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Alla ricerca della bellezza perduta: il teatro di Jan Fabre

foto di Wonge Bergmann

Cédric Charron – foto di Wonge Bergmann

Dopo aver riportato in tournée a 30 anni di distanza il suo manifesto teatral-artistico e in attesa dell’annunciato lavoro della durata di 24 ore, l’artista belga Jan Fabre debutta in Italia (il 19 e il 20 luglio a Civitanova Danza e il 23 al Mittelfest) con Attends, Attends, Attends… Pour mon père, assolo di un eccezionale guerriero della bellezza, il danzatore bretone Cédric Charron, presente nei lavori dell’artista fiammingo da più di un decennio.

Lo spettacolo, ospitato a inizio luglio al festival di Montpellier, riunisce e esalta l’immaginario poetico di Fabre: perduto in un limbo fumoso e incerto, un traghettatore vestito di rosso scarlatto agita un lungo remo e si batte per non essere inghiottito dalla nebbia. «Un testo superbo, profondamente intimo – scrive la stampa francese – e ricco di immagini plastiche di grandissima suggestione.
Un poetico omaggio di un figlio verso il padre – spiega lo stesso Fabre, all’indomani del debutto primaverile al De Singel di Anversa (un video dell’intervista agli artisti), che prosegue quell’idea di teatro totale che ha negli anni sempre più radicalizzato in un continuo dialogo con il corpo dell’attore. Corpo dell’attore trattato – spiega sul Tempo Gabriele Simongini – «come quello di un insetto che viene studiato (non per nulla Jan, appassionato di insetti – ha ricoperto il soffitto del Palais Royal con due milioni di dorsi di scarabei – si professa discendente del celebre naturalista ed entomologo Jean-Henri Fabre) dissezionato e quindi scandagliato in tutte le sue profondità, nel connubio fra orrore e bellezza, fra vita e morte».

"This is theatre…" - foto di Wonge Bergmann

“This is theatre…” – foto di Wonge Bergmann

Proprio come passaggio fondamentale alla preparazione del nuovo mastodontico lavoro, Fabre ha attuato una felicissima operazione che ha definito di “re-enactment”, ricomposizione di tracce, gestualità, mappe e performance, rimettendo in scena, in una sfida sia fisica che mentale, “su una zattera alla deriva senza appigli”, due classici anni ottanta con una precisione assoluta.
Gli spettacoli This is theatre like it was to be expected and foreseen (debutto ad Anversa nel 1982, presentato in Italia sul piccolo palcoscenico del Festival di Polverigi), ispirato all’arte povera di Jannis Kounellis e Julian Schnabel, in cui i corpi sono esposti come carne sanguigna fra i ganci di una macelleria e The power of theatrical madness (concepito per la Biennale di Venezia del 1984, la prima a dare spazio al teatro sotto la direzione di Franco Quadri), celebrazione della follia e dello splendore del teatro, riproposti in Italia al Festival di Spoleto e ospitati prima a Romaeuropa (che ha allestito, in un’immersione totale, anche una dettagliata mostra al Maxxi) e poi al Piccolo Teatro, si possono considerare una «pietra miliare dei linguaggi della performance – come scrive Rodolfo di Giammarco su Repubblica – tremante, stupefacente prova che la tecnica della ripetizione scenica può elevare uno spettacolo a opera d’arte».

In scena gli attori si denudano – e con loro ogni nostra idea di teatro – senza oscenità né trasgressione, sudano, massacrandosi, per intensità e durata, nel gesto atletico «coniugato – spiega Antonella De Sanctis su Artribune – con intellettualistico disorientamento alla declamazione di un lungo elenco di nomi e date», sulla Marcia funebre di Sigfrido di Wagner «in un’ostinata e ossessiva esplorazione che – spiega Rosella Battisti su L’Unità – Fabre conduce guidato dalla curiosità sul suo corpo e su quale significato avessero la sua pelle e i suoi organi».

