recensione bob wilson

Una tarda sera, nel futuro: il CRT Milano apre con Bob Wilson

foto di Lucie Jansch

foto di Lucie Jansch

Lo spettacolo si apre con un incessante e fragoroso temporale, brutale, furioso ma allo stesso tempo liberatorio, livido e cupo ma capace di lavar via ogni artificio, ogni apparenza o polemica che nel  terso e abbagliante foyer della Triennale poteva aver distratto.
È stato un grande Bob Wilson ad aprire la stagione del CRT Milano, fondazione di nuova costituzione presieduta da Renato Quaglia e nata dalla fusione del CRT Centro di Ricerca per il Teatro e il CRT Artificio. Due realtà storiche del teatro di ricerca italiano che proprio insieme, nel 1974, avevano intrapreso la loro avventura teatrale – per poi dividersi dopo 12 anni – e ospitato a Milano i più grandi maestri della scena teatrale di innovazione da Kantor a Barba, da Thierry Salmon al Bread and Puppet allo stesso Bob Wilson che proprio con il vecchio CRT  nel 1976 aveva debuttato con A Letter for Queen Victoria.

La stagione teatrale, annunciata soltanto pochi giorni prima, si è così aperta a sorpresa domenica 20 ottobre con una data unica e imperdibile: L’ultimo nastro di Krapp, regista e attore Bob Wilson, di ritorno a Milano dopo il grande successo al Piccolo Teatro della sua mastodontica Odissey. Un monologo poetico e impeccabile che si è trasformato, come nelle intenzioni degli organizzatori, in uno dei più grandi eventi della stagione teatrale milanese. E non soltanto una data sporadica ma un evento anticipatore di una residenza dell’artista texano proprio a Milano, nel 2014, e della presentazione del suo nuovo lavoro The Old Woman dello scrittore russo Daniil Kharms, interpretato da Mikhail Baryshnikov e Willem Dafoe, al debutto italiano al Festival dei Due Mondi di Spoleto.

Intanto la stagione presentata fino a gennaio, poiché ancora flessibile e in divenire – prosegue fino al 17 novembre con Housemates, primo esperimento di “cohousing” artistico tra alcuni dei gruppi più vivaci della ricerca teatrale italiana, e poi Irina Brook e la sua compagnia Dreamtheater con la Trilogia delle isole, per la prima volta a Milano, e ancora Studio Azzurro, Leonard Eto, tra i più innovativi musicisti di taiko e per finire Murmures des Murs, in prima nazionale, viaggio onirico e stravagante con Aurelia Thierrée, figlia di Victoria Thierrée Chaplin, il danzatore Jaime Martinez e il clown-acrobata Magnus Jakobsson.

A inaugurare questa nuova realtà teatrale che intende proporsi come «luogo di incontro tra arti visive, performing arts e arti del progetto – architettura, design e moda – per elaborare nuovi format e sperimentare nuove alchimie», il perfetto stile geometrico e cristallino di Bob Wilson, sicuramente in gran forma, che senza dire una parola ha ricordato al pubblico dove si trova e perché: una tana-bunker multimediale, un archivio di un passato che ritorna e può far male. Con un commovente bianco e nero da cinema espressionista, un disegno luci inarrivabile (da lui ideato) e l’estrema precisione dei tempi tecnici, mangia banane – impugnandole come pistole verso il pubblico – e trasale teatralmente tra gridolini e mossette mentre un furioso temporale si scaglia in scena. Il viso è truccato di bianco e le labbra sono rosso acceso – come i calzini, unico colore in scena – alla maniera dei prototipi classici del teatro Nõ. Krapp non ha nulla di umano, somiglia a un robot degli anni venti dalla sconcertante artificialità tra gesti formalizzati ed esasperati. Dopo più di 15 minuti di grande teatro la pioggia cessa. Sul palcoscenico, seduto a una scrivania tra infiniti scaffali di bobine, Krapp/Wilson passa in rassegna il suo passato. Un vecchio, beffardo e tragico, sepolto tra registrazioni e ricordi del passato. Difficile non pensare alla fine del vecchio CRT e al suo mastodontico archivio di video, tutti in VHS.

