non scuola teatro delle albe

Agli antipodi dell’insegnamento per la rifondazione della comunità

Intervista a Marco Martinelli – Teatro delle Albe

foto di Stefano Cardone

Ha un sorriso contagioso e penetrante Marco Martinelli mentre parla dei suoi “barbari”: gli adolescenti coinvolti nei laboratori teatrali svolti all’interno di licei ed istituti superiori ravennati e non. Lo abbiamo incontrato alla Fondazione di Venezia in occasione di “Eresia della felicità”, un momento di confronto sulla pratica teatrale della non-scuola del Teatro delle Albe. Il titolo dell’evento rimanda all’azione corale che riunirà in luglio, in occasione del Festival di Santarcangelo 2011 diretto da Ermanna Montanari (co-fondatrice del Teatro delle Albe), duecento dei ragazzi delle diverse “periferie” del mondo, autori delle messe-in-vita della non-scuola: un incontro di culture che lascia emergere un concetto di comunità da tempo accantonato e che genera stupore di fronte alla bellezza della “semplicità” con la quale viene fermamente reclamato.

Il progetto della non-scuola compie vent’anni. Grazie a cosa è nato? Come è stato possibile partire da un gruppo ristretto di ragazzi coinvolti per poi ampliarsi fino a creare un sottosuolo così vivace in particolare nella città di Ravenna?
Nel 1991 il Comune di Ravenna ci diede in gestione il Teatro Rasi, uno spazio comunale, dopo che per anni e anni eravamo stati un gruppo indipendente, nomade, che lavorava dove poteva. Avere in mano un teatro può risultare un cattivo incantesimo, che trasforma un giovane fiero teatrante in un burocrate. Noi accettammo di entrare dentro questa “trappola” con la convinzione – e la presunzione – di non rimanerci impigliati dentro. Si trattava di diventare “stabili”, e nello stesso tempo restare “corsari”. Pensammo fin dall’inizio che dovevamo essere una contraddizione vivente, un luogo dell’Istituzione, sì, in quanto spazio comunale, che però doveva ardere della nostra passione ed essere in questo modo riconosciuto dai cittadini (giovani e non più giovani) come luogo di pensiero e di visioni. All’epoca non sapevamo come dar corso a questa intuizione: tu desideri, ma spesso non sai come portare avanti il tuo desiderio. Non avevamo mai lavorato prima con gli adolescenti: decidemmo di andare nelle scuole perché sentivamo che lì c’erano i nostri complici, i potenziali alleati per continuare ad ardere come teatro. Così è stato. Abbiamo scoperto che i ragazzi che odiavano il teatro e lo vivevano come una tortura, quasi una punizione corporale da cui fuggire – perché a quindici anni i più amano il rock, la discoteca, il calcio, amano mondi dove il corpo e la mente non sono separati, dove l’immaginazione corre – abbiamo scoperto che la loro anarchia poteva essere messa in corto circuito con i grandi classici, con Aristofane, Molière, Shakespeare. Questa è stata la scaturigine della non-scuola, come due legnetti che sfregati assieme fanno venir fuori la scintilla, l’energia: un polo sono gli “asini”, i “barbari”, e l’altro sono le grandi favole della tradizione che non aspettano altro che qualche cuore intrepido le tiri fuori dalla polvere.

Quanto sono cambiati questi “barbari” dal ’91 ad oggi?
Innanzitutto sono aumentati di numero in maniera vertiginosa: se il primo anno erano trenta, nel giro di due-tre anni sono diventati trecento. Ogni anno lavoriamo con un numero oscillante fra i 300 e i 400 ragazzi che a Ravenna con noi “massacrano” i classici; questa epidemia, nel giro di vent’anni, ha modificato il tessuto teatrale della città. Migliaia di adolescenti hanno scoperto che il teatro non è un rito inutile, vuoto, che non ci tocca nel profondo – come tante volte si riduce ad essere. Hanno scoperto che è molto più eccitante di una PlayStation. E da lì non ci siamo più liberati di loro. Il nostro teatro è un porto di mare in cui entrano ed escono, sanno che è un luogo anche loro.

