recensione sogno massimiliano civica

Un Sogno a doppio taglio fra comico, essenzialità e magia

Recensione a Un sogno nella notte dell’estate – regia di Massimiliano Civica

foto di P. Tauro

Tutto a vista, in Un sogno nella notte dell’estate di Massimiliano Civica. Quando il pubblico entra in sala, la scena si offre già allo sguardo degli spettatori: sul fondo si staglia un teatrino scuro, con tanto di arco di proscenio e di sipario, fiancheggiato a destra e sinistra da due file di poltroncine nere anch’esse, come i fondali, le quinte, il pavimento. Subito questo ambiente si popola di persone – alcuni vanno al centro e diventano i personaggi della commedia, altri si accomodano sulle sedute a guardare, spettatori del proprio stesso spettacolo. È tutto in vista, nel teatro di Massimiliano Civica, dalla collocazione spettatoriale dell’attoreai movimenti di scena e ai cambi di costume: l’abbiamo imparato con lo straordinario allestimento del Mercante, che gli è valso il Premio Ubu per la regia nel 2008, lo ritroviamo ancora con più forza in questo nuovo excursus shakespeariano, in cui il “pubblico” in scena è formato da ben tredici attori.

 

Nel nuovo lavoro del regista, debuttato al Festival Romaeuropa nell’ottobre scorso, trovano spazio tanti, tantissimi linguaggi e livelli del fare teatrale: c’è la prosa micidiale e la poesia quasi cantata, fino al ventriloquismo e ai cori, al mimo. Che il Sogno di Shakespeare sia un attraversamento dei diversi registri e linguaggi della scena è un elemento-cardine della drammaturgia originale, mentre che questa dimensione  aprisse alla compiaciuta vertigine postmoderna della giustapposizione lo ha insegnato la ricerca novecentesca, di cui pure molti dettagli di questo allestimento sono impregnati – dalla deriva verso l’attorialità orientale ad alcuni tratti dell’escamotage del fiore incantato, dagli abiti contemporanei dei comici-attori all’ormai consolidato principio del doppio fra gli attori che interpretano le coppie Titania/Oberon e Ippolita/Teseo.
Dal lirismo travolgente della foresta dell’incanto alla puntuale retorica ateniese all’energia esplosiva dei comici, il Sogno è un intricato – forse il più intricato fra le punte del teatro barocco – alternarsi di codici e canoni, di stili e modalità espressive. Di più: contiene dei punti di collasso, più o meno celati, in cui la rincorsa incalzante di queste linee linguistiche cessa, e lascia spazio alla contaminazione, alla sovversione, alla parodia reciproca e al superamento dei rispettivi limiti d’azione. La nuova versione curata da Massimiliano Civica si inserisce appieno in questo crinale interpretativo e scenico, con un’esaltazione delle contraddizioni e un lavoro sottile sulle commistioni che progressivamente invadono la struttura drammaturgica barocca, fino a scalzare i canoni e a farsi tratto caratterizzante. L’Atene di questo Sogno è popolata da figure essenziali abbigliate con candide rivisitazioni del peplo, dai movimenti discreti e le tonalità minimali; ai pochi gesti e alle parole misuratissime della corte di Teseo e Ippolita, re e regina prossimi al matrimonio, fa da contraltare l’emotività deflagrante che travolge i personaggi una volta giunti nel bosco, dove, fra i tanti intrighi, si scatenano urla, passioni e paure, con il contrappunto della raffinata poesia appena sussurrata dalle creature incantate, i loro passi senza peso, le loro mimiche imperturbabili. Di tutt’altra tonalità il mondo dei comici-operai, fluorescenti, debordanti, risucchiati da un intreccio di gag e gaffe sempre più frequenti. Una prosa tagliente e ridotta all’osso per Atene, rimandi alle scene dell’Estremo Oriente per Oberon e Titania, il cabaret contemporaneo nell’irriverenza dei Mechanicals. Il bianco in città, la nera penombra nel bosco, gli abbinamenti pop più improbabili e sgargianti per i comici. L’antico con tutte le sue norme per il primo mondo, l’atemporalità che è delle fate per il secondo, il contemporaneo per l’ultimo – con tanto di battute e riferimenti al meglio e al peggio dell’attualità. E così via, di contraddizione in opposizione, fino ad esperire tutta l’incommensurabilità delle tre dimensioni in cui si colloca il testo shakespeariano. A tenere le fila di questo patchwork di segni e sensi è uno straordinario Mirko Feliziani, che nei panni di Puck/Egeo attraversa e domina, a livello drammaturgico ma anche attoriale, tutto lo spettacolo. Con tanto di bastone magico e zampe caprine che si svelano al primo cambio scena, è una creatura – qui chiamata soltanto “diavolo gentile” – che non sta ferma un secondo, saltella e spia, cambia posto, si scioglie nel buio per poi riaffiorare altrove: fende di ghirigori gestuali la precisa ortogonalità della scena e tesse un articolato face-to-face allo stesso tempo rassicurante ed imprevedibile col pubblico, unico interprete preposto e consacrato alle variazioni di tensione a muoversi con determinazione fra l’ironia a volte troppo ammiccante dei comici, la staticità dal retrogusto orientale delle fate, dentro e fuori l’ormai celebre tratto minimalista del regista reatino che in questo caso sembra rischiare di svelare, invece che sostenere, certe fragilità attoriali.