Maddalena Peluso

E i Giorni felici si colorano di blu

Recensione di Giorni felici – regia di Bob Wilson

foto di LucianoRomano

foto di LucianoRomano

Ritorna al Teatro Mercadante la magia di Bob Wilson con Giorni felici di Samuel Beckett. Wilson conserva l’originalità del testo, così come fu pensato e ideato dal suo autore; ciò che viene inserito è semplice colore e pura magia. Ad inizio spettacolo  una tenda bianca brilla, ondeggia, fluttua nel ventoe travolge il pubblico: sembra una danza dai rumori e colori ipnotici; poi uno strappo violento e appare la scena, modernizzata da Wilson. Troviamo, infatti, Winnie – la protagonista che l’opera originariavoleva sepolta a metà nel terreno – immersa nell’asfalto, quale simbolo di epoca moderna, dando un’immagine ancora più violenta e sterile della semplice  terra. Le linee si trasformano, tutto è spigoloso e facilmente lacerante. Ma alla piattezza della narrazione beckettiana Wilson dona colori e una scena, un assurdo che incontra il bizzarro. È lo stesso regista a dichiarare che aveva conosciuto tempo prima Beckett e con lui si era confrontato: ora era giunto il momento di “sfidarlo”, facendosi così pittore di un quadro in origine  bianco e nero.

Giorni felici è un monologo a due: monologo perché a narrare c’è Winnie, una donna di mezza età, stanca, immobile, piantata nel terreno, che affonda le sue radici nella terra la quale è vita ed origine, ma che non le consente di andare oltre. I ricordi di Winnie si fanno parole al vento: sono foglie che cadono piano. Winnie parla a suo marito Willie che le dà le spalle, succube del continuo parlare di sua moglie.
La presenza dell’uomo è molto significativa per lei, è aria, è l’altro. Winnie vive dei ricordi, identificati negli oggetti che lei stessa ha raccolto nel rituale della quotidianità, che divengono così significativi cimeli per il futuro, quando nulla resterà, quando i giorni felici saranno ormai lontani. Tra i cimeli c’è una rivoltella che Winnie fa passare tra le sue mani,  simbolo di una fine che tarda ad arrivare ma  che è lì a portata di mano.

foto luciano romano
foto luciano romano

Giorni Felici rappresenta un progresso che non arriva, sottolineando quanto siano importanti le origini ma altrettanto pericolose perché sono un ostacolo al futuro. Il passato diventa così una catena che tiene intrappolati ai ricordi e una palla al piede che si trascina con forza, la quale  non permette di vivere giorni felici al di fuori di quelli conservati nella memoria.
I sentimenti vengono messi in scena nella loro nudità, lo spettacolo è un urlo chiaro e violento contro gli stereotipi passati, i ricordi sommergono Winnie, la uccidono, in nome delle tradizioni che non le permettono non solo di vedere il  futuro ma soprattutto di vivere il presente.

Sono trascorsi 20 anni dalla morte dell’autore Samuel Beckett eppure ancora oggi nulla può definirsi così sperimentale. Lo spettacolo è reso perfetto nella sua bellezza e completezza anche soprattutto grazie al merito di una grande aritista  qual è Adriana Asti, attrice sicuramente di stampo accademico e grande esperienza,  che riesce a donare al  personaggio tutta quella ironia che effettivamente occorre e che le ha permesso di avere una certa sintonia con il regista che ne ha lodato più volte la bravura. Occorreva a fine spettacolo un sincero applauso per uno spettacolo degno di lode, che purtroppo forse non è arrivato a tutti.

Visto al Teatro Mercadante , Napoli

Italia Santocchio