spettacoli teatro milano

Alice cartonata per Bruni e Frongia

Recensione a Alice Underground – di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia

Sono passati esattamente 150 anni da quando il matematico e scrittore inglese Charles Ludwige Dodgson regalò alla figlia di un amico un libro illustrato dal titolo Le avventure di Alice sottoterra. Negli anni successivi, dopo averlo rivisto e corretto, decise di darlo alle stampe con lo pseudonimo di Lewis Carroll. Da allora non si contano le traduzioni, versioni cinematografiche e animate, illustrazioni, musical, canzoni e rivisitazioni di una delle storie più belle e visionarie per bambini e adulti. Una fiaba che è un viaggio in una realtà surreale regolata da leggi assurde e paradossali, in cui tutto è possibile e il nonsenso regna sovrano, tra giochi di parole, figure retoriche e allusioni esilaranti.

foto di Luca Piva

Eppure Alice Underground, spettacolo scritto, diretto e illustrato da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, in scena fino al 31 dicembre all’Elfo Puccini ha lasciato a bocca aperta anche il pubblico più esigente.

Proprio come Alice, annoiata dai libri senza figure e dialoghi, anche gli spettatori finalmente si entusiasmano per i 300 disegni ad acquerello fatti meravigliosamente a mano da Bruni – in vendita, sul sito del teatro, da 50 ai 150 euro e molti già acquistati – animati a computer da Frongia e proiettati su un fondale bianco che non è soltanto scenografia ma crea in buona parte l’atmosfera psichedelica e sinistra in cui gli attori agiscono.

Uno spettacolo  capace  di unire il fascino della narrazione a quello delle raffinate immagini, a cui si aggiungono le ottime capacità interpretative di “attori di carne” – dotati di maschere, sempre disegnate a mano, e amplificatori per la voce – e una gran dose di fantasia, quasi fosse un enorme e mastodontico libro pop-up di Robert Sabuda dai magici effetti speciali in cui i personaggi prendono vita, parlano e cantano rumorosamente.

Fin dall’accendersi del proiettore, il pubblico è trasportato in un mondo fantastico, quasi bidimensionale – e non potrebbe essere altrimenti, visto che anche le maschere sono disegnate su cartoncino – che finisce per risucchiarlo all’aprirsi delle finestrelle sagomate sul fondale, quasi entrasse direttamente nella fiaba.

foto di Luca Piva

E appare evidente come il clima divertito che avvolge il pubblico parta proprio dal palcoscenico in cui una vivace e curiosa Alice, interpretata da un’impertinente Elena Russo Arman pienamente nel ruolo, con ai piedi il più classico dei modelli di sneakers da preadolescente, precipita nella tana del coniglio bianco e inizia un vorticoso e coloratissimo viaggio in un’altra dimensione.

Ci si appassiona così ai personaggi che si susseguono a ritmo incalzante, in totale 24, tutti interpretati da un affiatato trio d’attori che si muove per lo più orizzontalmente sulla scena: uno stoico e sprezzante Brucaliffo dall’accento napoletano, un saccente e ostinato Humpty Dumpty (entrambi interpretati da Ferdinando Bruni), ammiccante nel dichiarare “le parole che io uso significano esattamente ciò che io decido, nè più nè meno”;  e ancora una regina bianca svampita e naive, interpretata da Ida Marinelli, che al grido di “marmellata domani e marmellata ieri, ma mai marmellata oggi” conquista la platea, fino allo sprovveduto ed esilarante cavaliere bianco, interpretato da Matteo De Mojana, anche arrangiatore di tutte le musiche – dai Beatles ai Pink Floyd – in chiave “underground” e dal vivo.

“Anche noi abbiamo ripercorso – spiegano gli autori nelle note di regia – la “moltezza” delle suggestioni di questo testo per mettere in scena quella realtà insensata, sospesa e sovvertita che Alice incontra nel suo sogno. Con tutti i mezzi che ci offrono l’artigianato di scena e la tecnologia dei video – che qui abbiamo usato come una moderna e fantasmagorica lanterna magica… per giocare con un teatro “fatto a mano” che ci aiutasse concretamente a ritrovare la dimensione dell’infanzia”.

Così Bruni e Frongia si divertono con l’uso apparentemente sensato di parole insensate e quello e apparentemente insensato di parole sensate, raggiungendo un’imprevedibile e gustosa sintesi che, citando ironicamente la stessa Alice, “sembra riempirmi la testa di idee, solo che non so esattamente quali”.

Senza dubbio capace di appagare la necessità di evasione, come lo stesso Carroll auspicava.

