Fondazione del Teatro Valle Bene Comune?
Simona: L’idea di creare una nuova istituzione che potesse forzare il sistema esistente c’è stata dall’inizio: sin dai primi giorni dell’occupazione abbiamo coinvolto Ugo Mattei e con lui studiato quale potesse essere la forma più giusta che consentisse maggiori forzature e paradossalmente si è individuata come unica possibilità quella di costituire una Fondazione. In un secondo momento Stefano Rodotà ha accolto la nostra proposta e insieme a Mattei sono state scritte le fondamenta dello statuto. Siamo partiti da riflessioni quali: cosa vuol dire occupare un teatro storico, che appartiene al comune, che sta per essere chiuso, che non si sa che fine farà? Se abbiamo resistito due anni e mezzo è perché un’ampia comunità di cittadini e artisti ci ha sostenuto. E insieme a loro ci siamo chiesti se non fosse arrivato il momento di creare un’istituzione diversa, considerato che tutto quello che ci sta intorno non ci piace e non funziona più. Ci troviamo di fronte a una riduzione sostanziale dei fondi statali che vengono dati alla cultura, anzi che vengono tolti. Lo statuto è sempre stato on-line – ormai da due anni – ed è stato emendato non solo da noi ma anche da cittadini e artisti, toccando criteri nodali, punti sostanziali di quello che è il problema delle istituzioni che si occupano di cultura. E ora che lo abbiamo presentato pubblicamente c’è stato un attacco diretto.
Hossein: Il problema è che la Fondazione non è soltanto una velleità di un gruppo o di una generazione di artisti che tenta di mettersi alla ribalta cercando di affermare i propri valori, è proprio una rivoluzione del sistema, un processo che probabilmente nemmeno noi possiamo esaurire, che mina profondamente l’esistente e quello che attualmente vige dentro il teatro italiano e dentro l’istituzione culturale italiana. Questa cosa all’inizio non era stata forse ben compresa, nel senso che, quando si parlò di dare vita a una Fondazione Teatro Valle Bene Comune molti pensavano fosse una Fondazione tradizionale come quella che ad esempio sta oggi governando il Teatro La Pergola. Non si è capita la reale portata della protesta in atto, né quale fosse la fase costruttiva avviata all’indomani dell’occupazione. La Fondazione Teatro Valle Bene Comune mina alcune certezze come quelle delle nomine dall’alto, come la possibilità da parte di un consiglio d’amministrazione di decidere le sorti di un luogo pubblico di cultura e dei soldi pubblici stanziati per esso; mina soprattutto un potere della politica rispetto a delle nomine, rispetto a quei passaggi fondamentali nella politica culturale di una città; parte dal concetto che quello che viene generato dal basso con il senso di responsabilità che operatori e cittadini assumono grazie al proprio impegno, diventa automaticamente ragione di potere decisionale di un patrimonio come il Teatro Valle. Quando questo concetto è diventato chiaro attraverso assemblee e confronti, ed è cominciata la pratica di un sistema funzionante, aperto alle correzioni e quindi vivo, quando si è preso atto che non era più soltanto una enunciazione di principi, molti si sono spaventati. Perché questo presuppone che ogni artista, importante o meno, metta in discussione una parte della sua posizione di rendita, rendita non solo economica, ma anche mentale.
Come rispondete alle critiche che sono state sollevate?
Hossein: Quanto alle critiche di un teatro privato che si domanda il senso di una istituzione così concepita e il suo ruolo di scorretto antagonista, si può cominciare a rasserenare gli animi dicendo che per quanto riguarda il nostro settore non deve più esserci antagonismo ma avanzamento continuo rispetto a delle esigenze, a delle priorità. Se il privato non riesce più a capire in che misura può rapportarsi a questo avanzamento continuo, si sente messo in discussione. Questa paura produce attacchi talmente grossolani che danno l’idea di quanto si sia impoverito il dibattito culturale, quanto vuoto sistematico ci sia dietro. Attacchi scomposti, che partono dal principio di legalità. Un operatore teatrale che pone un principio di legalità è quasi un controsenso. Sappiamo benissimo come la maggior parte dei teatri privati a Roma abbia bisogno dell’occhio socchiuso da parte degli enti preposti al controllo e alla sicurezza, uscite di sicurezza che vengono eluse perché i locali non ne hanno possibilità, la capienza, la situazione contrattuale dei lavoratori… Insomma, l’illegalità vige nel teatro italiano molto più di quanto se ne dica per il Valle. Questo è uno dei problemi da cui ripartire per delineare un nuovo sistema. Cominciamo a ragionare su come si possa ristabilire una ‘legalità’?
