spettacoli short theatre

Uno (o più) pensieri sull’uomo: Noosfera di Roberto Latini

Recensione a Noosfera Lucignolo e Noosfera Titanic – di Libero Fortebraccio Teatro

Noosfera Lucignolo - foto di yuricrea

Il quadrato è la struttura-base di Noosfera di Libero Fortebraccio Teatro: che sia d’acqua (Noosfera Lucignolo) o di sale (Noosfera Titanic), è proporzione del mondo, ring o recinto o forse spazio del sacro, da cui prende vita questo progetto sulla condizione umana, pensiero sviluppato intorno al curioso cortocircuito, come si legge nella presentazione di Titanic, fra il «carro che porta al Paese dei Balocchi» che «se avesse avuto un nome, avrebbe potuto chiamarsi come la nave-simbolo di tutto il Novecento». Roberto Latini, autore e interprete, devia tale legame sulla natura del fare teatro oggi, in una società che sempre più avvilisce e mortifica artisti e operatori culturali; si potrebbe dire, l’apice di una operazione meta-teatrale, ma il realismo estremo in cui Latini spinge il lavoro – soprattutto col secondo spettacolo, Titanic, di quella che diventerà una trilogia – obbliga la metafora a debordare oltre i limiti del quadrato e del palcoscenico, a fuoriuscire dal teatro e dalla cultura, per rivelarsi come presa di posizione e denuncia di tutto il mondo circostante. Il nodo è quel crinale del Novecento in cui l’Occidente stava costruendo il proprio futuro (e il celebre transatlantico affondava nelle acque artiche), quel «Paese che c’era una volta e c’è ancora», ovvero il momento in cui è stato immaginato e creato quel secolo, quel modo di vivere, che la civiltà oggi sembra non riuscire a lasciarsi alle spalle.

Noosfera Lucignolo, primo spettacolo del nuovo progetto di Libero Fortebraccio Teatro, prende le mosse dal Pinocchio di Collodi e, in particolare, dalla figura di Lucignolo e dalla sua potenza destabilizzante, tra fuga dalla realtà e ribellione alla cultura didattica di cui il testo è intriso. In un quadrato d’acqua, un inquietante uomo seduto dà voce a pezzi di storia e biografia, appelli e domande come macigni, fra parole in frammenti e gesti al limite della sintesi. Poi, una volta lasciata la parte del monologo, c’è il “divenire animale” dell’attore, che a carponi nel filo d’acqua che circonda la sedia, gira intorno e tenta di costruire un cammino, pur avviluppato nel proprio schema circolare. I dispositivi drammaturgici sono quelli della tecnologia e del postmoderno: différence et répétition, loop e variazioni, così come anche in Noosfera Titanic, secondo spettacolo del progetto costruito intorno all’affondamento del celebre transatlantico. Qui, più che in Lucignolo, l’innesco resta esclusivamente concettuale: medesimo è il procedimento per flash e luce-buio, attraverso cui l’autore-attore porta nuovamente in scena il suo appello, con frantumi di parole e una partitura vocale estrema. Nella seconda parte, ancora la parola è esclusa, mentre Latini scava e rilancia su tutto il palcoscenico la montagna di sale che aveva accompagnato il monologo iniziale, in un crescendo performativo al limite della body art. Ogni tanto una inquietante – quanto difficilmente comprensibile – figura si affaccia dal fondo scena, in una densa luce gialla, sul corpo e sull’azione dell’attore, che, alla fine, mostra una faccia così deformata dalla pioggia di sale da non poter neanche tenere gli occhi aperti.

