marco martinelli teatro delle albe

Rimando da “Dialoghi sulla non-scuola”

Manifesto non-scuola – immagine di Davide Reviati

Nel 1992, quando Ravenna Teatro era appena nata e il Teatro delle Albe si era da poco insediato al Teatro Rasi, una professoressa dell’ITIS ravennate, propose alla compagnia di fare un laboratorio con i ragazzi.
A vent’anni da quella prima esperienza di pratica teatral-pedagogica, chiamata in seguito non-scuola – termine coniato da Cristina Ventrucci, le Albe hanno deciso di allargare il “cerchio” che vede ogni anno, al termine del percorso delle non-scuole ravennati, le guide e la compagnia confrontarsi e ragionare su ciò che è stato, sulle difficoltà, sui nodi e sui momenti di esaltazione che hanno caratterizzato i singoli laboratori con gli adolescenti.
Il 21 e il 22 aprile scorsi, al cerchio si sono uniti amici, osservatori, critici, studiosi e organizzatori, chiamati a “dialogare” in Dialoghi sulla non-scuola – il titolo delle giornate di incontro – a partire da questa esperienza teatrale, per attraversarla. «Dal groviglio di nodi», Marco Martinelli ha lanciato una domanda radicale, una riflessione sulla necessità del teatro: «perché fare teatro oggi?».
Trascorsi alcuni giorni da Dialoghi, il confronto nato in quell’occasione è rimasto vivo in noi, presenti a Ravenna, anche se isolato rispetto alle tante voci di tutte le persone chiamate al Rasi. Per questo motivo è emerso il desiderio di dedicare uno spazio su Il Tamburo di Kattrin in cui far confluire le conversazioni scaturite. Nel tentativo di prolungare e restituire il colore di ciò che è stato un importante momento di confronto, abbiamo chiesto a tutti i partecipanti una breve riflessione sull’incontro, con ricordi, testimonianze, ma anche rilanci o domande e pensieri sorti a posteriori, o proprio là dove si era interrotto il discorso. Di seguito, i contributi che abbiamo finora ricevuto, nella speranza di continuare ad aggiornare lo scritto con nuove riflessioni.

Hanno partecipato: Lorenzo Donati (Altre Velocità), Nicola Villa (Asini), Mario Cubeddu (Settembre dei poeti), Carolina Carlone, Monica Francia (CorpoGiochi®A scuola), Tahar Lamri (scrittore), Laura Mariani (storica del teatro), Massimo Marino (critico teatrale), Rosita Volani, Thomas Emmenegger (Olinda), Rodolfo Sacchettini, Cristina Ventrucci (Santarcangelo ’12 ’13 ’14. Festival Internazionale del Teatro in Piazza), Maddalena Giovannelli, Francesca Serrazanetti (Stratagemmi), Elena Conti, Roberta Ferraresi, Carlotta Tringali (Il Tamburo di Kattrin), Alice Merenda Somma, Antonio Maiani, Camilla Lopez, Consuelo Battiston, Damiano Gaudenzi, Giulia Torelli, Lanfranco Vicari, Massimiliano Rassu, Matteo Cavezzali, Silvia Loddo (guide della non-scuola), Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina, Marcella Nonni, Silvia Pacciarini, Alessandro Argnani, Roberto Magnani, Michela Marangoni, Laura Redaelli e Alessandro Renda (Teatro delle Albe)

 

Laura Mariani (storica del teatro)
Un antenato, quattro appunti, due domande

“Se io fossi uno di quei beati che voltano l’oro colla pala, vorrei spassarmi a fondare il mio teatro in un popolo nuovo, dove idee storte e sciapite di spettacoli scenici non entrarono ancora a guastare il buon senso che ogni bipede spennato porta con sé da Natura. M’educherei, p. e., una cinquantina di ragazzi arabi a cantare, poetare, recitare, dipingere, e via via. Poi un bel dì nel mio teatro marmoreo, sotto quel coperchione azzurro del cielo africano, darei a quei bedoini lo spettacolo della loro storia in dialoghi semplici” (Gustavo Modena, Il Teatro educatore, 1836).

Quando leggo questo brano a lezione Josella esclama: “Ma è il Teatro delle Albe!”
Dove nasce la forza della non scuola? Secondo me sono essenziali questi aspetti che elenco come mi vengono, senza ordine gerarchico.
Primo. Il Teatro delle Albe ha praticato una forma di autopedagogia articolata su più livelli che è durata anni: basata sul fare, sul non aver paura di sbagliare, sul continuare a studiare. Questa esperienza originaria li porta a essere ‘maestri’non convenzionali.
Secondo. Lo stretto legame della pedagogia con il lavoro artistico. Si vada a leggere l’Abbecedario della non-scuola alla voce Historia universalis: una presentazione semplice ed efficace del loro modo di lavorare sui testi, sempre, anche quando fanno gli spettacoli.
Terzo. L’interesse e l’amore per l’adolescenza. Erano appena usciti dall’adolescenza Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni quando hanno cominciato a cercare nel teatro la realizzazione dei loro sogni. Di questa energia, di questa con-fusione, di questo presente-futuro hanno bisogno anche oggi, per fare un teatro del nostro tempo.
Quarto. Il piacere. La cosa che mi ha colpito nel seguire Eresia della felicità a Santarcangelo 2011 sono stati naturalmente quegli adolescenti provenienti da tutto il mondo, quelle individualità spesso intrattabili e incomprensibili nel privato che si disciplinavano in un coro potente; ma ancor prima è stato il modo di lavorare di Marco Martinelli, la sua straordinaria professionalità e il piacere manifesto che provava nell’avvicinarli tutti e uno per volta al teatro, per un frammento di vita.

Due domande. La prima: calcolate, per favore, quanti giovani avete avvicinato al teatro in tutti questi anni? I numeri, i numeri. La seconda. Ci sono non-scolari che sono diventati attori, hanno trasformato il contagio in scelta di vita. Come è avvenuto il passaggio alla professione?

Mario Cubeddu (Settembre dei poeti)
I due giorni di dialogo della non-scuola il 21 e 22 aprile, organizzati dal Teatro delle Albe per i 20 anni di vita di quell’esperienza, sono stati per me uno stimolo importante di riflessione. Il ventaglio grandissimo degli argomenti, dal senso del fare teatro alle problematiche tecniche connesse al lavoro delle guide della non-scuola, hanno lasciato spazio anche al racconto dell’esperienza di Seneghe. Qui un’attività di non-scuola condotta da Roberto Magnani vive da quattro anni in simbiosi con un festival letterario, il Cabudanne de sos poetas/Settembre dei poeti. Ho avuto il piacere di testimoniare a Ravenna l’importanza che essa ha avuto per la comunità del mio paese, meno di 1900 abitanti di un borgo pastorale posto vicino alla costa centro-occidentale della Sardegna. Chiarisco che quando parlo di comunità uso questo termine col senso che ha avuto nella vita culturale e politica italiana grazie, per esempio, ad Adriano Olivetti. Uno dei luoghi in cui la sua attività intellettuale e politica ebbe importanti ripercussioni fu la Sardegna. Niente a che fare con comunità mitiche, inventate, difensive. La polis sono anche gli uomini riuniti davanti alla scena, il “cerchio condiviso in cui gli uomini, stranieri l’uno all’altro, si riconoscono”, per citare le parole di Marco Martinelli. “Morta la politica, l’educazione è diventata il campo in cui ancora la si può fare”. Una politica orientata a una crescita che è anche e anzitutto liberazione da una rete di condizionamenti culturali antichi e recenti.
Nello specifico seneghese è successo che un’onda positiva arrivata a un gruppo di ragazzi attraverso il teatro si è propagata per contagio ai genitori, ai fratellini, agli anziani che vivono soli nelle case vicine. Il teatro svolge il suo compito antico: scuote, illumina, commuove, fa riflettere.
Continua a leggere lo scritto di Mario Cubeddu… (vai all’articolo)