Il secondo problema che ci viene posto è quello dei pagamenti: la Fondazione questi pagamenti li vuole affrontare, li deve affrontare, li affronterà a patto che le condizioni comincino a essere pari per tutti: il teatro italiano, pubblico o privato, vive di sovvenzioni quindi occorrono giuste ed eque economie, altrimenti è un gioco al ribasso e al massacro tra teatri.
E per quanto riguarda il rapporto con la SIAE?
Hossein: Anche qui si è capito male, e abbiamo anche noi una pesante responsabilità; non ce l’abbiamo contro la Siae per il suo ruolo, ma la nostra battaglia è rivolta piuttosto contro la lobby interna alla società che in questo momento sta imponendo al paese un regime di monopolio, messo in discussione dalle direttive europee; ben venga una società che difende gli autori (forse bisognerebbe scindere autori ed editori, è un’idea un po’ corporativa della società nata nel ventennio dei primi del ‘900) ma dovrebbero esistere anche altre società in regime di libero mercato che possano occuparsi della stessa cosa offrendo altri servizi e altri governi delle risorse autoriali.
Le nostre posizioni sono articolate, è uno sforzo costante per continuare a offrire ragionamenti; spesso purtroppo le posizioni che ci vengono attribuite sui giornali e le parole di tanti ‘teatranti’ che genericamente ci attaccano non aiutano il confronto e lasciano il tempo che trovano perché spostano il tutto su un altro terreno, quello della polemica, della provocazione, un terreno poco interessante per avanzare qualcosa.
Simona: Non si deve fare confusione tra legalità e legittimità, quello che chiediamo non è di essere riconosciuti noi occupanti, quello che noi vogliamo avviare è il percorso di una nuova istituzione, bene comune, legata a questo luogo. E come si rapporta questo luogo alle istituzioni pre-esistenti? È questo che vogliamo cominciare a fare, nella maniera più trasparente possibile. Vorremmo che si creasse un dialogo, e non è detto nemmeno che saremmo noi a gestire la fondazione appena avremo il nulla osta dalla prefettura. Sarà fatta un’assemblea in cui verranno nominati i consiglieri di rappresentanza. Insomma questa istituzione dal basso, partecipata, condivisa, esistente, che ha uno statuto, come cambia, e come si rapporta? Questo è quello che vogliamo fare.
Un nuovo modello di Fondazione?
Hossein: Noi diverremmo formalmente una Fondazione, esattamente come la Pergola, ma ci saranno differenze sostanziali: nella Fondazione classica è previsto un consiglio direttivo o un vero e proprio consiglio d’amministrazione; noi abbiamo immaginato questo consiglio come un gruppo di coordinamento, un gruppo di 12 consiglieri eletti a turno dall’assemblea ‘comune’, che facilita e rende operative le decisioni, attraverso un lavoro permanente di ascolto, raccolta e restituzione delle mille attività. Non un corpo estraneo alla vita del teatro. Insomma, non l’abbiamo certo immaginato come un luogo dove la politica e i suoi sponsor mettono i propri uomini, dove vengono giocate strane partite amministrative, dove vengono prese decisioni sopra la testa degli artisti e dei lavoratori… Per noi il teatro è un luogo di elaborazione continua, un luogo di governo gestito dal basso secondo i principi del bene comune, dove le decisioni non vengono prese in camere chiuse, ma da un’assemblea aperta a tutta la comunità, partecipata da chi vuole prendersi cura e responsabilità per un teatro, senza motivi di esclusione e senza discriminazioni di sorta. Senza interessi e ragioni individuali da difendere o imporre. Questo le Fondazioni classiche non lo consentono.
Inoltre, abbiamo messo fondamentalmente in discussione il discorso delle economie teatrali: per noi è assurdo che gli organi amministrativi di un teatro assorbano oggi l’80% del budget che la pubblica amministrazione affida a una istituzione culturale. Agli artisti, ai lavoratori, ai tecnici, cosa resta? Rimangono veramente le briciole, se non il nulla.
Prova ne è che i teatri pubblici oggi non hanno più compagnie, non hanno più tecnici, si affidano a delle società esterne… Questa è una distruzione, direi pasolinianamente il genocidio di una grande tradizione, una tradizione che ha fatto storia nel mondo. Non ce lo possiamo permettere. Non possiamo permettere questo dissipamento di risorse, di tradizioni, di valori. Le risorse devono essere distribuite con altre modalità, equamente in primo luogo, tra artisti, tra lavoratori dello spettacolo, tra tecnici, tra comunicatori, tra amministrativi, tra personale di accoglienza e soprattutto tra quei giovani in formazione o appena formati che entrano a far parte di un percorso organico di ricambio generazionale. Ci sono persone da quarant’anni direttori di stabili con stipendi faraonici. Ci sono consigli di amministrazione che sembrano eterni. Poniamo al teatro italiano tanta concretezza, perché è da esso che veniamo. Allora cominciamo a parlare di cose concrete.
Intervista a cura di Emilio Nigro