recensione andrea renzi

Il diario di un pazzo si legge in scena

Recensione a Diario di un pazzo – regia di Andrea Renzi

Il Teatro Cavallerizza Reale, una delle sedi del Teatro Stabile di Torino, ha ospitato dal 14 al 19 febbraio lo spettacolo Diario di un pazzo, ricostruzione scenica del quinto racconto di Pietroburgo di Nikolaj Gogol; un’intima e limpida descrizione di una vita anonimamente incanalata sui binari della normalità, che si rivela pervasa di una sofferenza psichica dilaniante. L’attore e regista Andrea Renzi, per anni protagonista di molti lavori teatrali e cinematografici di Mario Martone, ha scelto il testo tradotto da Pietro Zveteremich e consegnato i panni di Propriscin all’attore casertano Roberto De Francesco.

La scena è una scatola vuota che ospita un semplice armadio a due ante, di colore grigio tenue e impersonale, illuminato frontalmente. Nel silenzio iniziale si diffonde una musica a tratti stridente che preannuncia un ingresso. È un omino di bassa statura quello che apre timidamente un’anta dell’armadio e prende posto in proscenio. «3 ottobre, 6 ottobre, 8 novembre». La struttura letteraria del diario assume la consistenza della confessione, se affidata a corpo e voce, consegnata senza filtri alla presenza del pubblico. Papaleo, impiegato ministeriale di quarantadue anni, passa dall’anta destra, che rappresenta la sua casa, a quella sinistra, sede dell’ufficio del suo superiore, dove trascorre le giornate a temperare matite e a svolgere lavori di misera importanza. Il suo vago accento campano ne sottolinea il provincialismo e l’abbigliamento senza stile lo colloca impietosamente in una classe media silenziosa e noiosa. Papaleo è solo uno fra tanti.

Foto di Marco Ghidelli

 «Comunque inzom’ a farla breve» – prendendo a prestito il ricorrente intercalare del protagonista – questo impiegato di mezza età rivela di detestare quasi tutti i colleghi del ministero, con cui non ha instaurato alcun tipo di rapporto umano e di essere perdutamente invaghito di un’unica figura: la figlia del suo superiore. Papaleo la segue a distanza e sogna di sbirciare dalla serratura della sua camera, la incontra nell’ufficio del padre, ma non può stabilire un vero contatto con l’oggetto delle sue fantasie. Ed è a questo punto che la stessa fantasia prende gradualmente il sopravvento sulla realtà. Schiacciato dal suo ruolo di invisibile nullità, sprofondato in una lettura della vita che si rivela ingiusta e folle ai suoi occhi, Papaleo coglie a pretesto un episodio della Storia e lo innesta nel racconto di sé. Il trono vacante della monarchia spagnola rischia di essere affidato a una giovane principessa, cosa assolutamente impossibile dato che un re esiste sempre, anche se non si manifesta.

L’attore si chiude nell’armadio e lascia che una musica ormai affaticata e irregolare conquisti il palco per qualche secondo, per poi spegnersi e permettere al diario di proseguire il suo cammino. «86 marzobre, giorno n. 1, giorno 25». Papaleo parla di politica e assetti internazionali con assoluta convinzione e senza la minima cognizione di causa, ricordando apertamente una qualunque conversazione da bar di provincia che affida agli interlocutori il ruolo di impotenti e ignoranti cavie di un mondo che decide per loro. La follia si concretizza in un sogno di riscatto e potenza, ma la piccola realtà torna a manifestarsi nelle frasi sempre più deliranti del protagonista. La regia sfrutta l’unico elemento scenico presente, che è al contempo luogo fisico e proiezione interiore, e inchioda l’azione dentro la fessura centrale dell’armadio i cui due blocchi sono stati separati.  Così costretto nello spazio angusto, Papaleo consuma gli ultimi minuti del suo diario, raccontando a se stesso la finzione e svelando al pubblico la verità.

A partire dall’opera dello scrittore e drammaturgo ucraino, la grandezza del personaggio si palesa attraverso le doti di caratterista di Roberto De Francesco che, pur affrontando un monologo in cui la parola regna assoluta, non dimentica mai l’intensità della dimensione gestuale. La scelta di Andrea Renzi di trasporre il testo dalla Russia all’Italia e dall’800 agli Anni ’50, risulta infine naturale e pienamente coerente, poiché l’insanabile conflitto tra l’aspirazione ideale e la banalità reale, non conosce limitazioni di tempo o spazio.

Visto al Teatro Cavallerizza Reale, Torino

Margherita Gallo