Ravenna Teatro

Immagini e parole dai #parlamentidiaprile

parlamenti_sedieLe sedie sono poche decine, tutte diverse, disposte in circolo, per una conversazione ‘rotonda’, che rimbalza da un’estremità all’altra della sala. A prendere posto su quelli che sono doni di molti teatri d’Italia – eredità dell’installazione Chiamata Pubblica, che nel 2011 ha trasformato la piazza centrale di Santarcangelo in una platea a cielo aperto – docenti, critici, giornalisti, direttori artistici, operatori e studiosi del teatro italiano. Invitati a condividere pensieri, riflessioni, dubbi, a parlarsi, più che a parlare. Sei gli appuntamenti che Ermanna Montanari e Marco Martinelli hanno pensato per questa seconda edizione. Sei giornate per altrettante tematiche, per cinque o sei parlamentari alla volta, cui si aggiunge, per il primo anno, una rosa di giovani studiosi. Sei pomeriggi di incontri e sei serate di spettacoli, video, letture. Di questa settimana al Teatro delle Albe vogliamo restituire immagini, dalle nuvole dell’Osservatorio Fotografico, all’invasione della non-scuola per le strade di Ravenna, e parole, tramite i tweet di chi ha preso parte ai #parlamentidiaprile. Un piccolo, personalissimo storify, per raccontare, con pochi caratteri, quello che è stato e quello che resta, perché, come dice Marco Martinelli «siamo fatti di tempo di prima di adesso di dopo».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A cura di Rossella Porcheddu

Segnaliamo qui lo storify su #parlamenti di aprile curato da Matteo Brighenti 

Rimando da “Dialoghi sulla non-scuola”

Manifesto non-scuola – immagine di Davide Reviati

Nel 1992, quando Ravenna Teatro era appena nata e il Teatro delle Albe si era da poco insediato al Teatro Rasi, una professoressa dell’ITIS ravennate, propose alla compagnia di fare un laboratorio con i ragazzi.
A vent’anni da quella prima esperienza di pratica teatral-pedagogica, chiamata in seguito non-scuola – termine coniato da Cristina Ventrucci, le Albe hanno deciso di allargare il “cerchio” che vede ogni anno, al termine del percorso delle non-scuole ravennati, le guide e la compagnia confrontarsi e ragionare su ciò che è stato, sulle difficoltà, sui nodi e sui momenti di esaltazione che hanno caratterizzato i singoli laboratori con gli adolescenti.
Il 21 e il 22 aprile scorsi, al cerchio si sono uniti amici, osservatori, critici, studiosi e organizzatori, chiamati a “dialogare” in Dialoghi sulla non-scuola – il titolo delle giornate di incontro – a partire da questa esperienza teatrale, per attraversarla. «Dal groviglio di nodi», Marco Martinelli ha lanciato una domanda radicale, una riflessione sulla necessità del teatro: «perché fare teatro oggi?».
Trascorsi alcuni giorni da Dialoghi, il confronto nato in quell’occasione è rimasto vivo in noi, presenti a Ravenna, anche se isolato rispetto alle tante voci di tutte le persone chiamate al Rasi. Per questo motivo è emerso il desiderio di dedicare uno spazio su Il Tamburo di Kattrin in cui far confluire le conversazioni scaturite. Nel tentativo di prolungare e restituire il colore di ciò che è stato un importante momento di confronto, abbiamo chiesto a tutti i partecipanti una breve riflessione sull’incontro, con ricordi, testimonianze, ma anche rilanci o domande e pensieri sorti a posteriori, o proprio là dove si era interrotto il discorso. Di seguito, i contributi che abbiamo finora ricevuto, nella speranza di continuare ad aggiornare lo scritto con nuove riflessioni.