Maddalena Giovannelli (Stratagemmi)
Un cerchio di guide, critici, docenti e operatori che discute con passione, cercando di comprendere, sviscerare, analizzare il fenomeno imprendibile della non scuola. Le urla di Michela che escono dalla sala: sta cercando di tenere a bada i non-scuolini che tra poco porteranno in scena i loro Uccelli. Ermanna che racconta, con gli occhi luminosi, gli incontri con Barba e con Grotowsky davanti a un bicchiere di vino. Renda che guida un furgone per portare tutti a Lido Adriano a mangiare. I racconti dei milanesi di Olinda che vorrebbero rapire Argnani per averlo sempre all’ex Paolo Pini.
È questa, per me, la fotografia nitida dei giorni ravennati organizzati per festeggiare i 20 anni di non-scuola. Ma è anche un affresco di quello che sono le Albe, da molti anni: un mix irripetibile di ascolto, altruismo, concretezza, profonda ricerca artistica. Del resto – anche se a molto teatro italiano riesce forse difficile crederlo – Le Albe che salgono sul palco per Sterminio non sono altra cosa rispetto a quei mille e uno non-scuolini che urlano le parole di Aristofane o quelle di Büchner. Eresia della felicità di Santarcangelo resta per me una sintesi perfetta di tutto questo: in un cartellone di sperimentazioni performative, tra un pubblico iper-critico di addetti ai lavori, ecco che un’esplosione di magliette gialle ci costringe a domandarci, ancora una volta, che cos’è davvero teatro.

Francesca Serrazanetti (Stratagemmi)
Raccontare vent’anni di non-scuola sembra essere impossibile. Un incontro, nel più autentico spirito di accoglienza e confronto del Teatro delle Albe, pare il modo migliore per festeggiarli: una non-conferenza, una non-tavola rotonda, ma tante voci che si pongono domande. Interrogarsi sul passato e sul futuro della non-scuola significa interrogarsi sul senso stesso del fare teatro, almeno per come lo intendono le Albe. Un percorso che è una non-scuola quotidiana, un dare per apprendere e un non-insegnare per non-imparare ma liberare energie, alimentarle e farle crescere, contro ogni discriminazione, differenza, limitazione. Gettare un seme e poi un altro e poi un altro ancora, fino ad avere tanti epicentri che si allargano, con un dirompente effetto contagio. Per noi di “Stratagemmi” il cerchio è stato la figura che ha dato vita alla nostra esperienza redazionale: il teatro al centro e noi intorno che con diversi sguardi, punti di vista, esperienze e vissuti personali lo osserviamo e ne parliamo, come punto focale di un più ampio discorso. Forse per questo il cerchio creato dalle Albe nel ridotto del teatro Rasi è stato per me il modo più vero e autentico per fare onore a questi vent’anni e interrogarsi sul futuro della non-scuola. Un futuro in cui il cerchio sarà sempre più grande.

Massimiliano Rassu (guida non-scuola)
Provo a riportare le esperienze che ho convissuto con Marco e il Teatro delle Albe da ormai 12 anni!
Provo a partire da capo per contestualizzare in che modo e con quale percorso ci siamo incrociati quel 21 e 22 aprile.
Mio fratello Gabriele, più grande di me di 6 anni partecipava alla non-scuola dalle scuole superiori, dai primi anni Novanta. Nemmeno diecenne, vivevo le prime esperienze di spettatore affascinandomi agli “esiti” delle non-scuole alle quali partecipava, associando così quello che usualmente era inteso come “spettacolo teatrale” agli spettacoli messi in vita dai laboratori delle Albe con/dai ragazzi. Da allora ho come sentito innato il desiderio e il bisogno di giocare come facevano sulla scena, senza aver inteso a pieno tutto il messaggio che la non-scuola porta a sé; da allora ho sempre cercato la possibilità di svolgere “l’attività teatrale” nelle strutture sociali che mi si sono presentate, vuoi agli scouts, alle scuole medie …
Questa passione per il “giocare a fare” era costantemente alimentata dalla determinazione con la quale mio fratello si dedicava, riuscendo ad entrare nella prima squadra dei 12 Palotini di Marco assieme ad Alessandro Renda, Marco Magnani, Luca Fagioli, Alessandro Argnani …, appassionandomi sempre di più. Un giorno, io credo ancora per una qualche coincidenza astrale, mi sono ritrovato nella sede temporanea di Ravenna Teatro in V. Alberoni per un misterioso provino. Quel provino si rivelò – solo una volta sul posto – quello necessario al ricambio generazionale naturale dei Palotini adolescenti ed irriducibili che ormai erano cresciuti e non potevano continuare il percorso e l’esperienza de I Polacchi.
Continua a leggere lo scritto di Massimiliano Rassu…(vai all’articolo)

Consuelo Battiston (guida non-scuola)
Due parole.

Riporto una poesia di Patrizia Cavalli da PIGRE DIVINITA’ E PIGRA SORTE che per me quest’anno è stata al centro di molte riflessioni nell’ambito del progetto non-scuola a cui ho partecipato come guida.

Io so qual è la parola giusta.
Io lo so e tu non lo sai
non lo sai perchè hai paura
io lo so perchè ho il coraggio.
Non è mio questo coraggio
però è mio quando ce l’ho.

Per me è la condizione di chi si avventura di fronte ad un pubblico.
Ed è anche la presa di posizione di chi sceglie una “vita etica”, mai facile.
Che tipo di uomo voglio essere in questo mondo?
Qual’è la parola giusta?
Io non lo so.
Quel che è certo e che ci vuole coraggio.
Ma come farlo capire ai ragazzi durante la pratica delle prove, senza prediche?
Ho il compito di accogliere ma anche di chiedere il massimo impegno come guida.
Banalmente, qual’è lo strumento giusto: il bastone o la carota?
Credo entrambi, ma è complicato e sottilissimo da gestire.
Inoltre è importante premiare chi si prende più rischi e non dimenticare che il laboratorio è un’esperienza di gruppo dentro la quale ogni singolarità è importante.
Per me la gratificazione più bella è l’abbraccio collettivo finale, a conclusione del debutto.
Ripaga tutti gli sforzi e ti fa sentire parte di una comunità. Cosa rara al giorno d’oggi!

