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Una Signorina Giulia tra gli eccessi

Valeria Solarino e Valter Malosti - foto di Tommaso Le Pera

Recensione a Signorina Giulia – regia di Valter Malosti

Si fa fatica ad entrare nella tragedia che Valter Malosti ha portato in scena con Signorina Giulia, dramma del 1888 di August Strindberg bollato come troppo scandaloso per l’epoca.
I microfoni che amplificano le voci, la musica da discoteca proveniente da un retroscena festante e solo suggerito, una presenza corporea e attoriale ben accentuata e in continua agitazione sul palco provocano un senso di disagio, una volontà di allontanamento da una materia che va formandosi e da fatti inquietanti che si percepiscono ma che non sono ancora successi.

Pian piano i suoni creati ad hoc da G.u.p. Alcaro – che accentuano rumori che in scena non sono prodotti ma solo pensati, come il versare vino nel bicchiere o stappare una bottiglia – diventano invece essenziali per evocare una storia di eccessi e sregolatezza, di un rapporto servo-padrona avvenuto durante S. Giovanni, notte di mezza estate famosa per il suo legame con i riti orgiastici.

Interpretata da Valeria Solarino, la Signorina Giulia, attratta “dal basso” come lei stessa dichiara, seduce il servo Gianni (lo stesso regista Malosti vestito in pelle), uomo dai modi rudi e pienamente consapevole di non poter possedere alla luce del sole la giovane e bella contessina. Prova a dissuaderla ma la carnalità prende il sopravvento e solo a danno fatto i due si fronteggiano con le convenzioni sociali dell’epoca e l’impossibilità di rendere palese un tale rapporto, nato in una notte di passioni con la complicità dell’alcol. La stessa Giulia dichiara di esser figlia della natura, ma allo stesso tempo incapace di prendere posizione: preferisce abbandonarsi a un ordine ed eseguirlo, come del resto ha sempre fatto. La natura sopperisce alla società e Giulia si uccide.

Il regista Malosti crea uno spettacolo che si caratterizza per il suo eccesso. Non solo la musica, ma ogni singolo elemento che costituisce la messinscena trova uno stile che potrebbe essere definito per certi versi “barocco”: la bella scenografia espressionista di Margherita Palli che attraverso un meccanismo di botole riproduce il fondo, il basso non solo di una casa (e quindi la cucina, stanza della servitù) ma anche la volontà metaforica della contessa di scendere nelle profondità della sua esistenza; le luci di Francesco Dell’Elba passano dallo strobo per la festa al giallo delle botole e al rosso cupo per simboleggiare il sangue dell’uccisione del caro canarino di Giulia e della protagonista stessa che si suicida per non riuscire a sopportare il proprio comportamento.

L’unica sobrietà è data dalla presenza di Cristina, la fidanzata cuoca di Gianni, interpretata da un’ottima Federica Fracassi (fresca vincitrice del Premio Ubu come miglior attrice 2011): con le sue parole, la sua concretezza e attaccamento alla realtà è lei a calmare i viaggi astratti e insensati di Giulia e Gianni, a risvegliarli dalla loro passionalità e a metterli di fronte al crudo fatto che servo e padrona insieme non possono stare, ma solo destare scandalo. Che sia ancora oggi così? Una moralità lontana quella della Signorina Giulia: ai nostri giorni, forse, non sarebbe proprio andata a finire in tragedia.

Visto al Teatro Goldoni, Venezia

Carlotta Tringali