Hanno partecipato: Lorenzo Donati (Altre Velocità), Nicola Villa (Asini), Mario Cubeddu (Settembre dei poeti), Carolina Carlone, Monica Francia (CorpoGiochi®A scuola), Tahar Lamri (scrittore), Laura Mariani (storica del teatro), Massimo Marino (critico teatrale), Rosita Volani, Thomas Emmenegger (Olinda), Rodolfo Sacchettini, Cristina Ventrucci (Santarcangelo ’12 ’13 ’14. Festival Internazionale del Teatro in Piazza), Maddalena Giovannelli, Francesca Serrazanetti (Stratagemmi), Elena Conti, Roberta Ferraresi, Carlotta Tringali (Il Tamburo di Kattrin), Alice Merenda Somma, Antonio Maiani, Camilla Lopez, Consuelo Battiston, Damiano Gaudenzi, Giulia Torelli, Lanfranco Vicari, Massimiliano Rassu, Matteo Cavezzali, Silvia Loddo (guide della non-scuola), Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina, Marcella Nonni, Silvia Pacciarini, Alessandro Argnani, Roberto Magnani, Michela Marangoni, Laura Redaelli e Alessandro Renda (Teatro delle Albe)

 

Laura Mariani (storica del teatro)
Un antenato, quattro appunti, due domande

“Se io fossi uno di quei beati che voltano l’oro colla pala, vorrei spassarmi a fondare il mio teatro in un popolo nuovo, dove idee storte e sciapite di spettacoli scenici non entrarono ancora a guastare il buon senso che ogni bipede spennato porta con sé da Natura. M’educherei, p. e., una cinquantina di ragazzi arabi a cantare, poetare, recitare, dipingere, e via via. Poi un bel dì nel mio teatro marmoreo, sotto quel coperchione azzurro del cielo africano, darei a quei bedoini lo spettacolo della loro storia in dialoghi semplici” (Gustavo Modena, Il Teatro educatore, 1836).

Quando leggo questo brano a lezione Josella esclama: “Ma è il Teatro delle Albe!”
Dove nasce la forza della non scuola? Secondo me sono essenziali questi aspetti che elenco come mi vengono, senza ordine gerarchico.
Primo. Il Teatro delle Albe ha praticato una forma di autopedagogia articolata su più livelli che è durata anni: basata sul fare, sul non aver paura di sbagliare, sul continuare a studiare. Questa esperienza originaria li porta a essere ‘maestri’non convenzionali.
Secondo. Lo stretto legame della pedagogia con il lavoro artistico. Si vada a leggere l’Abbecedario della non-scuola alla voce Historia universalis: una presentazione semplice ed efficace del loro modo di lavorare sui testi, sempre, anche quando fanno gli spettacoli.
Terzo. L’interesse e l’amore per l’adolescenza. Erano appena usciti dall’adolescenza Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni quando hanno cominciato a cercare nel teatro la realizzazione dei loro sogni. Di questa energia, di questa con-fusione, di questo presente-futuro hanno bisogno anche oggi, per fare un teatro del nostro tempo.
Quarto. Il piacere. La cosa che mi ha colpito nel seguire Eresia della felicità a Santarcangelo 2011 sono stati naturalmente quegli adolescenti provenienti da tutto il mondo, quelle individualità spesso intrattabili e incomprensibili nel privato che si disciplinavano in un coro potente; ma ancor prima è stato il modo di lavorare di Marco Martinelli, la sua straordinaria professionalità e il piacere manifesto che provava nell’avvicinarli tutti e uno per volta al teatro, per un frammento di vita.

Due domande. La prima: calcolate, per favore, quanti giovani avete avvicinato al teatro in tutti questi anni? I numeri, i numeri. La seconda. Ci sono non-scolari che sono diventati attori, hanno trasformato il contagio in scelta di vita. Come è avvenuto il passaggio alla professione?