«Si tratta pur sempre dell’uomo – analizza ancora Rossella Battisti su L’Unità – che mise il naso sulla rotaia della linea tranviaria di Anversa e la percorse da nord a sud, quello che bruciava i soldi degli spettatori e che invitava i critici a sparargli addosso (altro che Carmelo Bene…). Il pittore di lacrime e sangue (il suo) con cui decorava le pareti dello studio, ma anche l’eccentrico ideatore della Bic-Art, ovvero l’arte della penna biro proposta come alternativa alla pittura dei grandi maestri del passato».

Su Le Temps in una bell’intervista all’autore belga, Alexandre Demidoff scrive: «Au fond, Jan Fabre est un hiboun. Il fait provision de rêves le jour, jette son feu dans nos nuits. Du hibou, l’artiste flamand, 53 ans, a la clarté d’un regard qui chasse les ombres. Et un plumage épiscopal. Parfois, il hulule. Ses acteurs et danseurs du moins. Leur cri est alors une plaie et comme une grâce».

Ed è così che in poco tempo gli spettacoli di Jan Fabre si trasformano «in un fenomeno ipnotico che nasce nella ripetizione convulsa – continua Antonella De Santis – e in cui il pubblico vince le consuetudini e si trasforma in tifoseria da stadio di fronte alla prova di resistenza degli attori» convinto che «il teatro è la materia. C’è lo sforzo fisico all’eccesso, la ricerca del limite, il bacio che perde consistenza per diventare suono e ritmo. C’è lo svestirsi e il rivestirsi ossessivo che continua anche in mancanza degli abiti e diventa puro gesto. C’è la gag comica e la coreografia da musical, ci sono i corpi nudi che conquistano pose plastiche e alludono alla scultura classica, c’è il tempo reale che diventa tempo teatrale».

Nonostante inizialmente pensasse che «la mitizzazione degli spettacolo fosse più grande degli spettacoli stessi – spiega Rodolfo di Giammarco su Repubblica – ha poi scoperto che i suoi lavori iniziali, allora “cattive opere”, mostrano col tempo un know how sociale che può influenzare nuove generazioni»: «È venuta fuori – riporta in un’intervista Cristina Piccino su Il Manifesto – una valenza politica nella ricerca della mia pelle, con una prospettiva non più mitica ma di reale scambio di culture» che «mi insegna di nuovo a guardare il teatro, sorprendendomi e ispirandomi».

Alle rappresentazioni al Piccolo di Milano, il pubblico è composto nella maggior parte da giovani: non tutti consapevoli di assistere a un lavoro che ha più anni di loro e che «intendeva teorizzare – come spiegano Laura Novelli e Carlo Russo su PAC l’idea di un nuovo performer, il performer del XXI secolo, consapevole, danzatore e attore insieme, capace di passare dall’act all’acting». Perché è il conflitto che necessita di un “corpo disciplinato” per giungere alla performance, come avveniva per l’agilità, repressa nella disciplina, di Fred Astaire.

"The power of.." - foto di Wonge Bergmann

“The power of..” – foto di Wonge Bergmann

«Ed è proprio museo – spiega Maddalena Giovannelli su Doppiozero – la parola chiave per attraversare la proposta del maestro fiammingo: non semplice esposizione inamovibile di una sequenza limitata di opere, ma percorso dinamico e interattivo che attinge a un bagaglio culturale condiviso» mentre Roberta Ferraresi aggiunge, sempre su Doppiozero: «il museo della performance carezzato da questo spettacolo è utile per obbligare a scavare di nuovo uno dei luoghi comuni che hanno consegnato all’oggi la tradizione e la storia del teatro del secolo scorso: quello che gli anni Ottanta fossero prevalentemente un passaggio di ritorno all’ordine e riassorbimento dell’eresia dell’avanguardia, di riflusso al privato, di seduzione del ritorno delle opere e di rifiuto dell’impegno politico».

«Io credo – spiegava Fabre sulla Stampa a Simonetta Roblony nel 1985 – che non si può togliere al teatro la sua anima. Per questo sono contro l’abuso della danza che si è fatto negli anni settanta, contro il romanticismo decadente, contro il formalismo imperante: è una falsa libertà quella di appiattire le contrapposizioni dell’esistenza. Uno spettacolo teatrale può dirsi riuscito solo quando il pubblico sa vederlo con gli occhi e leggerlo con il cuore».