Roberto Magnani (attore del Teatro delle Albe, guida della non-scuola)
Quando abbiamo deciso di organizzare “Dialoghi sulla non-scuola” non sapevamo esattamente cosa sarebbe avvenuto. Ipotizzavamo un certo clima, avevamo voglia di sviscerare alcuni nodi-argomenti che soprattutto dopo Eresia della felicità al festival di Santarcangelo erano venuti a galla nelle nostre riflessioni interne, e sentivamo forte la necessità di aprire ulteriormente le porte (già spalancate) della non-scuola. Il dietro-le-quinte. Mostrare non solo il procedimento, il percorso e il processo creativo, ma attraverso un dialogo allargato ribadire e comprendere noi per primi il tipo di legame indissolubile e lo scambio profondo che intercorre tra la poetica e gli spettacoli del Teatro delle Albe e tutta l’attività della non-scuola (durante il secondo giorno di dialoghi questo punto è stato prima evidenziato da Sacchettini e poi reso limpido e chiaro a tutti dall’intervento di Ermanna).
Come in ogni DIALOGO che si rispetti, è stato importante la parte dell’ascolto: Ascoltare esperienze diverse come Seneghe e Milano mettersi a confronto e leggere dall’interno ciò che è stato per loro l’esperienza della non-scuola; ascoltare le nuove giovanissime guide come Max e Camilla che hanno messo in comune le loro sensazioni, il loro entusiasmo, le loro fragilità e le loro paure; ascoltare le bellissime storie di Tahar che sembrano provenire sempre da un mondo lontano nel tempo e nello spazio e invece ci parlano di noi e di quel che noi siamo qui, oggi; e infine ascoltare le mille domande e le curiosità più “tecniche” sulla scelta dei testi e delle musiche, sulla costruzione di un gruppo, sull’uso delle luci e dei costumi, sulla scelta di uno spazio piuttosto che un altro, su come si fa a decidere quale improvvisazione è meglio di un’ altra… ecc. Domande alle quali non si è data una risposta per mancanza di tempo e che in ogni caso una risposta unica e definitiva nella non-scuola non possono avere.

Matteo Cavezzali (guida non-scuola)
La cosa che più mi stupisce ogni anno della non-scuola è vedere quanta genialità repressa ci sia nei ragazzi delle superiori.
“Stai seduto e stai in silenzio”. Questo è il rigore richiesto dalla scuola. Un rigore dovuto per il metodo didattico basato sull’ascolto, un rigore doveroso in classi numerose e gestite da un solo insegnate.
“Ora alzatevi, mettete i banchi contro il muro, fate, parlate”. Questo è il rigore della non-scuola. Un rigore opposto, ma nel rispetto reciproco. “Dite quello che in classe vi fa sogghignare di nascosto, cantate quelle musiche che in classe vi passano per la testa”. La prima libertà dei ragazzi è quella di capire che possono fare quello che in aula gli è negato, anzi, non solo gli è concesso, ma diventa il loro punto di forza. L’ironia, la fisicità, la corsa e l’irruenza dell’adolescenza sono il sangue degli spettacoli. Poi viene la forma, il contenimento delle energie, per fare in modo che non vengano disperse, ma facciano parte di un corpo unico assieme a quelle dei dieci, venti, trenta compagni.
Quest’anno ho seguito due gruppi molti diversi, anche se analoghi per provenienza. Erano il gruppo del liceo scientifico A. Oriani di Ravenna e quello dell’altro liceo della città il Classico Dante Alighieri. In teoria pensavo fossero due gruppi analoghi e avevo pensato di lavorare su due testi di Shakespeare, il Macbeth e il Riccardo III. Visti i ragazzi però ho subito cambiato idea. Il gruppo del classico era composto da ragazzine timidissime e due soli ragazzi, di cui uno di prima che dimostrava la metà dei suoi anni. Con loro il lavoro è stato inizialmente impostato sul superamento del muro di timidezza e delle moltissime inibizioni e auto costrizioni che popolano la mente molto sensibile degli adolescenti. Era dunque impossibile trovare dei “personaggi” che vivessero a modo loro Shakespeare e siamo allora passati a Aristofane. Le ragazze si sono sbloccate grazie al coro, da non intendersi in senso musicale e nemmeno in senso filologicamente ripreso dalla tragedia classica, ma come reinventato da Marco Martinelli, ovvero una aggregazione di energie in un’unica potente struttura di gruppo.
Allo scientifico, invece, c’era un gruppo di scalmanati. Trenta anarchici che una volta rotti gli argini del rispetto del banco e del luogo scolastico, non ne volevano sapere di delimitare la propria estroversione. Il Macbeth si è naturalmente mutato in un Ubu (il suo alter-ego chiassoso e scomposto) e una volta che il gruppo si è formato, e ha sentito di essere divenuto veramente un gruppo (e non solo un insieme di singoli), il risultato è stato entusiasmante.


Rimando da “Dialoghi sulla non-scuola” di Mario Cubeddu

I due giorni di dialogo della non-scuola il 21 e 22 aprile, organizzati dal Teatro delle Albe per i 20 anni di vita di quell’esperienza, sono stati per me uno stimolo importante di riflessione. Il ventaglio grandissimo degli argomenti, dal senso del fare teatro alle problematiche tecniche connesse al lavoro delle guide della non-scuola, hanno lasciato spazio anche al racconto dell’esperienza di Seneghe. Qui un’attività di non-scuola condotta da Roberto Magnani vive da quattro anni in simbiosi con un festival letterario, il Cabudanne de sos poetas/Settembre dei poeti. Ho avuto il piacere di testimoniare a Ravenna l’importanza che essa ha avuto per la comunità del mio paese, meno di 1900 abitanti di un borgo pastorale posto vicino alla costa centro-occidentale della Sardegna. Chiarisco che quando parlo di comunità uso questo termine col senso che ha avuto nella vita culturale e politica italiana grazie, per esempio, ad Adriano Olivetti. Uno dei luoghi in cui la sua attività intellettuale e politica ebbe importanti ripercussioni fu la Sardegna. Niente a che fare con comunità mitiche, inventate, difensive. La polis sono anche gli uomini riuniti davanti alla scena, il “cerchio condiviso in cui gli uomini, stranieri l’uno all’altro, si riconoscono”, per citare le parole di Marco Martinelli. “Morta la politica, l’educazione è diventata il campo in cui ancora la si può fare”. Una politica orientata a una crescita che è anche e anzitutto liberazione da una rete di condizionamenti culturali antichi e recenti. Nello specifico seneghese è successo che un’onda positiva arrivata a un gruppo di ragazzi attraverso il teatro si è propagata per contagio ai genitori, ai fratellini, agli anziani che vivono soli nelle case vicine. Il teatro svolge il suo compito antico: scuote, illumina, commuove, fa riflettere. Soprattutto le tantissime persone che non hanno più occasione di trovarsi tutti insieme a vedere, ascoltare, partecipare.
Nel mondo tradizionale seneghese, in buona parte perso nel passato, ma ancora pienamente vivo negli anni Sessanta, la poesia si rappresentava in piazza di fronte alla comunità riunita. Nel giorno della festa tutti i componenti della famiglia uscivano di casa con in spalla sedie e scanni di dimensioni adeguate all’età. Andavano a formare man mano una platea ordinata davanti a un palco costruito con pali e tavole, o costituito semplicemente dal carrello di un trattore. I poeti erano due, ben noti al pubblico. Veniva loro assegnato un tema e su questo si sfidavano a mostrare più intelligenza, arguzia, profondità di pensiero, prontezza nella risposta, improvvisando ottavas serradas, ottave chiuse dalla rima baciata. Per qualche anno c’è stata in paese anche una pratica molto ingenua di teatro da filodrammatici. Grande coinvolgimento e grande divertimento, ma tutto si chiudeva con l’ultimo sipario. Faceva parte della maturazione umana, intellettuale e politica di nuovi gruppi “dirigenti” che mettevano alla prova e verificavano i loro poteri. Rappresentavano davanti ai compaesani la conquista di uno status sociale diverso e del linguaggio adeguato a quella nuova condizione. Oggi le cose sono diverse. Non è più questione di assalto al cielo, ma di ri-costituzione di un tessuto umano e civile. La canzone degli FP e degli IM, portata a Seneghe l’autunno scorso dal Teatro delle Albe, è stato lo spettacolo teatrale a cui molto seneghesi assistevano per la prima volta. Il teatro porta energia, vita, gioia. A Seneghe ne abbiamo bisogna perché la nostra è una realtà in grande difficoltà da tanti punti di vista. Ma credo che da un teatro come quello visto all’opera in Eresia della felicità a Sant’Arcangelo di Romagna, dove erano presenti anche dieci ragazzi di Seneghe, possano trarre vantaggio anche altri. Lo si è visto a Venezia.