Mario Cubeddu (Settembre dei poeti)
I due giorni di dialogo della non-scuola il 21 e 22 aprile, organizzati dal Teatro delle Albe per i 20 anni di vita di quell’esperienza, sono stati per me uno stimolo importante di riflessione. Il ventaglio grandissimo degli argomenti, dal senso del fare teatro alle problematiche tecniche connesse al lavoro delle guide della non-scuola, hanno lasciato spazio anche al racconto dell’esperienza di Seneghe. Qui un’attività di non-scuola condotta da Roberto Magnani vive da quattro anni in simbiosi con un festival letterario, il Cabudanne de sos poetas/Settembre dei poeti. Ho avuto il piacere di testimoniare a Ravenna l’importanza che essa ha avuto per la comunità del mio paese, meno di 1900 abitanti di un borgo pastorale posto vicino alla costa centro-occidentale della Sardegna. Chiarisco che quando parlo di comunità uso questo termine col senso che ha avuto nella vita culturale e politica italiana grazie, per esempio, ad Adriano Olivetti. Uno dei luoghi in cui la sua attività intellettuale e politica ebbe importanti ripercussioni fu la Sardegna. Niente a che fare con comunità mitiche, inventate, difensive. La polis sono anche gli uomini riuniti davanti alla scena, il “cerchio condiviso in cui gli uomini, stranieri l’uno all’altro, si riconoscono”, per citare le parole di Marco Martinelli. “Morta la politica, l’educazione è diventata il campo in cui ancora la si può fare”. Una politica orientata a una crescita che è anche e anzitutto liberazione da una rete di condizionamenti culturali antichi e recenti.
Nello specifico seneghese è successo che un’onda positiva arrivata a un gruppo di ragazzi attraverso il teatro si è propagata per contagio ai genitori, ai fratellini, agli anziani che vivono soli nelle case vicine. Il teatro svolge il suo compito antico: scuote, illumina, commuove, fa riflettere.
Continua a leggere lo scritto di Mario Cubeddu… (vai all’articolo)

Maddalena Giovannelli (Stratagemmi)
Un cerchio di guide, critici, docenti e operatori che discute con passione, cercando di comprendere, sviscerare, analizzare il fenomeno imprendibile della non scuola. Le urla di Michela che escono dalla sala: sta cercando di tenere a bada i non-scuolini che tra poco porteranno in scena i loro Uccelli. Ermanna che racconta, con gli occhi luminosi, gli incontri con Barba e con Grotowsky davanti a un bicchiere di vino. Renda che guida un furgone per portare tutti a Lido Adriano a mangiare. I racconti dei milanesi di Olinda che vorrebbero rapire Argnani per averlo sempre all’ex Paolo Pini.
È questa, per me, la fotografia nitida dei giorni ravennati organizzati per festeggiare i 20 anni di non-scuola. Ma è anche un affresco di quello che sono le Albe, da molti anni: un mix irripetibile di ascolto, altruismo, concretezza, profonda ricerca artistica. Del resto – anche se a molto teatro italiano riesce forse difficile crederlo – Le Albe che salgono sul palco per Sterminio non sono altra cosa rispetto a quei mille e uno non-scuolini che urlano le parole di Aristofane o quelle di Büchner. Eresia della felicità di Santarcangelo resta per me una sintesi perfetta di tutto questo: in un cartellone di sperimentazioni performative, tra un pubblico iper-critico di addetti ai lavori, ecco che un’esplosione di magliette gialle ci costringe a domandarci, ancora una volta, che cos’è davvero teatro.

Francesca Serrazanetti (Stratagemmi)
Raccontare vent’anni di non-scuola sembra essere impossibile. Un incontro, nel più autentico spirito di accoglienza e confronto del Teatro delle Albe, pare il modo migliore per festeggiarli: una non-conferenza, una non-tavola rotonda, ma tante voci che si pongono domande. Interrogarsi sul passato e sul futuro della non-scuola significa interrogarsi sul senso stesso del fare teatro, almeno per come lo intendono le Albe. Un percorso che è una non-scuola quotidiana, un dare per apprendere e un non-insegnare per non-imparare ma liberare energie, alimentarle e farle crescere, contro ogni discriminazione, differenza, limitazione. Gettare un seme e poi un altro e poi un altro ancora, fino ad avere tanti epicentri che si allargano, con un dirompente effetto contagio. Per noi di “Stratagemmi” il cerchio è stato la figura che ha dato vita alla nostra esperienza redazionale: il teatro al centro e noi intorno che con diversi sguardi, punti di vista, esperienze e vissuti personali lo osserviamo e ne parliamo, come punto focale di un più ampio discorso. Forse per questo il cerchio creato dalle Albe nel ridotto del teatro Rasi è stato per me il modo più vero e autentico per fare onore a questi vent’anni e interrogarsi sul futuro della non-scuola. Un futuro in cui il cerchio sarà sempre più grande.