Noosfera Titanic

Entrambi gli spettacoli sono costruiti intorno a una porosa materialità vocale, ai toni bassi e abissali con cui l’autore-attore si è fatto conoscere negli ultimi anni all’interno del panorama teatrale nazionale: una phoné viscerale, capace di estreme modulazioni e variazioni, che a volte si fa borbottio tellurico e altre quasi canto, nei feroci falsetti con cui è ricamata la partitura vocale. E tutti e due i lavori vivono di una raffinata drammaturgia – i cui numerosi spunti e materiali sono talmente compressi da diventare, in certi passaggi, difficili da cogliere o intercettare – articolata su una struttura bifronte e fondata sul contrappunto fra voce e azione: una prima parte dedicata al monologo, la cui scrittura è rotta e frantumata sia in senso drammaturgico, sia per l’estrema cura che Latini dedica alla pronuncia di ogni singola sillaba; una seconda in cui è protagonista una silenziosa quanto feroce azione performativa. La doppiezza che rende centrale ed esclusiva una volta la parola, l’altra il gesto, è un’invenzione che va forse a segnare una svolta nel percorso di Latini, che con i suoi precedenti spettacoli si era distinto per un talento compositivo in cui verbo e azione, sapientemente intrecciati, davano vita a momenti di grande efficacia performativa. Qui, invece, la separazione è netta, sottolineata, e lo spettacolo, invece che presentarsi secondo il solito magmatico intreccio del corpo-voce, si propone in due atti distinti, per certi versi incommensurabili fra loro. In entrambi gli spettacoli la quarta parete è spessa, il volto dell’attore (il suo potente occhi-negli-occhi) è spesso sottratto, solo accennato, sempre rimandato. Il gioco glossolalico, fuori dall’ironia parodica che l’aveva in passato caratterizzato, esplode in frammenti taglienti, chiusi in se stessi quanto urgenti, e cuciti insieme da un riso amaro, sfiancato, che ha preso il posto del gioco del linguaggio.

Il punto, quello della critica e della denuncia disperata a un mondo in rovina, pur essendo espresso con grande efficacia performativa, si trova spesso ai limiti della comprensione, compresso com’è fra immagini di grande impatto e parole in frantumi, metafore ricercate e un linguaggio di faticosa decodifica, sempre teso a rilanciare oltre i confini e i canoni della comunicabilità. Non che Noosfera sembri un progetto ermetico, ma richiede, forse, una netta predisposizione all’abbandono, nonché di essere visto da molto vicino (soprattutto Titanic), con un microsguardo capace di fare a pezzi quella quarta parete ispessita (e materializzata in Titanic in un tulle lungo tutto l’arco di proscenio) e di entrare così in contatto con le trasformazioni fisiche che scaturiscono dal corpo-voce dell’attore. Qui, pur sciogliendo ogni volontà ermeneutica, nasce con forza una domanda: sotto tutto quel sale, sembra poter non nascere più nulla – e le parole dei fogli di sala vanno in questa direzione; il Titanic è affondato – e con la sua profezia l’Occidente intero; ma in mezzo a tanta distruzione, al dolore della rassegnazione, all’emarginazione che ogni giorno fa della cultura autentica e del vivere civile un’utopia, non dovrebbe esserci anche spazio per un momento costruttivo o rigenerante? E non potrebbe, forse, essere proprio il teatro quello spazio in cui è possibile formulare e sperimentare un altro modo di vivere? Sono domande che lo stesso Noosfera sembra porre – e che si spera avranno presto, magari con il terzo momento del progetto, una risposta: «essere parte di un Coro è l’occasione che la tragedia ci regala».

Visto e rivisto al Teatro San Martino (Bologna), Santarcangelo 41, Short Theatre (Roma)