 

foto di P. Tauro

Certo la confusione è molta, anche per via della velocità con cui le diverse scene si susseguono e intrecciano; ma il Sogno regge, soprattutto nel passaggio dalla tridimensionalità Ateniesi-Fate-Artigiani alle vicende ambientate univocamente nel bosco. Nell’ombra della foresta succede qualcosa – e quando lo spettacolo riprende, dopo la pausa fra primo e secondo atto, tutto è uguale ma qualcosa non torna. I comici cominciano a tastare un po’ di poesia con le parole della commedia che devono provare, il rigore di Atene vacilla nel fervore degli amanti perduti nel bosco, nelle loro mille e una liti piuttosto che fra i labirinti dell’innamoramento. Le tre linee drammaturgiche, unite qui nell’unica ambientazione della foresta si avvicinano e si guardano, si conoscono addirittura in qualche caso, si dilatano, si contaminano, cosicché la schermaglia amorosa fra le due giovani ateniesi finisce in rissa, mentre l’interrogazione tutta teatrale di un muratore – come riprodurre in scena il chiaro di luna – apre a vertiginosi attraversamenti estetici e poetici. Ma quella che potrebbe essere poi una precipitazione verso una sapiente fusione è ostacolata dall’enorme attenzione riservata alle parti dei comici: la trama convenzionalmente principale, con le coppie e iloro scambi, sembra far da spalla alle prove degli artigiani, veri protagonisti – sulla carta e sulla scena – di tutto lo spettacolo. La troupe, composta dalla crème della giovane comicità nelle sue declinazioni più dissacranti e incontenibili (Riccardo Goretti, Francesco Rotelli, Luca Zacchini degli Omini e Nicola Danesi di Tony Clifton Circus), con Alfonso Postiglione e Diego Sepe, occupa il cuore della commedia e della regia civichiana con un affastellarsi di gag che mirano a spostare sempre un po’ più in là la risata dello spettatore, in un vortice di doppi sensi esibiti e ammiccamenti ripetuti. Sarà per la cronotopia propria del comico o per l’affiatamento evidente fra alcuni elementi del gruppo, per il talento vorace di tutti i suoi componenti, per la leggerezza della recitazione o la riconoscibilità a volte rassicurante dei boom satirici proposti. Una dimensione a doppio taglio che pur distinguendosi per compiutezza ed efficacia, ruba, per merito o per forza, la scena alle altre due e resta sospesa fra ripetitività e risate – forse bloccando con la propria irruenza altri percorsi o elementi dello spettacolo che meriterebbero o invocherebbero, in certi momenti, pari concentrazione.

Massimiliano Civica offre un allestimento che fatica a penetrare la stratificazione del testo shakespeariano, pur avendone costellato la versione – nel testo tradotto ad hoc dal regista, che ha scelto anche di cambiarne il titolo – di squisitezze filologiche tutte da scoprire e di piccoli e grandi coup de théâtre che lasciano spesso a bocca aperta, fra magia e divertente svelamento. Uno su tutti il fiore che opera l’incanto. Piccolo bocciolo rosso appeso al bastone di Puck, il suo succo è tratto dagli attori che lo colgono in forma di striscia di pizzo, da cui si ricava una benda da posare sugli occhi dell’incantato. Ma anche le fate “impersonate” da minuscole lucine rosse che gli attori si lanciano da un lato all’altro del palco o le luci della foresta mutate in ribalta – tutti accorgimenti minuscoli che sanno sprigionare per un attimo la gran magia dell’artigianato teatrale.
Un Sogno, quello di Massimiliano Civica, che apre a slanci di senso e di coinvolgimento, che sostiene attraversamenti originali di tutto rilievo, ma che resta tutto sommato chiuso nella sua molteplicità, accennando molto, moltissimo, e concretizzando meno, soltanto in quei casi in cui la complicità attoriale riesce a padroneggiare il testo e la sua varietà, come nel già citato caso che coinvolge Feliziani/Puck/Egeo con il pubblico, i rapporti fra i performer dei tempi comici e per le relazioni generate dall’interpretazione appuntita di Elena Borgogni e Francesca Sarteanesi– la prima presenza consolidata del minimal acutamente sfiancante civichiano, l’altra, quarto elemento degli Omini, piccola rivelazione nel ruolo di Ermia.
Ad un primo atto in certi casi difficile da afferrare e sostenere, fa seguito una seconda parte capace di salvare lo spettacolo: senza fuoriuscite ateniesi e con pochissimi interventi dal bosco fatato, la scena è tutta per i comici-artigiani, che compiono acrobazie di senso e di gusto nel segno del “teatro nel teatro nel teatro”. Tale linea drammaturgica e attoriale, supremamente e continuamente calcata e ricalcata, collassa nel finale travolgendo tutto e tutti: il piccolo arco di proscenio è rivoltato e i comici recitano il loro Piramo e Tisbe a metà fra gli spettatori “veri” e gli spettatori del Sogno, la corte ateniese posta di là dal (finto?, è il caso di chiederselo) boccascena. Platea contro platea, questo forse può essere il succo più originale dello spettacolo: una gara impari che mira a stabilire chi sia il sogno di chi. E che si impegna a tenere l’interrogativo quanto mai aperto.

Visto all’Arena del Sole, Bologna

Roberta Ferraresi