Massimiliano Rassu (guida non-scuola)
Provo a riportare le esperienze che ho convissuto con Marco e il Teatro delle Albe da ormai 12 anni!
Provo a partire da capo per contestualizzare in che modo e con quale percorso ci siamo incrociati quel 21 e 22 aprile.
Mio fratello Gabriele, più grande di me di 6 anni partecipava alla non-scuola dalle scuole superiori, dai primi anni Novanta. Nemmeno diecenne, vivevo le prime esperienze di spettatore affascinandomi agli “esiti” delle non-scuole alle quali partecipava, associando così quello che usualmente era inteso come “spettacolo teatrale” agli spettacoli messi in vita dai laboratori delle Albe con/dai ragazzi. Da allora ho come sentito innato il desiderio e il bisogno di giocare come facevano sulla scena, senza aver inteso a pieno tutto il messaggio che la non-scuola porta a sé; da allora ho sempre cercato la possibilità di svolgere “l’attività teatrale” nelle strutture sociali che mi si sono presentate, vuoi agli scouts, alle scuole medie …
Questa passione per il “giocare a fare” era costantemente alimentata dalla determinazione con la quale mio fratello si dedicava, riuscendo ad entrare nella prima squadra dei 12 Palotini di Marco assieme ad Alessandro Renda, Marco Magnani, Luca Fagioli, Alessandro Argnani …, appassionandomi sempre di più. Un giorno, io credo ancora per una qualche coincidenza astrale, mi sono ritrovato nella sede temporanea di Ravenna Teatro in V. Alberoni per un misterioso provino. Quel provino si rivelò – solo una volta sul posto – quello necessario al ricambio generazionale naturale dei Palotini adolescenti ed irriducibili che ormai erano cresciuti e non potevano continuare il percorso e l’esperienza de I Polacchi.
Continua a leggere lo scritto di Massimiliano Rassu…(vai all’articolo)

Consuelo Battiston (guida non-scuola)
Due parole.

Riporto una poesia di Patrizia Cavalli da PIGRE DIVINITA’ E PIGRA SORTE che per me quest’anno è stata al centro di molte riflessioni nell’ambito del progetto non-scuola a cui ho partecipato come guida.

Io so qual è la parola giusta.
Io lo so e tu non lo sai
non lo sai perchè hai paura
io lo so perchè ho il coraggio.
Non è mio questo coraggio
però è mio quando ce l’ho.

Per me è la condizione di chi si avventura di fronte ad un pubblico.
Ed è anche la presa di posizione di chi sceglie una “vita etica”, mai facile.
Che tipo di uomo voglio essere in questo mondo?
Qual’è la parola giusta?
Io non lo so.
Quel che è certo e che ci vuole coraggio.
Ma come farlo capire ai ragazzi durante la pratica delle prove, senza prediche?
Ho il compito di accogliere ma anche di chiedere il massimo impegno come guida.
Banalmente, qual’è lo strumento giusto: il bastone o la carota?
Credo entrambi, ma è complicato e sottilissimo da gestire.
Inoltre è importante premiare chi si prende più rischi e non dimenticare che il laboratorio è un’esperienza di gruppo dentro la quale ogni singolarità è importante.
Per me la gratificazione più bella è l’abbraccio collettivo finale, a conclusione del debutto.
Ripaga tutti gli sforzi e ti fa sentire parte di una comunità. Cosa rara al giorno d’oggi!