Roberta Ferraresi

I mille giochi della (in)felicità in GMGS di Codice Ivan

Recensione a GMGS_What the hell is happiness? – di Codice Ivan

Una creatura inquietante, nella penombra del centro scena, muove i suoi primi passi; corpo di ragazza, faccia di scimmia, avanza pericolosamente, come una minaccia. Ma l’antitesi teromorfica non è condotta verso derive oscure, quanto piuttosto giocata sui contrasti del mondo (e della società) dello spettacolo, che ricordano più l’ingenuità de Il pianeta delle scimmie che l’iperrealismo degli effetti speciali dei giorni nostri. Già qui è possibile rintracciare la chiave con cui Codice Ivan affronta il tema della (in)felicità, al cuore del nuovo lavoro GMGS_What the hell is happiness?: una vocazione profondamente politica, annientata e rilanciata dall’impostazione ludica che pervade tutto lo spettacolo. Il gioco della rivolta, si potrebbe dire – continuamente rivisto dall’intreccio fra verità e finzione: reali, realissimi, sono i performer (Anna Destefanis e Benno Steinegger), le loro azioni, le loro domande; mentre tutto accade a vista e la magia teatrale è sempre sottolineata e svelata.

Subito segue una sequenza di istantanee in cui si presentano le atmosfere e i gusti, le figure e le idee che si vedranno durante lo spettacolo – una delle soluzioni drammaturgiche con cui la compagnia sviluppa, con freschezza e intelligenza, la partitura che sostiene GMGS: dalla scimmia alla bionda, fino alla ragazza che mangia una mela, la carrellata di immagini-flash sembra inizialmente sfuggire allo sguardo, ma si scopre poi, ritrovandone i profili, che un alone di movimento, di senso, rimane impresso nel buio che precede e segue il quadro successivo, in una sorta di rapidissimo trailer che introduce lo spettatore all’interno della struttura performativa.
Il dispositivo accelera e il racconto si mostra essere quello della creazione e della corruzione: versione biblica o darwinismo che sia – cortocircuito curioso al cuore di GMGS – tutte le narrazioni dell’origine possiedono un’impostazione simile, che prevede la pre-esistenza di un mondo perfetto a cui succede una caduta dagli aspetti similari. Tanto nella tradizione religiosa che in quella scientifica, si intrecciano l’inconsapevolezza (animale o paradisiaca) con la spensieratezza, così come la conoscenza (del bene e del male o tecnica) con un peggioramento di stato. A spiegarcelo è una giovane che trasforma il palco in una grande lavagna: disegna a gessetto le diverse condizioni sul pavimento, che vengono poi proiettate a parete, mentre incalza l’invasione di parole-manifesto, quasi sottotitoli del racconto – non è chiaro per quale motivo – sì disegnato, ma anche parlato in inglese.
In questo spettacolo il testo, in gran parte, non è soltanto detto, ma affidato a dei grandi cartelli in biancoenero che man mano finiscono con l’assediare lo spazio performativo: di matrice chiaramente brechtiana, sono rivisti secondo i dogmi dei giorni nostri – dall'”A cosa stai pensando?” di Facebook agli imperativi degli slogan, dalla comunicazione-lampo degli sms alla meraviglia di sintesi dei loghi. E se, all’inizio, sono utilizzati in vece della parola, a raccontare una sorta di svolgimento narrativo, poi vengono efficacemente deviati in domande, dubbi, interrogativi, in un brusco passaggio dal gioco del racconto a condizioni di feroce attualità. Anche qui si trova uno dei dispositivi drammaturgici efficacemente predisposti per la “cattura” del pubblico: prima, con il racconto biblico-darwiniano, ci si lascia trasportare dai sorrisi – “un tempo ero una scimmia”, “mangiavo solo banane”, “vivevo in un mondo perfetto” – ma poi, quando “le banane non bastano più”, l’uomo dà vita al proprio mondo e comincia a “pensare, lottare, amare”. E qui, mentre i disegni della performer si affastellano cercando di spiegare, con semplicità, la necessità di possesso e tutti i dogmi del capitalismo, anche i cartelli prendono un’altra piega, decisamente più inquietante, rivolgendo domande dirette al pubblico. L’effetto, alla fine, è quello di una gran confusione di segni – linguistici o grafici che siano – perché, come ci dicono dal palco, effettivamente il nostro non è proprio un mondo perfetto, ma una realtà di stratificazioni e ambiguità, inadeguatezza e delirio, tornando sempre, come in un loop continuamente variato, all’insoddisfazione originaria.
La Genesi dell’infelicità con tutti i suoi tracolli, in GMGS, è esplosa in tanti punti di vista e linguaggi: prima il racconto per flash e poi i disegni, una canzone, i cartelli… E poi, ancora, una novella Eva, immersa in un giardino idilliaco (un ritaglio di giornale proiettato a parete) che si anima man mano di uccellini (buttati sul foglio); ma la noia e la volontà di crescita è parte dell’animo umano, così arrivano un cane, un cocktail, una lavatrice, lo stereo… Fino a trasformare il giardino in un party in un appartamento di lusso e la fischiettante Eva in un’aspirante Madonna alle prese col karaoke de La isla bonita, che finisce sommersa da un terremoto di pillole. L’invenzione performativa, anche in questo caso, è tanto semplice quanto efficace: Codice Ivan prepara un’animazione live, in cui la performer interagisce con ritagli di giornale e oggetti proiettati nello spazio, dando vita a un divertente cabaret postmoderno.

