Recensione a Lo zoo di vetro – regia di Arturo Cirillo
E «lontano lontano nel tempo» cantava Luigi Tenco, con quella sua voce malinconica narrava un dolore altrimenti inesprimibile e un malessere di vita che lo accompagnava nei giorni. E quella nostalgia dolorosa – in cui presente, passato e futuro si mescolano insieme – torna continuamente, come tornano le canzoni di Tenco, nel nuovo spettacolo che il regista campano Arturo Cirillo ha presentato al Teatro Menotti di Milano, in replica fino a domenica 26 gennaio.
Lo zoo di vetro di Tennessee Williams proposto da Cirillo trova nelle distanze – temporali e fisiche, amare e insormontabili – una chiave di accesso che lo rende attuale, vivo e, paradossalmente, molto vicino a noi oggi, con dei personaggi distanti da qualsiasi situazione risolutiva, fermi, bloccati in un passato che non diventerà mai futuro. L’America degli anni ’40 (l’autore scrive quest’opera nel ’44) è del tutto assente, annullata nella lettura che ne fa il regista per concentrarsi nei rapporti umani, nell’intreccio messo in moto dai tre protagonisti che abitano la scena. Sono personaggi irrisolti, intrappolati e tormentati quelli di questo dramma: Tom, il figlio-narratore, uomo rancoroso e irrealizzato, costretto a rifugiarsi ogni sera, per vivere almeno un’avventura nella sua triste vita, al cinema e nell’alcol; Laura, sua sorella, donna fragile e spaventata dall’esistenza, che trova sicurezza e soddisfazione solo nell’accudire la sua delicata e aleatoria collezione di animaletti di vetro e nei vecchi dischi; Amanda, la madre di questi due ragazzi senza età, una patetica sognatrice, infantile e impicciona, che cerca di controllare i figli tentando di guidare ogni loro piccolo comportamento, cadendo nel grottesco, nel disperato e ridicolo tentativo di rendere felici i suoi “piccolini” con delle proposte irreali. Solo il quarto personaggio del dramma, Jim, l’amico di Tom, porta all’interno di questo asfissiante terzetto un po’ d’aria e la possibilità di cambiamento: per alcuni istanti sembrerà realizzare un futuro tanto atteso che poi, come tutto il resto, si tramuterà nell’ennesima delusione.
Una situazione stantia, creata dalla fuga di un padre innamorato delle distanze, e riproposta in un presente bloccato nel ricordo e all’interno della scena – essenziale di Dario Gessati – da cui i personaggi non escono mai, tuttalpiù ne rimangono ai margini. Come se andare in scena, essere illuminati dalla luce del proiettore – che sono loro stessi a volte a manovrare, come anche ad attivare le tracce musicali dello spettacolo – fosse l’unica possibilità di vivere, vivere qualsiasi vita, sperando ogni volta che il tempo del ricordo e il tempo dell’esistenza non coincidano.
Il regista Arturo Cirillo – che veste anche i panni di Tom, figlio-narratore, alter ego di Tennessee Williams – affida il testo alle intime sfumature dell’animo umano, mettendo in luce il nodo esistenziale di ogni personaggio, interpretato da attori meravigliosi, che coinvolgono con le loro emozioni sbagliate, con una pungente e amara ironia; con i loro dialoghi nervosi che racchiudono sentimenti indicibili, di amori non corrisposti, lontani fisicamente, temporalmente. Monica Piseddu nei panni di Laura e Milvia Mirigliano in quelli di Amanda, insieme a Edoardo Ribatto che interpreta Jim, e Cirillo stesso, regalano tanto agli spettatori seduti in platea, soprattutto ricordano che il teatro è il luogo in cui il tempo si annulla, si può sognare una possibilità diversa, ci si può emozionare e respirare insieme ai personaggi, perché parlano di noi, del nostro mondo.
Visto al Teatro Menotti, Milano
Carlotta Tringali