Roberto Magnani (attore del Teatro delle Albe, guida della non-scuola)
Quando abbiamo deciso di organizzare “Dialoghi sulla non-scuola” non sapevamo esattamente cosa sarebbe avvenuto. Ipotizzavamo un certo clima, avevamo voglia di sviscerare alcuni nodi-argomenti che soprattutto dopo Eresia della felicità al festival di Santarcangelo erano venuti a galla nelle nostre riflessioni interne, e sentivamo forte la necessità di aprire ulteriormente le porte (già spalancate) della non-scuola. Il dietro-le-quinte. Mostrare non solo il procedimento, il percorso e il processo creativo, ma attraverso un dialogo allargato ribadire e comprendere noi per primi il tipo di legame indissolubile e lo scambio profondo che intercorre tra la poetica e gli spettacoli del Teatro delle Albe e tutta l’attività della non-scuola (durante il secondo giorno di dialoghi questo punto è stato prima evidenziato da Sacchettini e poi reso limpido e chiaro a tutti dall’intervento di Ermanna).
Come in ogni DIALOGO che si rispetti, è stato importante la parte dell’ascolto: Ascoltare esperienze diverse come Seneghe e Milano mettersi a confronto e leggere dall’interno ciò che è stato per loro l’esperienza della non-scuola; ascoltare le nuove giovanissime guide come Max e Camilla che hanno messo in comune le loro sensazioni, il loro entusiasmo, le loro fragilità e le loro paure; ascoltare le bellissime storie di Tahar che sembrano provenire sempre da un mondo lontano nel tempo e nello spazio e invece ci parlano di noi e di quel che noi siamo qui, oggi; e infine ascoltare le mille domande e le curiosità più “tecniche” sulla scelta dei testi e delle musiche, sulla costruzione di un gruppo, sull’uso delle luci e dei costumi, sulla scelta di uno spazio piuttosto che un altro, su come si fa a decidere quale improvvisazione è meglio di un’ altra… ecc. Domande alle quali non si è data una risposta per mancanza di tempo e che in ogni caso una risposta unica e definitiva nella non-scuola non possono avere.

Matteo Cavezzali (guida non-scuola)
La cosa che più mi stupisce ogni anno della non-scuola è vedere quanta genialità repressa ci sia nei ragazzi delle superiori.
“Stai seduto e stai in silenzio”. Questo è il rigore richiesto dalla scuola. Un rigore dovuto per il metodo didattico basato sull’ascolto, un rigore doveroso in classi numerose e gestite da un solo insegnate.
“Ora alzatevi, mettete i banchi contro il muro, fate, parlate”. Questo è il rigore della non-scuola. Un rigore opposto, ma nel rispetto reciproco. “Dite quello che in classe vi fa sogghignare di nascosto, cantate quelle musiche che in classe vi passano per la testa”. La prima libertà dei ragazzi è quella di capire che possono fare quello che in aula gli è negato, anzi, non solo gli è concesso, ma diventa il loro punto di forza. L’ironia, la fisicità, la corsa e l’irruenza dell’adolescenza sono il sangue degli spettacoli. Poi viene la forma, il contenimento delle energie, per fare in modo che non vengano disperse, ma facciano parte di un corpo unico assieme a quelle dei dieci, venti, trenta compagni.
Quest’anno ho seguito due gruppi molti diversi, anche se analoghi per provenienza. Erano il gruppo del liceo scientifico A. Oriani di Ravenna e quello dell’altro liceo della città il Classico Dante Alighieri. In teoria pensavo fossero due gruppi analoghi e avevo pensato di lavorare su due testi di Shakespeare, il Macbeth e il Riccardo III. Visti i ragazzi però ho subito cambiato idea. Il gruppo del classico era composto da ragazzine timidissime e due soli ragazzi, di cui uno di prima che dimostrava la metà dei suoi anni. Con loro il lavoro è stato inizialmente impostato sul superamento del muro di timidezza e delle moltissime inibizioni e auto costrizioni che popolano la mente molto sensibile degli adolescenti. Era dunque impossibile trovare dei “personaggi” che vivessero a modo loro Shakespeare e siamo allora passati a Aristofane. Le ragazze si sono sbloccate grazie al coro, da non intendersi in senso musicale e nemmeno in senso filologicamente ripreso dalla tragedia classica, ma come reinventato da Marco Martinelli, ovvero una aggregazione di energie in un’unica potente struttura di gruppo.
Allo scientifico, invece, c’era un gruppo di scalmanati. Trenta anarchici che una volta rotti gli argini del rispetto del banco e del luogo scolastico, non ne volevano sapere di delimitare la propria estroversione. Il Macbeth si è naturalmente mutato in un Ubu (il suo alter-ego chiassoso e scomposto) e una volta che il gruppo si è formato, e ha sentito di essere divenuto veramente un gruppo (e non solo un insieme di singoli), il risultato è stato entusiasmante.