All’epoca Jan Fabre aveva ventiquattro anni e invitava il pubblico a entrare e uscire liberamente dalla sala (il flusso faceva già parte della sperimentazione, anche cinematografica, degli anni Sessanta): in tanti gli dettero dell’arrogante, classificando la sua opera come “pseudo avanguardia deviante e frastornante”.

Come scrive Ugo Volli in un approfondito articolo su Repubblica all’indomani del debutto veneziano, nel 1984: «raccontare Il potere della follia teatrale non è né facile né gradevole. Non che sia impossibile. Ma la descrizione fatica a cogliere l’ambiguità fondamentale di questo lavoro, il suo oscillare fra bellezza e stupidità, polemica e insensatezza, creatività e distruttività, banalità e genio, accumulo e spreco, ripetizione e varianti, coreografia rigorosa e violenza personale».

In effetti, quel che fa Jan Fabre è – continua Volli – «preparare lentamente, con grande senso del ritmo e dell’attesa, immagini forti, che per il loro lentissimo e ripetitivo metodo di costruzione sono però perfettamente prevedibili, e alla fine non vogliono dire più niente se non se stesse… ma in tutto questo armamentario estremamente kitsch e assolutamente insensato, c’è un autentico piacere, onirico e visionario». Jan Fabre – valutava Volli – non è né Wilson né Pina Bausch, cui polemicamente si ispira (rifiutandone l’accostamento e considerando il suo “teatro degli attori”) concludendo che «gli manca la poesia e anche il senso della struttura che ha fatto grandi questi suoi ideali avversari; ma, giovanissimo com’è, è una grande promessa del teatro europeo».

Promessa mantenuta, che fa dire dopo più di 20 anni a Franco Cordelli su Il Corriere: «Jan Fabre è un belga degno dell’attenzione di Baudelaire (spero ricordiate), ed è un tipico artista internazionale, di quelli invitati in ogni festival, buoni per tutti i gusti. Egli vuole misurarsi con i grandi temi. La società, la morte, i classici».

Un fascino che non può lasciare indifferenti: «sequenze – spiega Valentina De Simone su Cheteatrochefa – che esplodono di bellezza, nella danza liberata dalla morsa del controllo, sulla pulsazione ritmica di un inconfondibile Wim Mertens, e negli abbracci spezzati e subito ricomposti di principi tristi che, senza sosta, depongono le loro amate al suolo, per poi baciarne l’assenza. Dopo tanto simbolismo, alla fine, si arriva alla carne, con una sculacciata plateale che lascia evidenti i suoi segni sulla pelle candida. La follia di Fabre è, prima di tutto, la verità del corpo».

«All’ultimo provino ad Anversa, durato dieci ore al giorno per due settimane – si legge su Il Tirreno in un’intervista alla livornese Giulia Perelli – dopo aver superato altre tre selezioni ugualmente lunghe, le fu chiesto di volare per diventare uno dei guerrieri della bellezza». Il livello di competizione era altissimo, la fatica tanto forte da diventare illogica, il corpo portato al limite fisico e psicologico: «Non si sa cosa è reale e cosa non lo è – spiega la performer – proponiamo un sogno fatto di nuovi universi, scardinando il senso del tempo, dove può succedere tutto e tutto succede. È libertà, è rito primitivo, è arte che tocca il cuore. Non è questione di cultura, è più profondo delle nozioni intellettuali».
Strano che a Milano, dove su facebook è esplosa la polemica per il presunto maltrattamento di animali in scena, poi ripresa in consiglio comunale e conclusasi con la rinuncia all’utilizzo di tartarughe (avrebbero dovuto attraversare la scena con una candela sulla corazza, anche se accuratamente protetta) nessuno si sia preoccupato per la salute dei 12 attori: e chi replica che loro possono scegliere, evidentemente non conosce la follia teatrale.

Maddalena Peluso