Mario Cubeddu

Rimando da “Dialoghi sulla non-scuola” di Massimiliano Rassu

Provo a riportare le esperienze che ho convissuto con Marco e il Teatro delle Albe da ormai 12 anni!
Provo a partire da capo per contestualizzare in che modo e con quale percorso ci siamo incrociati quel 21 e 22 aprile.
Mio fratello Gabriele, più grande di me di 6 anni partecipava alla non-scuola dalle scuole superiori, dai primi anni Novanta. Nemmeno diecenne, vivevo le prime esperienze di spettatore affascinandomi agli “esiti” delle non-scuole alle quali partecipava, associando così quello che usualmente era inteso come “spettacolo teatrale” agli spettacoli messi in vita dai laboratori delle Albe con/dai ragazzi. Da allora ho come sentito innato il desiderio e il bisogno di giocare come facevano sulla scena, senza aver inteso a pieno tutto il messaggio che la non-scuola porta a sé; da allora ho sempre cercato la possibilità di svolgere “l’attività teatrale” nelle strutture sociali che mi si sono presentate, vuoi agli scouts, alle scuole medie …
Questa passione per il “giocare a fare…” era costantemente alimentata dalla determinazione con la quale mio fratello si dedicava, riuscendo ad entrare nella prima squadra dei 12 Palotini di Marco assieme ad Alessandro Renda, Marco Magnani, Luca Fagioli, Alessandro Argnani …, appassionandomi sempre di più. Un giorno, io credo ancora per una qualche coincidenza astrale, mi sono ritrovato nella sede temporanea di Ravenna Teatro in V. Alberoni per un misterioso provino. Quel provino si rivelò – solo una volta sul posto – quello necessario al ricambio generazionale naturale dei Palotini adolescenti ed irriducibili che ormai erano cresciuti e non potevano continuare il percorso e l’esperienza de I Polacchi.
La previa conoscenza dello spettacolo, il mio fisico gracile, una predisposizione all’amore per quell’affascinante mondo che mi si celava davanti e qualche vago aggancio all’interno della squadra (erano diventati tutti i miei idoli e modelli non appena partecipai come spettatore alla generale de I Polacchi con tanto di funambolo…nel ’98 furono alcuni elementi che fecero sì che io entrassi nella “seconda squadra palotina”.
Ancora non avevo mai partecipato attivamente ad un laboratorio della non-scuola – a differenza di tutti gli altri “neoreclutati” – e ciò mi faceva sentire penalizzato perchè pensavo che mi potessero mancare dinamiche, concezioni, metodi che avrebbero potuto facilitarmi sulla scena. Credo che se avessi continuato ad accanirmi senza frutti in greco e latino a scuola, con le assenze che mi si sarebbero presentate a causa delle imminenti turnée, avrei di certo perso l’anno e chissà quale altra opportunità, se non fosse stato per il fatto che cambiai indirizzo scolastico entro i primi 6 mesi della 4° ginnasio. Questo mi permise di continuare ad essere in scena negli anni successivi senza mai perdere un’anno di scuola e fare anche una bella figura coi professori! (in classe mi divertiva anche interpretare appieno il ruolo di studente interessato alla lezione!)
Marco mi chiese di accompagnarlo assieme a Roberto Magnani in Francia qualche giorno prima degli spettacoli, per assistere ad un laboratorio con adolescenti del posto (poi mi resi conto che fu il primo esperimento di non-scuola all’estero ed io ero presente!). Da allora ho sempre associato il metodo che usava Marco come un processo naturale e quasi scontato per mettere in vita uno spettacolo, per farlo mettere in vita, per riconoscere la “selvatichezza” universale che ogni ragazzo ha dentro di sè ed addomesticarla al linguaggio teatrale, per massacrare i grandi classici e ricostruirli in una dimensione più vicina ai fruitori, gli studenti stessi che partecipavano prima intimoriti, poi tranquillamente a loro agio, nel gioco.
Cambiare indirizzo scolastico, scambiare il greco antico con il francese mi facilitò in quello di cui avevo bisogno: comunicare con una lingua corrente e non una morta, un doppio senso di marcia, e avere gli elementi di una comunicazione completa: mittente, ricevente, messaggio, linguaggio, feedback.
Successivamente, per necessità di alchimie che solo Marco conosce e per mia grandissima gioia, entrai in scena con altre produzioni delle Albe e parallelamente, a scuola, per un’altra coincidenza astrale, cominciavo a frequentare dalla seconda superiore, i laboratori della non-scuola. E chi era la guida assegnata alla mia scuola per i primi due anni? Marco!con lui rivisitammo Le Troiane e Donne al Parlamento. Capii un pò meglio quello che vidi anni prima, quando ero bambino e senza coscienza e in scena c’era mio fratello.
Finite le scuole superiori ho intrapreso con la squadra tecnica del Rasi, di Ravenna Teatro, un percorso che viaggia parallelamente a quello che succede in scena: quello che succede Dietro alla scena! L’apprendistato come tecnico di palcoscenico prevedeva nell’addestramento, l’affiancamento alle tante squadre della non-scuola durante il giorno del debutto al Teatro Rasi per quello che riguardava le questioni tecniche a tutti i livelli: dalla scena, alle luci, all’audio, etc… Questo mi ha permesso di imparare a conoscere – a riconoscere – anche i diversi stili che le guide e i ragazzi avevano trascorso nei periodi della costruzione dello spettacolo, i diversi approcci con le questioni tecniche, le leggere sfumature e i decisi contrasti che ogni scuola e gruppo porta con sé, i tempi di lavoro, la pazienza necessaria, gli escamotages, le dinamiche drammaturgiche, i tempi comici, i ritmi funzionali, gli effetti scenici adatti, gli elementi ricorrenti che facevano della non-scuola la non-scuola!
Mi sembrava di avere affrontato l’esperienza non-scuola da parecchi punti di vista meno che da uno: quello della Guida.
La precarietà lavorativa, conseguentemente il tempo libero da dedicare al progetto, la curiosità di affrontare e disciplinare l’energia anarchica, senza influssi scolastici teatrali di una ventina di adolescenti e qualche altra coincidenza astrale, hanno fatto sì che, ancora una volta, ancora per caso, ancora come una stupenda sorpresa, mi trovassi quest’anno a fare per la prima volta da guida per questo progetto pedagogico universale che è oggi la non-scuola, vivendo un percorso che spero di poter percorrere ancora (se le coincidenze astrali lo vorranno), facendo tesoro dell’ascolto che ho imparato ad avere, colmando quella lacuna che da molto ormai pretendeva di essere colmata, conoscendo il processo alchemico da seguire avendo elementi allo stato puro che vengono offerti tramite i ragazzi, traducendo il linguaggio dei grandi autori teatrali nel linguaggio dei ragazzi; dal linguaggio dei ragazzi, in Esperienza Teatrale.