Rimando da “Dialoghi sulla non-scuola” di Mario Cubeddu

I due giorni di dialogo della non-scuola il 21 e 22 aprile, organizzati dal Teatro delle Albe per i 20 anni di vita di quell’esperienza, sono stati per me uno stimolo importante di riflessione. Il ventaglio grandissimo degli argomenti, dal senso del fare teatro alle problematiche tecniche connesse al lavoro delle guide della non-scuola, hanno lasciato spazio anche al racconto dell’esperienza di Seneghe. Qui un’attività di non-scuola condotta da Roberto Magnani vive da quattro anni in simbiosi con un festival letterario, il Cabudanne de sos poetas/Settembre dei poeti. Ho avuto il piacere di testimoniare a Ravenna l’importanza che essa ha avuto per la comunità del mio paese, meno di 1900 abitanti di un borgo pastorale posto vicino alla costa centro-occidentale della Sardegna. Chiarisco che quando parlo di comunità uso questo termine col senso che ha avuto nella vita culturale e politica italiana grazie, per esempio, ad Adriano Olivetti. Uno dei luoghi in cui la sua attività intellettuale e politica ebbe importanti ripercussioni fu la Sardegna. Niente a che fare con comunità mitiche, inventate, difensive. La polis sono anche gli uomini riuniti davanti alla scena, il “cerchio condiviso in cui gli uomini, stranieri l’uno all’altro, si riconoscono”, per citare le parole di Marco Martinelli. “Morta la politica, l’educazione è diventata il campo in cui ancora la si può fare”. Una politica orientata a una crescita che è anche e anzitutto liberazione da una rete di condizionamenti culturali antichi e recenti. Nello specifico seneghese è successo che un’onda positiva arrivata a un gruppo di ragazzi attraverso il teatro si è propagata per contagio ai genitori, ai fratellini, agli anziani che vivono soli nelle case vicine. Il teatro svolge il suo compito antico: scuote, illumina, commuove, fa riflettere. Soprattutto le tantissime persone che non hanno più occasione di trovarsi tutti insieme a vedere, ascoltare, partecipare.
Nel mondo tradizionale seneghese, in buona parte perso nel passato, ma ancora pienamente vivo negli anni Sessanta, la poesia si rappresentava in piazza di fronte alla comunità riunita. Nel giorno della festa tutti i componenti della famiglia uscivano di casa con in spalla sedie e scanni di dimensioni adeguate all’età. Andavano a formare man mano una platea ordinata davanti a un palco costruito con pali e tavole, o costituito semplicemente dal carrello di un trattore. I poeti erano due, ben noti al pubblico. Veniva loro assegnato un tema e su questo si sfidavano a mostrare più intelligenza, arguzia, profondità di pensiero, prontezza nella risposta, improvvisando ottavas serradas, ottave chiuse dalla rima baciata. Per qualche anno c’è stata in paese anche una pratica molto ingenua di teatro da filodrammatici. Grande coinvolgimento e grande divertimento, ma tutto si chiudeva con l’ultimo sipario. Faceva parte della maturazione umana, intellettuale e politica di nuovi gruppi “dirigenti” che mettevano alla prova e verificavano i loro poteri. Rappresentavano davanti ai compaesani la conquista di uno status sociale diverso e del linguaggio adeguato a quella nuova condizione. Oggi le cose sono diverse. Non è più questione di assalto al cielo, ma di ri-costituzione di un tessuto umano e civile. La canzone degli FP e degli IM, portata a Seneghe l’autunno scorso dal Teatro delle Albe, è stato lo spettacolo teatrale a cui molto seneghesi assistevano per la prima volta. Il teatro porta energia, vita, gioia. A Seneghe ne abbiamo bisogna perché la nostra è una realtà in grande difficoltà da tanti punti di vista. Ma credo che da un teatro come quello visto all’opera in Eresia della felicità a Sant’Arcangelo di Romagna, dove erano presenti anche dieci ragazzi di Seneghe, possano trarre vantaggio anche altri. Lo si è visto a Venezia.

