Un palcoscenico vuoto può essere vertiginoso. Ed è così che si presenta allo spettatore di Schwanengesang D744 (Il canto del cigno, in italiano) – con la regia di Romeo Castellucci, visto al Teatro Metastasio di Prato. Un solo cono di luce al centro di una scena color pece, un pianoforte ai piedi del palco, sulla sinistra – suonato da Alain Franco –, una donna che entra, sorriso dimesso e gentile, in abiti anni Cinquanta. È Kerstin Avemo, soprano, e sta sul bordo del cono di luce, trasparente, eterea, diafana. Le punte dei suoi piedi sottili sfiorano la circonferenza luminosa, mentre lei canta, senza sforzo, i primi Lieder di Franz Schubert i cui temi spaziano dalla serenità alla ricerca, dal richiamo dell’amato alla più triste desolazione, fino alla nostalgia e al sogno. Tra una canzone e l’altra, la Avemo con un cenno del capo e pochi gesti scelti, senza alcun turbamento, si rivolge al pianista – e sembra dire: “Sono pronta, può andare, Maestro” – e riprende, languida, il suo canto pacato, che ha la dote della semplicità di colei che non sforza.
Il settimo Lied dà inizio al tracollo. “Das bedeutet des Schwanen Gesang!”, dice: “Così è il presagio del canto del cigno!”, l’inizio della fine, l’ultimo afflato di vitalità prima della morte. La poesia che dà le parole al componimento – e il titolo allo spettacolo – è di Johann Senn e sembra un manifesto possibile del Romanticismo tedesco che canta la sensazione che precede, appunto, l’annientamento. Il soprano, intanto, ha preso a muoversi nel cono di luce, ha abbandonato la misura dell’immobilità e la compostezza del gesto minimo, fino ad apparire decapitata dalla luce stessa: tutto il corpo è visibile, la testa è in ombra. Si volta, poi, e procede verso il fondo, cantando ancora di desiderio, il sonno e l’abbandono. L’ultimo Lied, una sorta di lamento funebre, la vede straziata sulla parete che fa da fondale.
Una scena del genere sottrae lo spettatore al tempo per trasportarlo in un universo altro, caratterizzato da una minacciosa serenità della quale, lo si sa fin dal principio, non ci si può fidare perché la natura descritta nei componimenti romantici è troppo cruenta e mutevole, il nostro soprano è troppo in bilico sul bordo del suo cono di luce immerso nel buio, sono troppo cauti i suoi gesti.
Entra Valérie Dréville che intona un canto diverso: il pianto di una madonna, fatto di gesti lenti, rituali, muti, sofferti. Si volta verso il pubblico e, prima spaurita, chiede ripetutamente se c’è qualcuno, poi aggressiva, ripete all’infinito il verbo “regarder”, fino a farlo in-sensato, monotono, un rumore, un ruggito. Offende lo spettatore-voyeur, con accanimento, finché il grido non la sfinisce e la costringe a terra, dove inizia a sollevare il pavimento vinilico che si increspa come stoffa, mentre lei lo tira a sé con violenza.
Ma, manca ancora un tassello. Sulla scena distrutta, infatti, a intervalli regolari di buio e lampi shock, si abbattono le immancabili interferenze di Scott Gibbons. Disturbanti, invadenti, toccano in profondità, non l’occhio, ma lo stomaco, il corpo dello spettatore che sussulta e che, così sollecitato, in uno dei momenti di luce, per pochi secondi, vede qualcosa che rimane impresso sulla lastra fotografica dell’iride: una macchia terribile, una faccia, una maschera, due corna, forse, una bocca spalancata in una risata o un ghigno che subito scompare per non riapparire più. Per un tempo indefinibile quel demone ha perseguitato lo spettatore e non viceversa.
Termina anche questo frammento, l’attrice che interpreta un’attrice si dichiara tale, si scusa per la sua volubilità d’artista, torna mansueta, schizofrenica, e riprende la sua partitura gestuale muta.
È lecito chiedersi, a questo punto, se l’intenzione del regista non fosse quella di mostrare il canto del cigno della funzione spettatoriale, attoriale, teatrale, della relazione tra le tre funzioni, della risultante di senso che il pubblico si aspetta e puntualmente non trova. Ma non è il meccanismo della contemplazione estatica, né quello della comunicazione l’oggetto primo di esplorazione di Castellucci che invece cerca piuttosto di indagare quel diaframma sottilissimo che divide due sguardi e due corpi. Percorrere quel diaframma, insicuri e abbandonando la pretesa di senso, dà luogo ad una sorta di vertigine.
Nicoletta Lupia