Ecco perchè eravamo nello stesso luogo nello stesso momento, il 21 e 22 aprile dopo quel 20 aprile di esito unico ed irripetibile del percorso non-scolastico che ho vissuto per la prima volta da guida.
Vorrei raccontare, avrei da raccontare più nello specifico il processo dell’opera coi ragazzi ma non possiedo l’uso di una scrittura corrente di periodi affrontabili, credo. Manco di sintassi e correttezza grammaticale. Questo mi affligge mi intimidisce e mi inibisce.
Ho cercato di fare del mio meglio sperando di non essere stato noioso. Vi ringrazio per l’interessamento della mia esperienza, spero di essere stato d’aiuto.

Massimiliano Rassu

 

Eresia della felicità: tracce poetiche della non-scuola a Venezia

Giovedì 12 aprile si è aperto al Teatro Rasi di Ravenna il festival non-scuola 2012 (vedi il calendario), un evento che per dodici giorni (fino a martedì 24) vede gli adolescenti ravennati, contagiati dalla pratica teatral-pedagogica del Teatro delle Albe, protagonisti delle “messe in vita” di alcune opere della tradizione teatrale. Il programma della rassegna si amplia sabato 21 e domenica 22 con Dialoghi sulla non-scuola: un momento di riflessione con artisti, studiosi, critici e organizzatori, pensato dalle Albe «non come convegno ma come una grande tavola rotonda» sul lavoro teatrale con gli adolescenti.

Aspettando questo incontro, nella città in cui da vent’anni Marco Martinelli e le “guide” portano avanti il percorso laboratoriale con i ragazzi degli Istituiti superiori, proviamo a ripercorrere alcune tappe della recente non-scuola fuori da Ravenna: Eresia della felicità a Venezia. Affresco non-scuola per Vladimir Majakovskij. Il progetto, promosso da Euterpe – Fondazione di Venezia, ha fatto approdare – dopo tanto Sud (Scampia, Mazara del Vallo, Lamezia Terme), come ci ha raccontato Martinelli in un’intervista – il Teatro delle Albe nel Nord-Est.
Il lavoro è stato presentato – in un doppio appuntamento – il 30 marzo al Cinema Teatro Aurora di Marghera e il 4 aprile al Teatro Goldoni di Venezia, ma gli adolescenti del Liceo Marco Polo e dell’Istituto Edison-Volta (ai quali si è unito in seguito un gruppo di bambini della Scuola Media Einaudi di Marghera), hanno conosciuto e sperimentato la pratica teatral-pedagogica-asinina fin dallo scorso ottobre. Nei sei mesi di laboratorio, il “fare teatrale” della compagnia ravennate è entrato nelle scuole della città lagunare e della periferia, ad Asseggiano, rinnovando l’idea di Teatro che prevale nella cultura italiana e che condiziona l’attuale concezione di formazione del nostro Paese. Con la non-scuola sono state poste le basi per una singolare – “eretica” e gioiosa, ma disciplinata – dimensione di incontro tra 60 ragazzi, in un’unione che ha recuperato il senso profondo del termine “comunità”. Nasce in questo contesto laboratoriale Eresia della felicità: tracce poetiche della non-scuola a Venezia: un racconto che precede la presentazione pubblica del lavoro, in cui vengono rintracciati alcuni elementi – se non veri e propri cardini – del non-metodo del Teatro delle Albe e del processo di creazione dello spettacolo. Si parte così da quel 24 ottobre 2011, giorno di avvio dell’esperienza (gli incontri si sono svolti in un primo momento proprio all’interno delle singole scuole, per far poi salire i ragazzi sul palco del Teatro Aurora nella fase finale) che abbiamo seguito personalmente come testimoni della genesi del lavoro.

Le prove di "Eresia della felicità a Venezia" - foto di Marco Zanin

Al primo incontro della non-scuola a Venezia non viene portato nessun testo, nessuna spiegazione noiosa sulla storia, non c’è tempo né voglia di cadere in sbrodolamenti di sapere. L’autore, che il Teatro delle Albe intende trattare nel corso del laboratorio titolato Eresia della felicità a Venezia con i ragazzi del Liceo Classico Marco Polo della città e dell’Istituto Tecnico Edison-Volta di Asseggiano (Mestre), è Vladimir Majakovskij. Marco Martinelli accenna brevemente solo all’adolescenza, per poter introdurre l’opera giovanile Mistero buffo – Chi è Majakovskij? – chiede un ragazzo presente che non sa neppure come iniziare a scrivere il nome del poeta russo… – Digitalo come vuoi su Google! Vedrai che apparirà il suggerimento! – risponde Roberto Magnani, guida della non-scuola. Per le Albe, prima di giungere al testo, è importante giocare insieme ai ragazzi, osservare e ascoltare, al fine di creare un gruppo, una comunità possibile. La pratica teatral-pedagogica che la compagnia ravennate porta avanti oramai da vent’anni, contraddice le tradizionali pratiche di formazione: non c’è insegnamento – «il teatro non si insegna, ma si fa» – ma vengono lanciati stimoli e possibilità, al fine di sollecitare la curiosità e la fantasia dei ragazzi. Martinelli sostituisce al termine “formazione” quello di “de-formazione”! Una deformazione propria dei volti degli adolescenti che restituisce la loro capacità di essere «uno, nessuno e centomila – come ricorda spesso il regista – senza sapere quale sarà la maschera che indosseranno da adulti». Al secondo incontro i volti rimangono più o meno gli stessi, qualcuno ha portato un amico, qualcun altro non è tornato, ma i loro sguardi sono così penetranti che è possibile sentire la stessa energia diffondersi nell’aula. Il riscaldamento iniziale (di voce, lingua e corpo) dà avvio al laboratorio. Poi Martinelli, assieme a Roberto e Laura (Laura Redaelli, attrice della compagnia e guida della non-scuola), presenta l’esercizio successivo: un gioco in cui due squadre si fronteggiano e si insultano. A questo punto, si vede affiorare un pò di perplessità nei ragazzi del Marco Polo. Che sia pudicizia? Buona educazione? Sta di fatto che non trovano il motivo per il quale dovrebbero dire parolacce ai propri compagni. Ma gli esercizi proposti dalle Albe sono giochi e vanno presi in quanto tali: «Nessuno ci sta giudicando. È un giocare insieme in cui va sviluppata la fantasia», ricorda Martinelli. Divertitevi allora, sia nel dirvi parole d’amore che di affronto.

