recensione rodrigo garcia

Sul Golgota con Giotto, Haydn e García

Golgota Picnic © Davir Ruano

Recensione a Golgota Picnic – di Rodrigo García

Raggiungere il Golgota, la collina di Gerusalemme dove avvenne la crocifissione di Gesù, non è mai stata, ci insegnano le sacre scritture, una passeggiata. Anche ai giorni nostri, anche se per il Festival D’Automne di Parigi, per farvi un semplice picnic il percorso diventa un vero calvario.
Prima stazione: la strada per arrivare al Théâtre du Rond-Poin è chiusa da camionette della polizia; bisogna costeggiare le transenne.
Seconda stazione: poliziotti in tenuta antisommossa si trasformano in improbabili maschere e controllano i biglietti.
Terza stazione: ingresso separato per uomini e donne; perquisizione fisica e primo controllo delle borse. Vengono sequestrati mandarini, bottigliette d’acqua e tutto ciò che è facilmente lanciabile su un palco.
Quarta stazione: secondo controllo delle borse e passaggio al metal detector.

Il motivo dell’estremo sistema di sicurezza dispiegato è lo stesso già raccontato, purtroppo, per Il concetto di Castellucci (leggi l’articolo). Ma, sarà forse lo spirito natalizio che infervora ancor più i cuori di questi credenti di estrema destra, sta di fatto che se per lo spettacolo di Societas Raffaello Sanzio un centinaio di manifestanti avevano assediato il Théâtre de la Ville, per Golgota Picnic di Rodrigo García si sono mobilitati in più di duemila, e il servizio d’ordine della capitale francese ha dovuto, ancora una volta, reagire di conseguenza.

Golgota Picnic © Davir Ruano

Dispiace dover di nuovo dedicare parte di una recensione ad eventi che davvero poco hanno a che fare con il teatro, ma la situazione, nella sua assurdità, sta diventando tutt’altro che straordinaria. Vedere uno spettacolo protetto dalle forze dell’ordine in uno Stato democratico e sedicente laico quale è la Francia, lascia qualcosa di davvero amaro in bocca: se la democrazia diviene una minoranza da proteggere in casa propria, i tempi che stiamo vivendo sono molto più bui di quello che si può immaginare, o meglio ricordare. Non bisogna dimenticare, infatti, che già si è visto a cosa l’uomo può arrivare quando il razzismo, l’ignoranza, la violenza ed il fanatismo prendono il sopravvento: l’angelo caduto di García inizia così il suo picnic sul monte sacro, ammettendo che se si parla di olocausti, massacri e abusi, non ha davvero nulla da insegnare alla razza umana. Un angelo irriverente di cui si ammira la caduta libera con paracadute nel frastornante video di Ramòn Diago che apre lo spettacolo del regista argentino e che ritroviamo accomodato con altri compagni d’avventura in un angolo del palco allestito per un frugale picnic.
Il resto dello spazio è interamente ricoperto di pane, ma nell’era delle multinazionali il pane miracolosamente moltiplicato è quello industriale dei fast-food. Il tutto sovrastato da un enorme schermo che proietta di tanto in tanto i dettagli e i primi piani degli attori, che si riprendono in diretta con una piccola videocamera.

Inizia così l’esplorazione di Rodrigo García nello sterminato materiale biblico, e soprattutto nelle sue rappresentazioni iconografiche. Creatore instancabile di immagini, è proprio da esse che il regista e drammaturgo comincia la sua ricerca: Giotto, Mantegna, Van der Weyden. È dalle loro opere sacre che inizia l’indagine su questa figura controversa, misteriosa e affascinante che è Gesù, e da una semplice constatazione: il potere delle immagini è indiscutibilmente più forte di quello delle parole; le opere di questi grandi artisti hanno collaborato all’asservimento delle masse analfabete, inculcando loro terrore e speranza in maniera molto più efficiente di milioni di sermoni. Rodrigo García sembra aver colto appieno la lezione: mentre gli attori, a turno, si lanciano in magnifici monologhi, dà ampio sfogo alla sua personalissima iconografia.

