sonia massai

I progetti curatoriali di Màntica 2014

Lucia Amara, teorica del teatro; Giovanni Leghissa, filosofo ed epistemologo; Sonia Massai, studiosa di letteratura inglese ed esperta di teatro shakespeariano; Simone Menegoi, critico e curatore d’arte; Sandro Pascucci, filosofo di estetica della musica; Enrico Pitozzi, teorico della corporeità e del movimento. Sono loro i protagonisti di Màntica, l’ultima edizione del festival di ricerca teatrale e musicale diretto da Chiara Guidi, che si è svolto dal 4 al 10 dicembre al Teatro Comandini di Cesena.

Studiosi, filosofi e critici sono stati chiamati per mettere in luce la complessità del lavoro artistico, per instaurare un dialogo tra il pubblico e l’opera, nella definizione di un “luogo in cui l’opera d’arte diventi leggibile”. Sono stati inoltre invitati a proporre i nomi di coloro che in seguito, nelle giornate di Màntica, avrebbero “aperto” la loro opera agli spettatori, attraverso proposte laboratoriali, incontri o prove aperte.

Abbiamo cercato di approfondire le “letture” che sono state proposte dai curatori, chiedendo loro come è stato accolto l’invito di Chiara Guidi e come si è sviluppato il progetto curatoriale. Di seguito i contributi ricevuti – in forma scritta – ad opera di Lucia Amara, Sonia Massai, Sandro Pascucci e Enrico Pitozzi.

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Lucia Amara

lucia_amara

Das Spiel (Il Gioco). Un rito di guarigione di Alessandro Bedosti

Con Alessandro Bedosti c’è una lunghissima frequentazione amicale. All’interno di questo recinto intimo, come in tutti i rapporti di amicizia, si muovono tante cose. Chiara Guidi conosce i modi in cui si sviluppa la nostra relazione di pensiero e per questo ci ha proposto di esseri presenti a Màntica con la stessa modalità. Il dialogo tra me e Alessandro è paritario, nel senso che non ha ruoli definiti a priori (lui l’artista e io il pensatore/teorico) e spesso nasce da esigenze pratiche. Alessandro lavora da anni nella scuola dove insegno Lettere, a Zola Predosa (in provincia di Bologna) e, insieme, abbiamo sviluppato diversi progetti con gli adolescenti, tra cui una Compagnia Teatrale della Scuola, un gruppo di ragazzi che con noi lavora su testi shakespeariani. L’ultimo impegno è stato incentrato su Romeo e Giulietta che imperituramente immortala la condizione dell’adolescente nel rapporto con un adulto non-dialogante e chiuso nei propri protocolli di violenza e imposizione. Gli adolescenti ci pongono domande continue e noi ne facciamo nutrimento del nostro pensiero, cercando di sfuggire agli obiettivi condivisi dalla scuola per ricrearne di nuovi che, poi, danno forma ad altre immagini volutamente spostate in luoghi che vogliamo indagare e che riproponiamo ai ragazzi, anche se non in maniera esplicita. Vige una specie di segreto sui processi sotterranei.
Il dialogo con Alessandro Bedosti si alimenta anche attorno ad un altro nucleo fondamentale, non staccato dalla pedagogia, che è la letteratura. Laddove si crea il vuoto e la sottrazione, luoghi fondamentali della ricerca di Alessandro, il soccorso viene dalla parola letteraria che sostiene e stampella quel possibile scomparimento a cui questo artista spinge con tenacia la sua opera. Per questo l’iscrizione – HO SCELTO IL NULLA – in calce a un quadro descritto ne L’Iguana di Anna Maria Ortese è divenuto per noi un’immagine “curativa”, in un certo qual senso. Ci sono molti libri che hanno “educato” il dialogo tra me e Alessandro. L’Idiota di Dostoevskij è un ormeggio sicuro. Nel caso specifico del lavoro esposto a Màntica, Das Spiel (Il Gioco). Un rito di guarigione, si profila a tratti il Cristo di Holbein, immagine che appare all’Idiota Principe Myskin nella parte centrale del romanzo. Il dipinto raffigura una deposizione adagiata su una tela di due metri di lunghezza e trenta centimetri di altezza: non c’è scampo, non c’è movimento possibile, la fine è una questione di spazi, una cattura ineluttabile. Altri testi letterari di cui ci nutriamo sono i carteggi d’amore tra poeti, come quello tra Rainer Maria Rilke e Lou Salomé o Marina Cvetaeva, tra Paul Celan e Ingeborg Bachman.
Per questo Alessandro ed io abbiamo deciso di non fare una conferenza al pubblico ma di allestire un tavolo sul quale posare questa materia di libri esponendo uno dei luoghi materiali della “nostra cura” e che io ho vegliato durante la permanenza di Alessandro a Màntica. Il pubblico poteva girare attorno o guardare o toccare o, con la lettura, rubare fugacemente uno stralcio. Si tratta di “trovare le parole” – come si dicono Ingeborg Bachman e Paul Celan nel carteggio che li accompagnò tutta la vita.