le prove di "Eresia della felicità a Venezia" - foto di Marco Zanin

Settimana dopo settimana, le guide iniziano a raccontare agli studenti la trama, consegnano loro dei brandelli di Mistero buffo per vedere quale di questi li può toccare oggi, in che misura un accenno del testo teatrale del secolo scorso può divenire la loro storia: da questo momento emergono voci, racconti, sguardi. L’opera viene reinventata dai ragazzi attraverso la loro fantasia e l’improvvisazione. È questo uno dei cardini della non-scuola: Marco Martinelli, regista e drammaturgo, nel lavoro con gli adolescenti – così come nelle creazioni della compagnia – lascia che le loro parole, scaturite dalle improvvisazioni, alimentino e arricchiscano la composizione drammaturgica. Entra allora nell’opera del poeta russo tanto il dialetto veneziano dei ragazzi del Marco Polo, quanto l’arabo, il moldavo e le tante altre lingue che si incontrano ad Asseggiano.
Dagli esercizi di riscaldamento, alla prova all’italiana per la lettura dei primi testi composti sulle scene del Prologo e del Diluvio, le guide fanno lavorare costantemente i giovani disponendoli in cerchio. Si introduce in questo modo una delle peculiarità poetiche della non-scuola: «La radice della pratica teatrale – racconta Martinelli nel corso della conferenza stampa di Eresia – è l’“essere coro”, che non vuol dire massa. Noi viviamo in una società di massa in cui si diventa un numero dietro a milioni di altri. Il coro per noi è una dimensione eretica, da qui, Eresia della felicità, rispetto all’essere spappolati nella massa, oppure spappolati come individui. Il coro è l’arma potente del teatro, è una sorta di linguaggio sotterraneo che sta dietro tutta la storia del teatro dell’Occidente, ed è là dove invece, come dice un bellissimo proverbio africano, “Io sono Noi”, cioè io non perdo la mia individualità, ma mi fondo e mi confondo con gli altri. In questo “Io sono Noi” c’è la radice del dialogo che è l’altro grande strumento che il teatro della tradizione ci mette a disposizione: il coro (l’unisono) e il dialogo. Questa dimensione corale è fondamentale. Abbiamo preso come guida poetica Vladimir Majakovskij perché nel poeta russo entrambe le dimensioni sono importantissime: quella dell’Io delle sue liriche, dove c’è un Io “magnificamente malato” come dice nei suoi versi, e dall’altra parte la dimensione dialogica di Mistero Buffo». È lo stesso incontro tra la forma corale e quella dialogica che caratterizza la presentazione dei ragazzi: disposti in cerchio, un giovane alla volta, prendendo come riferimento un’ottava del Boiardo (ma usando i limiti della gabbia per oltrepassarla), grida il proprio nome, fa un gesto e tutti ripetono in coro ciò che ha fatto il compagno. L’ottava, tratta dall’Orlando innamorato, risuona ancora nei nostri corpi: Tutte le cose sotto della luna / l’alta ricchezza e i regni della terra / son sottoposti a voglia di fortuna / lei la porta apre / d’improvviso e serra / e quando più par bianca divien bruna / mai più se mostra a causa della guerra / instabile, voltante e roinosa / e più fallace qualunque altra cosa.

Nel corso della creazione di Eresia della felicità a Venezia vengono creati due accorpamenti, sia al Marco Polo, che ad Asseggiano: quello dei “puri” – i nobili – da un lato, e quello degli “impuri” – i poveri, i lavoratori – dall’altro. Tutti e quattro i gruppi, in seguito a un diluvio, sono approdati nell’unico pezzettino di terra rimasto asciutto: il Cinema Teatro Aurora di Marghera (nella presentazione pubblica al Goldoni, diverrà invece il teatro del centro storico di Venezia, il punto in cui cercare riparo). Qui, il tentativo di trovare un accordo per restare tutti nello stesso posto – asciutto! – si rivelerà fallimentare. Ma questa è solo una prima tappa del viaggio delle quattro “famiglie” perché al diluvio seguirà un terremoto che lì farà sprofondare tutti nell’Inferno, e poi… Gli sguardi stupiti degli adolescenti dichiarano curiosità verso il lavoro, ma non c’è fretta di saperne di più. Il loro fascino non verte sul finale, loro non si pongono obiettivi come noi adulti.

le prove di "Eresia della felicità a Venezia" - foto di Marco Zanin

Il 27 febbraio i ragazzi delle due scuole si sono finalmente incontrati in quel Cinema Teatro Aurora di Marghera nominato così tante volte nel corso delle prove in aula. Nei quattro mesi precedenti di laboratorio, quando il lavoro procedeva parallelamente nell’uno e nell’altro gruppo, la curiosità rispetto a questo evento è maturata sempre di più, insinuandosi in tutti coloro che hanno preso parte agli incontri settimanali nei due istituti. Ritrovarsi in questo spazio ci ha fatto sentire come se fossimo giunti veramente nell’unico pezzo di terra rimasto asciutto dopo il diluvio. Vederli lì, per la prima volta insieme, cinquanta ragazzi provenienti da due realtà così lontane l’una dall’altra, ai quali si sono uniti quattordici bambini della Scuola Media di Marghera, è stato emozionante. «I ragazzi hanno tanta bellezza, dice Martinelli, ma a un certo punto questa adrenalina va messa in relazione con la disciplina». La disciplina, che per tante settimane le guide della non-scuola hanno cercato di trasmettere ai ragazzi, senza imposizioni o ricatti ma solo ponendoli di fronte a una responsabilità – quella di un rispetto nei confronti non solo delle guide e del fare teatrale, ma soprattutto verso i propri compagni – finalmente è stata conquistata: vederli arrivare in teatro in anticipo era solo il primo accenno della serietà (sempre giocosa) che avrebbero manifestato una volta saliti sul palcoscenico. E qui, su uno spazio tanto grande da lasciare ogni libertà ai ragazzi, senza più i problemi legati alle aule scolastiche, è accaduto qualcosa. L’Aurora è stato assediato da una moltitudine di adolescenti che non si sono lasciati intimorire dallo “straniero” (intendendo con questo termine tanto i ragazzi dell’altra scuola, quanto il teatro, l’edificio teatrale) ma si sono uniti e sono diventati un unico “coro”.

Elena Conti

Agli antipodi dell’insegnamento per la rifondazione della comunità

Intervista a Marco Martinelli – Teatro delle Albe

foto di Stefano Cardone

Ha un sorriso contagioso e penetrante Marco Martinelli mentre parla dei suoi “barbari”: gli adolescenti coinvolti nei laboratori teatrali svolti all’interno di licei ed istituti superiori ravennati e non. Lo abbiamo incontrato alla Fondazione di Venezia in occasione di “Eresia della felicità”, un momento di confronto sulla pratica teatrale della non-scuola del Teatro delle Albe. Il titolo dell’evento rimanda all’azione corale che riunirà in luglio, in occasione del Festival di Santarcangelo 2011 diretto da Ermanna Montanari (co-fondatrice del Teatro delle Albe), duecento dei ragazzi delle diverse “periferie” del mondo, autori delle messe-in-vita della non-scuola: un incontro di culture che lascia emergere un concetto di comunità da tempo accantonato e che genera stupore di fronte alla bellezza della “semplicità” con la quale viene fermamente reclamato.