L’impressione è che il García creatore di immagini prenda il sopravvento sul García drammaturgo a discapito del suo stesso testo. La pièce nella prima parte regala momenti semplicemente esilaranti, istantanee di un incredibile plasticismo poetico, riflessioni sulla Bibbia e Gesù indubbiamente sconsacranti ma finemente argomentate. Dalla scritta quanto mai attuale “denaro, perché mi hai abbandonato?”, la ferita del costato del Cristo si rivela essere una tasca dove poter celare facilmente delle banconote; Gesù diviene il primo grande demagogo della storia, scegliendo di moltiplicare il pane per il popolo al posto di lavorare al suo fianco. Ma nella sua insolenza divertente e violenta, è all’uomo che García riserva i suoi più accessi affondi. Non un atto blasfemo, quindi, ma una cruda e critica riflessione sull’umanità, sulle sue più vili azioni e sui più subdoli crimini di cui quotidianamente si macchia.

A un certo punto, però, la visionarietà di García straborda e, sembrando farsi auto-citazionista, affievolisce il potenziale dell’intero spettacolo: inizia così un carosello di nudi, pose erotiche, hamburger masticati e rigurgitati, organi genitali in bella vista. Sembra che nel voler provocare e scandalizzare a tutti i costi l’artista perda l’occasione di reinventarsi e sviluppare più a fondo l’immenso materiale a cui si ispira, riproponendo un inventario di immagini trash dal vago sapore autocelebrativo. Peccato perché la scrittura sarcastica e violenta di García meritava indubbiamente più attenzione, ma è lui stesso a cercare in tutti i modi di distrarre il pubblico dalle parole.

Golgota Picnic © Davir Ruano

In questa sua personale lotta tra visione e scrittura, la soluzione finale sono il vuoto e il silenzio: gli attori portano in scena un pianoforte a coda e prendono posto sul palco. Marino Formenti, pianista e direttore d’orchestra tra i più originali e audaci del panorama musicale internazionale, si sveste e, nudo, affronta Le ultime sette parole di cristo sulla croce di Joseph Haydn. Nove movimenti, interpretati con delicato virtuosismo in scena nella versione per piano solo composti da Haydn su commissione per le celebrazioni del venerdì santo, e che hanno da subito ispirato García nella creazione di Golgota Picnic. La performance musicale è all’opposto del vortice di immagini e parole che investe lo spettatore per tutto lo spettacolo: l’interpretazione è dolcissima, toccante e sofisticata. Il popolo non è più analfabeta, in teatro si riunisce un’assemblea di intellettuali, o che amano ritenersi tali, che richiede una celebrazione più raffinata ed elevata. Ma pur sempre una celebrazione.

Visto al Théâtre du Rond-Poin, Parigi

Silvia Gatto

 

 

 

 

 

Rodrigo García a confronto

foto di Christian Berthelot

Doppia recensione a Muerte y reencarnaciòn en un cowboy – di Rodrigo García

Al 41. Festival Internazionale del Teatro di Venezia abbiamo assistito a Muerte y reencarnatiòn en un cowboy di Rodrigo García. Qui si provano a mettere in luce due percezioni e punti di vista differenti, positivi e negativi di uno spettacolo che indubbiamente fa discutere e provoca. Sentimenti, analisi, idee nel segno dello stile (estetico, politico) dell’artista ispano-argentino, che sa sempre dividere il proprio pubblico.