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Macbeth su Macbeth su Macbeth di Chiara Guidi

Macbeth su Macbeth su Macbeth di Chiara Guidi

Sonia Massai

La mia partecipazione a Màntica è scaturita da una conversazione con Chiara Guidi cominciata nella primavera dell’anno scorso a proposito di Macbeth su Macbeth su Macbeth e poi sviluppata in occasione di un incontro col pubblico dell’Arts and Humanities Festival che si tiene ogni anno al King’s College London in ottobre. Io sono particolarmente affascinata dall’originalità dell’approccio di Macbeth su Macbeth su Macbeth che non esclude, ma anzi rende necessaria, una rilettura attenta del testo Shakespeariano. L’invito a Màntica mi ha consentito di confrontare la mia (ri)lettura dell’opera teatrale e del testo Shakespeariano con le reazioni del pubblico. Le mie domande, mirate a capire cosa avesse suscitato interesse, sorpresa, o stupore, hanno messo in luce la diversità dei “punti d’accesso” all’opera e l’utilità di uno spazio che permetta all’artista, al pubblico, e al critico/curatore di riflettere sui vari livelli di leggibilità dell’opera. Nel momento in cui l’esposizione all’opera diventa occasione per un confronto collettivo, l’interpretazione acquista un valore che va oltre l’ermeneutica poiché trasforma gli spettatori in “comunità interpretative” (Stanley Fish).

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MÀNTICA 2014. Le briciole di Pollicino.
di Sandro Pascucci
Gennaio 2015

Pongo, preliminarmente, una breve riflessione sul (mio) ruolo di curatore, all’interno di una delle sezioni di Màntica 2014 “Stele di Rosetta”. Lo faccio con un esplicito riferimento all’ultimo libro di Giorgio Agamben L’uso dei corpi (Vicenza 2014): “… ciò di cui ci si prende cura è il soggetto stesso delle relazioni di uso con le cose e con gli altri… ciò sembra implicare qualcosa come un circolo… che non conosce soggetto e oggetto, agente e paziente.”

La circolarità dell’incontro tra l’opera di Cage – in contrappunto con i suoni di Bach e Liszt –, la proposta esecutiva compositiva di Fabrizio Ottaviucci (al pianoforte) e Daniele Roccato e il Ludus Gravis Ensemble (ai contrabbassi), l’ascolto ricettivo interpretativo del pubblico (e del curatore) prefigurano uno spazio di comprensione e contemplazione più che dialogico e dialettico, più sincronico che diacronico, più di prossimità che di confronto, più di presenza(e) che di rappresentazione(i).

Daniele Roccato

Daniele Roccato

Ludus Gravis Ensemble

Ludus Gravis Ensemble

Fabrizio Ottaviucci

Fabrizio Ottaviucci

Attraverso Cage – nomen omen –, si apre la gabbia delle convenzioni che spartiscono il campo della creazione tra arti autografiche – la pittura, la poesia, il cinema… – e allografiche – la musica, il teatro, la danza… Così l’esecuzione di una delle pagine del Concerto per Piano e Orchestra (nella versione di 63 fogli mobili per solo pianoforte – lo Steinway gran coda suonato da Ottaviucci nella sala del Conservatorio Maderna (!) ) “eseguibile integralmente o parzialmente in qualsiasi sequenza”; o i Four6 affrontati dai cinque contrabbassisti, ciascuno con il proprio strumento diverso per fattezza e età, assieme al pubblico chiamato ad intervenire per adempiere al dettato dello spartito “per qualsiasi modo di produrre suoni” (nel riverberante salone ottocentesco di Palazzo Ghini): tutto ciò ci riconduce, forse, all’origine autografica di ogni linguaggio artistico (Nelson Goodman), e le scansioni proprie della creazione musicale – la composizione trascritta e codificata e la sua interpretazione – dall’esecutore all’ascoltatore – si riposizionano in uno spazio antigerarchico e antidiacronico, aderendo al suono/i, epifania sensibile dell’esserci, fenomenologia musicale del rapporto io-mondo, del “mio non alibi nell’essere” (Michail Bachtin).