Il progetto della non-scuola compie vent’anni. Grazie a cosa è nato? Come è stato possibile partire da un gruppo ristretto di ragazzi coinvolti per poi ampliarsi fino a creare un sottosuolo così vivace in particolare nella città di Ravenna?
Nel 1991 il Comune di Ravenna ci diede in gestione il Teatro Rasi, uno spazio comunale, dopo che per anni e anni eravamo stati un gruppo indipendente, nomade, che lavorava dove poteva. Avere in mano un teatro può risultare un cattivo incantesimo, che trasforma un giovane fiero teatrante in un burocrate. Noi accettammo di entrare dentro questa “trappola” con la convinzione – e la presunzione – di non rimanerci impigliati dentro. Si trattava di diventare “stabili”, e nello stesso tempo restare “corsari”. Pensammo fin dall’inizio che dovevamo essere una contraddizione vivente, un luogo dell’Istituzione, sì, in quanto spazio comunale, che però doveva ardere della nostra passione ed essere in questo modo riconosciuto dai cittadini (giovani e non più giovani) come luogo di pensiero e di visioni. All’epoca non sapevamo come dar corso a questa intuizione: tu desideri, ma spesso non sai come portare avanti il tuo desiderio. Non avevamo mai lavorato prima con gli adolescenti: decidemmo di andare nelle scuole perché sentivamo che lì c’erano i nostri complici, i potenziali alleati per continuare ad ardere come teatro. Così è stato. Abbiamo scoperto che i ragazzi che odiavano il teatro e lo vivevano come una tortura, quasi una punizione corporale da cui fuggire – perché a quindici anni i più amano il rock, la discoteca, il calcio, amano mondi dove il corpo e la mente non sono separati, dove l’immaginazione corre – abbiamo scoperto che la loro anarchia poteva essere messa in corto circuito con i grandi classici, con Aristofane, Molière, Shakespeare. Questa è stata la scaturigine della non-scuola, come due legnetti che sfregati assieme fanno venir fuori la scintilla, l’energia: un polo sono gli “asini”, i “barbari”, e l’altro sono le grandi favole della tradizione che non aspettano altro che qualche cuore intrepido le tiri fuori dalla polvere.

Quanto sono cambiati questi “barbari” dal ’91 ad oggi?
Innanzitutto sono aumentati di numero in maniera vertiginosa: se il primo anno erano trenta, nel giro di due-tre anni sono diventati trecento. Ogni anno lavoriamo con un numero oscillante fra i 300 e i 400 ragazzi che a Ravenna con noi “massacrano” i classici; questa epidemia, nel giro di vent’anni, ha modificato il tessuto teatrale della città. Migliaia di adolescenti hanno scoperto che il teatro non è un rito inutile, vuoto, che non ci tocca nel profondo – come tante volte si riduce ad essere. Hanno scoperto che è molto più eccitante di una PlayStation. E da lì non ci siamo più liberati di loro. Il nostro teatro è un porto di mare in cui entrano ed escono, sanno che è un luogo anche loro.

foto di Stefano Cardone

A proposito del massacrare i classici: come avviene tutto questo? C’è un lavoro paritario, non di regista e attore…
La figura che fa da medium tra gli adolescenti e i classici non la chiamiamo “regista”, ma “guida”. L’adolescente che ti trovi davanti non è una nuova pedina che va a ingrossare le fila della società dello spettacolo: l’adolescente è il re, e tu guida sei solo l’umile servitore, il medium tra la sua energia vitale e il testo della tradizione.
All’inizio bisogna trovare – non è una ricetta, è piuttosto un principio orientativo del lavoro – il nodo di quella che noi chiamiamo non la “messa-in-scena” ma la “messa-in-vita”. Occorre cioè trovare una situazione drammaturgica (in relazione con il testo su cui si lavora, beninteso: ma questo è importante che lo sappia la guida…), che sia fortemente legata alla vita degli adolescenti. È la prima fase del lavoro, in cui si mette da parte il testo antico e attraverso le improvvisazioni, il gioco, la creazione di energia, emergono i loro sogni e i loro desideri, quello che non dicono né ai professori né ai genitori – cioè il meglio. Questa è la benzina con la quale cominciare a costruire l’opera: in questo modo i ragazzi percepiscono di essere loro, gli “autori”. In una seconda fase invece – e qui la guida deve avere notevole capacità sul piano drammaturgico – tutto questo materiale va messo in relazione con l’impianto narrativo del “classico” che ancora ci parla. E in tale alchimia può avvenire che tante battute del testo originario, tanti frammenti, a volte anche intere pagine, ritrovino spazio all’interno del nuovo racconto scenico, che mescola in profondo le invenzioni degli adolescenti e la favola antica. Il primo lavoro che facemmo a Scampia nel 2005 con settanta adolescenti sul palco era La pace di Aristofane. In realtà il testo non l’abbiamo mai letto insieme. Gliel’ho raccontato all’inizio del lavoro e loro hanno detto: «questa è la nostra storia». Occorre essere lucidi nel saper creare intarsi e intrecci tra le improvvisazioni e la bellezza, la follia di questi classici.

La non-scuola parte da te e da Maurizio Lupinelli. Come è avvenuto il passaggio di testimone da voi alle guide? Quali sono i requisiti richiesti a queste figure?
All’inizio eravamo io e Maurizio, con una bicicletta in due: lui mi portava, andavamo in giro in questo modo da una scuola all’altra. Per noi la non-scuola è proprio lo spirito della bicicletta. Abbiamo iniziato con tre scuole, poi il lavoro è cresciuto a dismisura e non riuscivamo più a tener testa a tutte le chiamate. C’era in atto una tale “epidemia” che bisognava trovare qualcun altro che partecipasse al progetto, così abbiamo chiesto a degli amici registi di fare da guida all’interno della non-scuola. In questa seconda fase di necessario allargamento c’era però qualcosa che non andava: era come se, dello spirito della bicicletta, riuscissimo a comunicare solo dei principi astratti; e gli amici registi, pur con tutte le loro buone intenzioni, restavano “registi” e non si trasformavano in guide. Poi il tempo, lo scorrere degli anni, ha creato una magia che non avevamo preventivato: alcuni di quei quindicenni che avevano cominciato con noi, i più bravi, i più tenaci e i più ammalati di teatro, quando hanno avuto vent’anni hanno cominciato a lavorare nella bottega delle Albe e sono diventati le nuove guide della non-scuola, guide “ideali” in un certo senso, perché l’avevano appena vissuta da studenti. È come nelle famiglie tradizionali contadine, dove è la bambina più grande che diventa la mamma dei più piccoli – ma naturalmente, nell’intrecciarsi dei legami che formano una tribù, una comunità.
Alla guida viene sì richiesto di avere un sapere teatrale, ma prima ancora le si chiede di possedere il dono dell’ascolto, la capacità di far sentire agli adolescenti che li stai prendendo sul serio. È l’unica cosa che chiedono, non vogliono sapere altro da te, non gliene frega niente se hai vinto cinquanta premi Ubu; non sanno nemmeno che cosa sia il premio Ubu. Per loro sei un “nessuno”, e questa se la sai leggere è una grazia caduta dal cielo, una lezione di umiltà. Penso a Ermanna che a Scampia cuciva gli orli dei costumi dei più piccoli. Ti devi guadagnare la loro fiducia sulla base di qualcosa di molto profondo. La guida deve saper dire-senza-dirle queste poche, essenziali parole: «siamo io e te adesso, siamo qui a fare qualcosa che per me è importante, se lo è anche per te lo sarà per tutti noi». Gli adolescenti non sono quel plotone grigio che descrivono i sociologi: sono creature magnifiche che amano il teatro quando sperimentano in esso un luogo di libertà.