foto di Stefano Cardone

A proposito del massacrare i classici: come avviene tutto questo? C’è un lavoro paritario, non di regista e attore…
La figura che fa da medium tra gli adolescenti e i classici non la chiamiamo “regista”, ma “guida”. L’adolescente che ti trovi davanti non è una nuova pedina che va a ingrossare le fila della società dello spettacolo: l’adolescente è il re, e tu guida sei solo l’umile servitore, il medium tra la sua energia vitale e il testo della tradizione.
All’inizio bisogna trovare – non è una ricetta, è piuttosto un principio orientativo del lavoro – il nodo di quella che noi chiamiamo non la “messa-in-scena” ma la “messa-in-vita”. Occorre cioè trovare una situazione drammaturgica (in relazione con il testo su cui si lavora, beninteso: ma questo è importante che lo sappia la guida…), che sia fortemente legata alla vita degli adolescenti. È la prima fase del lavoro, in cui si mette da parte il testo antico e attraverso le improvvisazioni, il gioco, la creazione di energia, emergono i loro sogni e i loro desideri, quello che non dicono né ai professori né ai genitori – cioè il meglio. Questa è la benzina con la quale cominciare a costruire l’opera: in questo modo i ragazzi percepiscono di essere loro, gli “autori”. In una seconda fase invece – e qui la guida deve avere notevole capacità sul piano drammaturgico – tutto questo materiale va messo in relazione con l’impianto narrativo del “classico” che ancora ci parla. E in tale alchimia può avvenire che tante battute del testo originario, tanti frammenti, a volte anche intere pagine, ritrovino spazio all’interno del nuovo racconto scenico, che mescola in profondo le invenzioni degli adolescenti e la favola antica. Il primo lavoro che facemmo a Scampia nel 2005 con settanta adolescenti sul palco era La pace di Aristofane. In realtà il testo non l’abbiamo mai letto insieme. Gliel’ho raccontato all’inizio del lavoro e loro hanno detto: «questa è la nostra storia». Occorre essere lucidi nel saper creare intarsi e intrecci tra le improvvisazioni e la bellezza, la follia di questi classici.

La non-scuola parte da te e da Maurizio Lupinelli. Come è avvenuto il passaggio di testimone da voi alle guide? Quali sono i requisiti richiesti a queste figure?
All’inizio eravamo io e Maurizio, con una bicicletta in due: lui mi portava, andavamo in giro in questo modo da una scuola all’altra. Per noi la non-scuola è proprio lo spirito della bicicletta. Abbiamo iniziato con tre scuole, poi il lavoro è cresciuto a dismisura e non riuscivamo più a tener testa a tutte le chiamate. C’era in atto una tale “epidemia” che bisognava trovare qualcun altro che partecipasse al progetto, così abbiamo chiesto a degli amici registi di fare da guida all’interno della non-scuola. In questa seconda fase di necessario allargamento c’era però qualcosa che non andava: era come se, dello spirito della bicicletta, riuscissimo a comunicare solo dei principi astratti; e gli amici registi, pur con tutte le loro buone intenzioni, restavano “registi” e non si trasformavano in guide. Poi il tempo, lo scorrere degli anni, ha creato una magia che non avevamo preventivato: alcuni di quei quindicenni che avevano cominciato con noi, i più bravi, i più tenaci e i più ammalati di teatro, quando hanno avuto vent’anni hanno cominciato a lavorare nella bottega delle Albe e sono diventati le nuove guide della non-scuola, guide “ideali” in un certo senso, perché l’avevano appena vissuta da studenti. È come nelle famiglie tradizionali contadine, dove è la bambina più grande che diventa la mamma dei più piccoli – ma naturalmente, nell’intrecciarsi dei legami che formano una tribù, una comunità.
Alla guida viene sì richiesto di avere un sapere teatrale, ma prima ancora le si chiede di possedere il dono dell’ascolto, la capacità di far sentire agli adolescenti che li stai prendendo sul serio. È l’unica cosa che chiedono, non vogliono sapere altro da te, non gliene frega niente se hai vinto cinquanta premi Ubu; non sanno nemmeno che cosa sia il premio Ubu. Per loro sei un “nessuno”, e questa se la sai leggere è una grazia caduta dal cielo, una lezione di umiltà. Penso a Ermanna che a Scampia cuciva gli orli dei costumi dei più piccoli. Ti devi guadagnare la loro fiducia sulla base di qualcosa di molto profondo. La guida deve saper dire-senza-dirle queste poche, essenziali parole: «siamo io e te adesso, siamo qui a fare qualcosa che per me è importante, se lo è anche per te lo sarà per tutti noi». Gli adolescenti non sono quel plotone grigio che descrivono i sociologi: sono creature magnifiche che amano il teatro quando sperimentano in esso un luogo di libertà.

La fascia d’età dei ragazzi a cui vi rivolgete è molto interessante e delicata: la scuola superiore. Hai mai pensato di coinvolgere anche le scuole medie piuttosto che elementari?
Fino ad Arrevuoto, così abbiamo chiamato la non-scuola a Scampia, non lo avevamo mai fatto. Ci siamo andati nel 2005, dopo quasi quindici anni di non-scuola a Ravenna. Eravamo convinti che fosse meglio non lavorare con ragazzi più piccoli, ma anche consapevoli però che non si trattava di esportare meccanicamente un metodo di lavoro, ma di entrare in relazione con l’anima del luogo che ci ospitava. A Scampia un’insegnante, Federica Lucchesini, ci ha chiesto di inserire anche i bambini della scuola in cui insegnava, la media “Carlo Levi.” All’inizio ho fatto resistenza. ma la tenacia di questa insegnante, questa ragazza che veniva da Pavia e che era là come in terra di missione, mi ha commosso e mi son detto «proviamoci!». È stata un’esperienza sorprendente, e da allora anche a Chicago, in Senegal, in Belgio, a Mazara del Vallo – altri luoghi nel mondo in cui abbiamo lavorato con la non-scuola – da allora abbiamo sempre mescolato bambini e adolescenti, trovando in questo un’alchimia preziosa.