La grottesca giostra della Storia continua a porre in luce conflitti di una civiltà che contrappone buoni a cattivi, libertà a sottomissione, trovando nella guerra l’accentuazione di tale opposizione. Il teatro risponde a questo attacco continuando a parlarne. Parla di guerre l’Accademia degli Artefatti, diretta da Fabrizio Arcuri, e lo fa partendo da Shoot/Get Treasure/Repeat di Mark Ravenhill. L’origine di quest’opera, ormai nota e mitizzata, vide, nel 2007, il drammaturgo inglese comporre 17 pièces revisionando in chiave contemporanea alcuni testi classici sul tema della guerra, da Omero a Euripide, da Dostoevskij a Brecht. La saga teatrale viene ripresa da Arcuri. Dieci sono i frammenti che l’Accademia degli Artefatti mette in scena. Appare abbastanza complesso tutto il meccanismo e per non mandarlo in tilt, il Teatro Metastasio Stabile della Toscana ha proposto una kermesse di due giorni nella quale presentare consecutivamente le dieci pièces di Spara, Trova il tesoro e ripeti.
Il secondo ciclo si è aperto con la rappresentazione di Delitto e castigo seguito da Paradiso Perduto, Nascita di una nazione, Terrore e miseria per chiudersi con l’Odissea. Gli episodi si sviluppano in un susseguirsi fluido di contrasti umani. La pazzia della guerra prende le mosse da situazioni specifiche come nella prima pièce. Delitto e castigo racconta di un interrogatorio di guerra che nel suo evolversi sprofonda nella psiche umana, nella crudeltà dell’invasore che, giustificato dalla sua missione di aver portato libertà e democrazia in un Paese, pretende che gli venga riconosciuto il diritto di appropriarsi di ciò che ha
liberato. Ma la vittima, sembra dirci il regista, non è solo colui che si trova in territori occupati. Come in un processo dai labili confini, vittima diviene anche il soldato sottoposto a decisioni a lui superiori, decisioni incontestabili che gli faranno perdere ogni contatto con la vita. L’ipocrita logica dei portatori di pace, la messa in scena di un’ipotetica giustizia sfumata di razzismo e repressione, si fa dettaglio per addentrarsi nelle frustrazioni della vita di una famiglia borghese con Terrore e miseria. Se un ingannevole spiraglio di salvezza viene dichiarato in Nascita di una nazione nell’appellarsi dell’uomo all’arte come ultima via d’uscita, Arcuri non tarderà, con Odissea, a riportare in auge domande quali Chi porta la libertà a chi? Chi ha così tanta democrazia da poterne regalare un po’? Con lo sguardo rivolto sempre verso lo spettatore, gli attori sembrano voler rendere ogni soggetto consapevole delle proprie colpe e della propria inerzia. Il regista ci lascia al di qua della scatola scenica che si fa “specchio” del pubblico, come in Delitto e castigo, ma allo stesso tempo ne definisce il limite del suo intervento. Illusorio coinvolgimento è ciò che emerge da ogni pièce. Gli attori si muovono tra le gradinate del teatro, consegnano carta e penna agli spettatori (Nascita di una nazione), lasciano che questi si sentano chiamati in gioco, responsabilizzati, per poi annullarne ogni valenza, tornare alla messa in scena, alla distanza e passività dello spettatore. Nella drammaturgia frammentata le parole si fanno portatrici delle più varie sfaccettature anche se non viene mai meno la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un conflitto tra Occidente e Oriente raccontato dalla posizione di un occidentale. Come in una battaglia navale, la kermesse ha visto un dileguarsi di persone nel susseguirsi delle rappresentazioni, come a volerci ricordare il limite di accettazione delle nostre responsabilità o sopportazioni.
Visto al Teatro Fabbricone di Prato il 31 gennaio 2010
Elena Conti