In GMGS ci sono tutti gli elementi per uno spettacolo che merita interesse e attenzione: dalle trovate drammaturgiche di cui sopra al tentativo considerevole di costruire un itinerario per il teatro politico nell’epoca di Facebook, dalle belle musiche di Private Culture a un uso originale del video e delle sue interazioni con il performer. A fronte di una ricerca drammaturgica e scenica di tutto rispetto – che sembra illuminare, attraverso la maturazione di alcuni punti, anche nuclei presenti nel lavoro precedente della compagnia – l’unico rischio è proprio quello della condizione postmoderna, tanto decostruita e ricostruita in scena: GMGS non osserva un andamento evolutivo (lineare, rizomatico o caotico che sia), ma, come appunto nella tradizione dell’estetica secondonovecentesca, propone una serie di (pur interessanti e divertenti) variazioni sul tema. Sembra presentarsi come un lavoro “a tesi” in cui, a partire da un dato iniziale, ne vengono successivamente esposte le possibili declinazioni, certo ironiche e intelligenti, reiterando il senso e il modo di quella intuizione primaria. Il rischio della didattica, in tale modalità compositiva, è dietro l’angolo: non solo per l’utilizzo della lavagna (e del modo esplicativo più che narrativo con cui si presenta) o per l’ammiccamento ai cortocircuiti della tautologia, ma soprattutto, appunto, per la potenza del ventaglio di ipotesi di variazioni sul tema che costituiscono la struttura drammaturgica del lavoro. Qui, come si è visto, si esprime una gran ricchezza di opzioni e invenzioni, sceniche e non, ma, compresse come sono a riproporre e ripetere, ognuna a suo modo, la partitura concettuale di fondo, il rischio è quello di omogeneizzarle fra loro e appiattirne le specificità.

Va segnato, ad ogni modo, che GMGS, contiene delle idee (a livello scenico e concettuale) di tutto interesse e, se considerato in relazione agli altri lavori della compagnia (il Premio Scenario 2009 Pink, Me & The Roses e Tank Talk, una performance urbana in cui si ripetono i fatti di Piazza Tienanmen), sembra indicaredelle linee di sviluppo verso cui Codice Ivan sta concentrando le proprie attenzioni: si tratta forse di un lavoro-soglia, di uno spaccato vivacissimo estratto da una ricerca tutta da farsi, capace di tirare le fila dell’indagine sperimentata fin qui e, allo stesso tempo, di indicarne possibili intenzioni. Si può dire che il vero punto di forza del lavoro sia proprio questo: la capacità di portare in scena dei processi ancora in lavorazione, con tutta la vitalità di una ricerca tanto viva quanto solida nelle sue fragilità, che ancora ribolle intorno alla attuale condizione umana.

Visto a Short Theatre 2011, Roma

Roberta Ferraresi