Autografia. Allografia. Omeografia: modulazioni aspettuali e tensive dell’estetica.

Ritorno alla metafora del viaggio (già nel dialogo tra me e Chiara in apertura dell’opuscolo di Màntica 2014), per i molti aspetti significativi che possono riguardare e risuonare inbetwinn l’interpretazione dell’opera d’arte come esperienza estetica. In primo luogo il viaggio presuppone un tragitto, uno spostamento da un punto di partenza all’altro, verso una meta. Meta come approdo sicuro nella misura in cui vi ritroviamo in essa qualcosa che ha a che fare con il nostro luogo di origine (del viaggio). E l’idea di arrivare in un luogo che ci dia sicurezza rinvia ai rischi, agli imprevisti del viaggio, che possono compromettere l’itinerario, fino a portarci a smarrirci. E, infine, il poter raggiungere felicemente la meta che ci siamo dati, implica un sapere, una tecnica, una comune passione.

L’opera d’arte sta all’inizio e alla fine del nostro viaggio perché è essa stessa viaggio; punto di partenza e insieme meta transfigurata attraverso il suo vitale transito ermeneutico; esperienza estetica che è sinonimo di prassi sensibile: “La musica non ha un senso, ma un significato che si svela nel praticarla, nell’usarla… Esperienza, uso, prassi d’autore. E di esecutore. Ma anche, e massimamente, esperienza, uso e prassi di fruitore…, per eccellenza, esperienza collettiva collaborante. Happening” (Edoardo Sanguineti).

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Strata di Maria Donata D'Urso_Foto Laura Arlotti

Strata di Maria Donata D’Urso_Foto Laura Arlotti

Enrico Pitozzi

L’invito da parte di Chiara Guidi è stato per me l’occasione per andare a fondo rispetto ad una direzione che mi appartiene e che ha la forma di un dialogo a più voci, sia con Chiara che con Maria Donata D’Urso, la coreografa da me proposta per Màntica: pensare l’opera secondo una prospettiva aperta, che metta cioè in luce la fitta rete di relazioni che essa instaura con il mondo. Ciò significa tornare – in modo radicale – ad avere una certa sensibilità per le cose impalpabili, che si sottraggono all’economia del commento.
Per fare questo serve un’altra andatura, una condotta nuova, in cui il curatore contribuisce a far emergere – in sintonia con l’artista – il pensiero implicito in ogni opera e che affiora secondo le sue leggi: un pensiero fatto d’immagini, di atmosfere: un pensiero che avvolge.
Per andare in questa direzione è necessario – così si è diramato il progetto curatoriale – condividere con l’artista una sensibilità di visione delle cose, che si esprime anche attraverso una organizzazione comune di momenti laboratorio, in cui l’interno e l’esterno, dell’opera divengono l’oggetto dell’analisi.

È qui che l’opera si fa spazio affettivo capace di trascendere chi l’ha creata. Affiora dal tessuto del mondo per farci vedere in modo nuovo ciò che abbiamo da sempre sotto gli occhi.
Ciò afferma con forza un principio: oltre alla distanza che esiste tra noi (curatori o spettatori poco importa) e l’opera, una distanza vissuta – come la chiama Merleau-Ponty – ci collega alle cose che per noi contano davvero, per le quali abbiamo un affetto che non possiamo spiegare a parole, ma solo circoscriverlo per allusioni, rinvii, ellissi. L’opera parla sempre di noi. E della comunità che in essa si aggrega.
Questa distanza incommensurabile – priva di geometria – testimonia in ogni momento la portata della nostra esistenza, dell’esatto punto che occupiamo nel mondo.
O bagliore improvviso che fa vedere le cose, o il nulla.
Credo sia questa, oggi, la sfida alla quale risponde un curatore.
Credo sia questa, oggi, la sfida che ogni spettatore accoglie.

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Màntica 2014: la leggibilità dell’opera d’arte

a cura di Elena Conti