Mario Cubeddu

Rimando da “Dialoghi sulla non-scuola” di Massimiliano Rassu

Provo a riportare le esperienze che ho convissuto con Marco e il Teatro delle Albe da ormai 12 anni!
Provo a partire da capo per contestualizzare in che modo e con quale percorso ci siamo incrociati quel 21 e 22 aprile.
Mio fratello Gabriele, più grande di me di 6 anni partecipava alla non-scuola dalle scuole superiori, dai primi anni Novanta. Nemmeno diecenne, vivevo le prime esperienze di spettatore affascinandomi agli “esiti” delle non-scuole alle quali partecipava, associando così quello che usualmente era inteso come “spettacolo teatrale” agli spettacoli messi in vita dai laboratori delle Albe con/dai ragazzi. Da allora ho come sentito innato il desiderio e il bisogno di giocare come facevano sulla scena, senza aver inteso a pieno tutto il messaggio che la non-scuola porta a sé; da allora ho sempre cercato la possibilità di svolgere “l’attività teatrale” nelle strutture sociali che mi si sono presentate, vuoi agli scouts, alle scuole medie …
Questa passione per il “giocare a fare…” era costantemente alimentata dalla determinazione con la quale mio fratello si dedicava, riuscendo ad entrare nella prima squadra dei 12 Palotini di Marco assieme ad Alessandro Renda, Marco Magnani, Luca Fagioli, Alessandro Argnani …, appassionandomi sempre di più. Un giorno, io credo ancora per una qualche coincidenza astrale, mi sono ritrovato nella sede temporanea di Ravenna Teatro in V. Alberoni per un misterioso provino. Quel provino si rivelò – solo una volta sul posto – quello necessario al ricambio generazionale naturale dei Palotini adolescenti ed irriducibili che ormai erano cresciuti e non potevano continuare il percorso e l’esperienza de I Polacchi.
La previa conoscenza dello spettacolo, il mio fisico gracile, una predisposizione all’amore per quell’affascinante mondo che mi si celava davanti e qualche vago aggancio all’interno della squadra (erano diventati tutti i miei idoli e modelli non appena partecipai come spettatore alla generale de I Polacchi con tanto di funambolo…nel ’98 furono alcuni elementi che fecero sì che io entrassi nella “seconda squadra palotina”.
Ancora non avevo mai partecipato attivamente ad un laboratorio della non-scuola – a differenza di tutti gli altri “neoreclutati” – e ciò mi faceva sentire penalizzato perchè pensavo che mi potessero mancare dinamiche, concezioni, metodi che avrebbero potuto facilitarmi sulla scena. Credo che se avessi continuato ad accanirmi senza frutti in greco e latino a scuola, con le assenze che mi si sarebbero presentate a causa delle imminenti turnée, avrei di certo perso l’anno e chissà quale altra opportunità, se non fosse stato per il fatto che cambiai indirizzo scolastico entro i primi 6 mesi della 4° ginnasio. Questo mi permise di continuare ad essere in scena negli anni successivi senza mai perdere un’anno di scuola e fare anche una bella figura coi professori! (in classe mi divertiva anche interpretare appieno il ruolo di studente interessato alla lezione!)
Marco mi chiese di accompagnarlo assieme a Roberto Magnani in Francia qualche giorno prima degli spettacoli, per assistere ad un laboratorio con adolescenti del posto (poi mi resi conto che fu il primo esperimento di non-scuola all’estero ed io ero presente!). Da allora ho sempre associato il metodo che usava Marco come un processo naturale e quasi scontato per mettere in vita uno spettacolo, per farlo mettere in vita, per riconoscere la “selvatichezza” universale che ogni ragazzo ha dentro di sè ed addomesticarla al linguaggio teatrale, per massacrare i grandi classici e ricostruirli in una dimensione più vicina ai fruitori, gli studenti stessi che partecipavano prima intimoriti, poi tranquillamente a loro agio, nel gioco.