Perché NO

Violenza, dilatazione, retorica: sono queste le parole che vengono in mente dopo aver visto Muerte y reencarnaciòn en un cowboy di Rodrigo García. Divisibile in due sezioni ben distinte tra loro e intramezzate dall’apparizione in video di una attrice muta vestita da geisha, questa pièce del regista ispano-argentino provoca sicuramente, ma lo fa in maniera didascalica. Corpi nudi sul palco se ne sono già visti abbastanza, di anarchica crudeltà pure e anche di sentenze sin troppo moralistiche; senza sperimentare niente di nuovo per riuscire a scandalizzare, García ormai sa bene quali sono le corde da toccare per indignare il proprio pubblico, che non fa altro che prendere parte al suo gioco, accontentandolo.
Ma andiamo con ordine: nella prima parte due performer si scatenano sul palco distruggendo chitarre elettriche, saltandosi addosso con piglio eroico e giocando con le loro parti intime; il tutto in una eccessiva dilatazione temporale. Viene in mente Jackass, il programma statunitense dove gli stuntmen si feriscono volutamente, ridendo in continuazione. Anche qui i due cowboy se la ridono, ricoprendosi il corpo – nel loro delirio gratuito – addirittura con dei pulcini; ecco uno dei punti nevralgici dello spettacolo, ecco che si entra nel gioco di García: sul palco non potevano certo mancare gli animali cari al regista, ormai buon conoscitore del pubblico subito pronto a scandalizzarsi per un maltrattamento inesistente e a chiamare la polizia per il pronto intervento. La provocazione facile è servita su un piatto d’argento, è un gioco di assi vincente che già si conosce e che, d’altra parte, può essere visto effettivamente come del tutto inutile: oltre suscitare l’indignazione degli animalisti, infatti, non ha scopi concreti. Quei poveri pulcini potevano anche rimanere con mamma chioccia e non essere spiati da gente curiosa che a fine spettacolo si preoccupava solo della loro incolumità.
Ma lasciamo gli animali e volgiamo di nuovo lo sguardo alla messinscena; finita la parte goliardica, i due ragazzotti, ormai divenuti dei borghesi, dialogano sui massimi sistemi con in mano una birra: una ‘paternale’ fatta di discorsi infiniti che risulta sfociare in una morale patetica.
L’unica immagine che rimane – davvero divertente e geniale – è l’eutanasia regalataci attraverso l’utilizzo di una brioche che muore su un lettino di formaggio dopo un’iniezione letale.

Carlotta Tringali

Perché SÌ:

Muerte y reèncarnacion en un cowboy non è certo il capolavoro di Rodrigo García: un incipit fisico troppo lungo e ripetitivo, riferimenti anti-global all’acqua di rose, un minimalismo scenico e culturale – sentimenti da macho che sorseggiano un long drink, il toro meccanico, un’orientale che presiede una seduta pseudo-bondage – che ha poco a che fare coi precedenti spettacoli dell’autore e regista ispano-argentino. Ma questo lavoro, quasi sottotono ai clamori di Ronaldo o agli scandali di Matar para comer, può dire molto: sia del teatro di García che del suo instancabile lavorio sull’immaginario contemporaneo.
La chiave di questo spettacolo si può trovare in quel “palco nel palco”, che è una specie di stanza il cui contenuto è celato all’immediatezza della visione (è chiusa da pareti su tutti i lati) e svelato attraverso proiezioni che ricordano quelle dei circuiti di videosorveglianza. Svelato si fa per dire: non è dato sapere se quello che vi accade all’interno sia live o pre-registrato – elemento che pone l’accento sulla condizione fictional del teatro, come altri disseminati in tutto lo spettacolo. Prendiamo ad esempio il “maltrattamento” dei pulcini iniziale, per il quale numerosi spettatori hanno abbandonato la sala e altri addirittura hanno richiesto l’intervento delle forze dell’ordine: i due attori (Juan Lorriente e Juan Navarro) prendono a calci uno scatolone, mentre si sente un audio di pigolii; una volta dietro la parete, dunque occultati alla vista, parte un video in cui aprono la scatola e ne esce una gran quantità di pulcini. Ancora: i suddetti pulcini, a un certo punto, sono collocati in una teca trasparente, al centro della quale viene posizionato un bel gattone; altri spettatori se ne vanno da teatro. Inutile dire che si trattava di teche concentriche e, di più, ideate in maniera tale che non solo il felino non potesse divorare i poveri volatili, ma, con la giusta illuminazione, gli animali non potessero nemmeno vedersi l’un l’altro.
Con questa smodata forma di (non)straniamento, del tutto originale – in cui si iscrivono anche le altre scelte estetico-politiche alla base dello spettacolo, come l’inaccettabile lunghezza dell’incipit – l’artista chiama direttamente in causa il pubblico, lo interroga sui propri giudizi e pregiudizi. Fonda un magistrale percorso fra la realtà della vita e la finzione del palcoscenico, che gioca tanto con l’immedesimazione che con lo straniamento. È sempre un piacere vedere quanto il teatro possa ancora incidere sui propri spettatori, aldilà di ogni ragionevole debito ai suoi innumerevoli trucchi ormai svelati da secoli. Non è altrettanto gradevole – sembra echeggiare García – che i cittadini, scandalizzati, abbandonino la sala per dei pulcini forse presi a calci dentro una scatola; mentre nessuno contesta il proprio governo, nonostante tutto quello che, piccolo o grande, vediamo accaderci intorno ogni giorno. Nella realtà, non su un palcoscenico.

Roberta Ferraresi