La fascia d’età dei ragazzi a cui vi rivolgete è molto interessante e delicata: la scuola superiore. Hai mai pensato di coinvolgere anche le scuole medie piuttosto che elementari?
Fino ad Arrevuoto, così abbiamo chiamato la non-scuola a Scampia, non lo avevamo mai fatto. Ci siamo andati nel 2005, dopo quasi quindici anni di non-scuola a Ravenna. Eravamo convinti che fosse meglio non lavorare con ragazzi più piccoli, ma anche consapevoli però che non si trattava di esportare meccanicamente un metodo di lavoro, ma di entrare in relazione con l’anima del luogo che ci ospitava. A Scampia un’insegnante, Federica Lucchesini, ci ha chiesto di inserire anche i bambini della scuola in cui insegnava, la media “Carlo Levi.” All’inizio ho fatto resistenza. ma la tenacia di questa insegnante, questa ragazza che veniva da Pavia e che era là come in terra di missione, mi ha commosso e mi son detto «proviamoci!». È stata un’esperienza sorprendente, e da allora anche a Chicago, in Senegal, in Belgio, a Mazara del Vallo – altri luoghi nel mondo in cui abbiamo lavorato con la non-scuola – da allora abbiamo sempre mescolato bambini e adolescenti, trovando in questo un’alchimia preziosa.

Buio. L’Avaro del Teatro delle Albe

Recensione a L’Avaro – Teatro delle Albe

L’Avaro del Teatro delle Albe, al suo debutto, al Teatro Storchi di Modena, si presenta subito con una stratificazione di finzione e di pensiero, di rappresentazione e di critica, fin ancora da prima che lo spettacolo cominci: con il pubblico in sala e le luci ancora accese dei servi di scena smontano e portano fuori quella che sembrava essere la scenografia. Lo spazio resta vuoto e buio, di un nero materico che, pur nelle rare sfumature dei verdi e dei sabbia, materializza la commedia più nera di Molière, che si pone, con questo allestimento, a fianco degli altri «antenati preferiti» del regista Marco Martinelli: Aristofane e Jarry. Fra gli elementi scenici che scompaiono, anche dei riflettori televisivi e un monitor su cui si mostra l’entrata in sala del pubblico. Avvertimento sottolineato in più modi – all’inizio e durante tutto lo spettacolo – che pone l’accento sul linguaggio, l’immaginario, il meccanismo televisivo utilizzato poi per tutta la rappresentazione e rimanda, decisamente e fin da subito, ad una sua critica a più livelli, che si fa eco in ogni scena, gesto e parola, con tanto di ripetizioni e tentativi di mettersi in luce, applausi registrati e un mega-sorpresone finale destinato a riunire una famiglia perduta tanti anni prima.

Foto di Claire Pasquier

L’Avaro è uno spettacolo che in parte si allontana dalle “reinvenzioni” precedenti del Teatro delle Albe, costituite da scritture o riscritture di Marco Martinelli ad hoc per i suoi attori: la parola – che fu di Molière e che qui è  aguzzata dalla magistrale traduzione di Cesare Garboli – rimane apparentemente intatta. Ma, calata nella gestualità sovraccarica, sembra “maltrattata” dall’interpretazione, in un meccanismo di incarnazione nell’azione del tutto originale, che trova il suo apice nella scena della discoteca, in cui ognuno sembra ballare una musica propria e in cui il testo è stravolto dalla concitazione dei gesti, dall’affanno e dal sudore. L’Avaro vive di uno sprofondamento della parola nelle persone che danno vita allo spettacolo, in linea con la ricerca delle Albe, ma anche con la creatività di Molière, che ha composto gran parte dei suoi testi per i suoi attori. E si anima di un’interpretazione corale, tutta giocata sul doppio e sull’ambizione, variopinta e caricata, che fa da contrappunto alla presenza quasi incisa dell’Arpagone affidato all’interpretazione di Ermanna Montanari. Nel corso dello spettacolo, a fianco dell’eccellente e inquietante Avaro, si mostra, ancora una volta, un lavoro d’attore capace di utilizzare, insieme, diversi registri interpretativi e che si fa gioco, post-brechtianamente, dell’immedesimazione, che pure usa, essendo tutte le azioni sviluppate su più livelli compresenti in scena, con cambi a vista e i servi che, oltre a spostare l’arredo, si occupano anche di dirigere i movimenti dei personaggi.
Arpagone – creatura nerissima che domina, concettualmente e nei fatti, tutti i personaggi e le azioni dello spettacolo, con il suo scettro-microfono a cui ognuno tenta di ambire e con i gesti minimamente incisi, come in una stampa espressionista – sembra piombato in una soap-opera americana degli anni Settanta, fra intrighi d’amore e superficialità, colpi di scena e ricatti, carta da parati a fiori e abiti pastello: unico personaggio in tutto e per tutto teatralissimo, dalla modulazione della voce alla gestualità alla efficacissima ricerca sulla mimica facciale. E, anche in questo, unica figura della, pur brutale, coerenza: sempre se stesso, tutto d’un pezzo, si mostra per quel che è, in una storia in cui tutti sono molto diversi da quel che sembrano e numerosi elementi ammiccano alla più spietata finzione televisiva.

Foto di Claire Pasquier

Il capovolgimento e la contaminazione messi in atto fra scena e platea – così come il pubblico “compare” in scena, prima che lo spettacolo cominci, questo Avaro è uno spettacolo che tenta di debordare in tutti i modi oltre il proscenio – si sviluppano lungo tutto lo spettacolo per concludersi addirittura con una fugace apparizione del regista, destinato a riportare in equilibrio l’andamento della vicenda (tanto nella realtà, quanto nello spettacolo), nei panni di Anselmo, il padre perduto di Mariana e Valerio, che possono così realizzare i loro sogni d’amore. Sconfinamenti e rispecchiamenti, reciproci e contaminati, stanno forse ad indicare – come suggerisce l’incipit delle note allo spettacolo: «Sono tanti gli Avari…» – che Arpagone, che pone il denaro davanti a tutto, terrorizzato dalla perdita dei suoi beni, rinchiuso nella sua cas(s)etta fra mille ipocrisie, non rimane sulla scena, ma si può trovare ovunque nel mondo Occidentale così ossessionato dall’avere e magari in un pezzetto di nero anche dentro ognuno di noi.

Roberta Ferraresi

Visto al Teatro Storchi di Modena.