Cambiare indirizzo scolastico, scambiare il greco antico con il francese mi facilitò in quello di cui avevo bisogno: comunicare con una lingua corrente e non una morta, un doppio senso di marcia, e avere gli elementi di una comunicazione completa: mittente, ricevente, messaggio, linguaggio, feedback.
Successivamente, per necessità di alchimie che solo Marco conosce e per mia grandissima gioia, entrai in scena con altre produzioni delle Albe e parallelamente, a scuola, per un’altra coincidenza astrale, cominciavo a frequentare dalla seconda superiore, i laboratori della non-scuola. E chi era la guida assegnata alla mia scuola per i primi due anni? Marco!con lui rivisitammo Le Troiane e Donne al Parlamento. Capii un pò meglio quello che vidi anni prima, quando ero bambino e senza coscienza e in scena c’era mio fratello.
Finite le scuole superiori ho intrapreso con la squadra tecnica del Rasi, di Ravenna Teatro, un percorso che viaggia parallelamente a quello che succede in scena: quello che succede Dietro alla scena! L’apprendistato come tecnico di palcoscenico prevedeva nell’addestramento, l’affiancamento alle tante squadre della non-scuola durante il giorno del debutto al Teatro Rasi per quello che riguardava le questioni tecniche a tutti i livelli: dalla scena, alle luci, all’audio, etc… Questo mi ha permesso di imparare a conoscere – a riconoscere – anche i diversi stili che le guide e i ragazzi avevano trascorso nei periodi della costruzione dello spettacolo, i diversi approcci con le questioni tecniche, le leggere sfumature e i decisi contrasti che ogni scuola e gruppo porta con sé, i tempi di lavoro, la pazienza necessaria, gli escamotages, le dinamiche drammaturgiche, i tempi comici, i ritmi funzionali, gli effetti scenici adatti, gli elementi ricorrenti che facevano della non-scuola la non-scuola!
Mi sembrava di avere affrontato l’esperienza non-scuola da parecchi punti di vista meno che da uno: quello della Guida.
La precarietà lavorativa, conseguentemente il tempo libero da dedicare al progetto, la curiosità di affrontare e disciplinare l’energia anarchica, senza influssi scolastici teatrali di una ventina di adolescenti e qualche altra coincidenza astrale, hanno fatto sì che, ancora una volta, ancora per caso, ancora come una stupenda sorpresa, mi trovassi quest’anno a fare per la prima volta da guida per questo progetto pedagogico universale che è oggi la non-scuola, vivendo un percorso che spero di poter percorrere ancora (se le coincidenze astrali lo vorranno), facendo tesoro dell’ascolto che ho imparato ad avere, colmando quella lacuna che da molto ormai pretendeva di essere colmata, conoscendo il processo alchemico da seguire avendo elementi allo stato puro che vengono offerti tramite i ragazzi, traducendo il linguaggio dei grandi autori teatrali nel linguaggio dei ragazzi; dal linguaggio dei ragazzi, in Esperienza Teatrale.

Ecco perchè eravamo nello stesso luogo nello stesso momento, il 21 e 22 aprile dopo quel 20 aprile di esito unico ed irripetibile del percorso non-scolastico che ho vissuto per la prima volta da guida.
Vorrei raccontare, avrei da raccontare più nello specifico il processo dell’opera coi ragazzi ma non possiedo l’uso di una scrittura corrente di periodi affrontabili, credo. Manco di sintassi e correttezza grammaticale. Questo mi affligge mi intimidisce e mi inibisce.
Ho cercato di fare del mio meglio sperando di non essere stato noioso. Vi ringrazio per l’interessamento della mia esperienza, spero di essere stato d’aiuto.

Massimiliano Rassu