Visto al Teatro Elfo Puccini, Milano

Maddalena Peluso

Exister_12 Revolution

Exister_12 Revolution
14 – 16 dicembre 2012

Venerdì 14 dicembre
FABBRICA DEL VAPORE
ore 19.00
MOSTRA video dance moving virtual bodies
INCONTRO su Nigel Charnock
condotto da Maria Luisa Buzzi

ore 20.30 PERFORMANCE
Compagnia Lubbert Das
Beech, against intolerance(?)

Nicola Galli
O | proiezione dell’architettura ossea – Selezione AnticorpiXL

Sabato 15 dicembre
DANCEHAUS
ore 11.00
INCONTRO su centri coreografici e residenze

ore 16.00 e 17.00
PERFORMANCE
Compagnia TPO
Kindur – spettacolo per bambini dai 5 anni in su

ore 21.00 PERFORMANCE
Annalì Rainoldi
Diataraxia Noctuidae – Selezione AnticorpiXL

Helen Cerina
Du liebst mich zu viel – Selezione AnticorpiXL / Vetrina Matilde a Exister

Jan Martens
A small guide on how to treat your lifetime companion

Domenica 16 dicembre
DANCEHAUS
ore 20.30 PERFORMANCE
Francesca Gironi e Pamela Stortoni
The girl is missing – I don’t know who I am – Selezione AnticorpiXL / Vetrina Matilde a Exister

ore 21.00 PERFORMANCE
Compagnia Lubbert Das
1 1

7-8 chili
Replay – Selezione AnticorpiXL / Vetrina Matilde a Exister

Alessandro Sciarroni
Joseph – Selezione AnticorpiXL / Vetrina Matilde a Exister

 

INFORMAZIONI e PRENOTAZIONI
www.exister.it
prenotazioni@exister.it
telefono +39 334 9985224

LUOGHI
Fabbrica del Vapore
via Procaccini 4, 20154 Milano
Ingresso – gratuito

DanceHaus
via Tertulliano 70, 20137 Milano
Ingresso – intero – 15 euro
(scuole danza, over 60 – under 26) – ridotto 10 euro

Lotta di negro e cani secondo Renzo Martinelli: la notte oscura dell’umanità

Recensione a Lotta di negro e cani – regia di Renzo Martinelli

foto di Lorenza Daverio

Sospesi e precari su una struttura di tubi innocenti a sbirciare in basso, nell’indefinito ring in cui si svolge la scena, livida e feroce come le contraddizioni che lì si rappresentano.

Renzo Martinelli, regista e direttore artistico del Teatro i di Milano, concepisce una suggestiva e convincente messinscena per Lotta di negro e cani, uno dei testi più allarmanti del francese Bernard-Marie Koltès. Rappresentato per la prima volta nel 1983 da Patrice Chéreau, che rivelò il talentuoso drammaturgo al mondo, è stato affrontato in Italia tra gli altri da Giampiero Solari con la memorabile interpretazione di Remo Girone nel 2002 fino all’affascinante versione di Teatrino Giullare, proprio nella stagione del Teatro i, uno spazio che da anni ormai si distingue a Milano per un cartellone audace e proposte sempre nuove.

Non è da meno questa nuova produzione, realizzata in collaborazione con Face à Face – Parole di Francia per scene d’Italia e Institut français Milano, progetto che promuove la drammaturgia francese contemporanea nel nostro Paese.

Al centro di una narrazione decisamente scarna di eventi, come nello stile di Koltès, c’è la restituzione di un cadavere, tematica cara nella tragedia classica, in cui il diritto di seppellire i propri cari è un atto di legittimità divina riconosciuto anche nelle guerre più cruente. Ma in questa storia non c’è guerra. Siamo in un cantiere francese nell’Africa nera in cui muore un operaio indigeno: il fratello, un severo e inquietante Alfie Nze, portatore di valori ancestrali, ne richiede il corpo gettato nelle fogne dal nevrotico e disgustoso ingegnere Cal, (interpretato da Rosario Lisma) che ne ha causato la morte.
A mediare a modo suo è il direttore del cantiere, Horn, interpretato da Alberto Astorri, tronfio e tuttavia consapevole della propria grettezza, che partecipa suo malgrado a un conflitto insanabile tra un bene presunto e un male sconosciuto.
Ottima interpretazione per Valentina Picello, nei panni di una delicata e umanissima Lèone, sprovveduta ragazza venuta da Parigi che pagherà per i suoi buoni sentimenti.

Martinelli si concentra particolarmente sull’interpretazione degli attori e riesce a ricreare quel clima allarmante, violento, degradato in cui la narrazione si svolge con continui richiami visivi e sonori. Tolto qualsiasi riferimento esotico al continente nero, restano l’impalcatura di un ignoto cantiere e gli uomini che lo abitano, dispotici e arrabbiati, divenuti ormai bestie e pronti a scannarsi per la sopravvivenza.
La scena ricreata sotto i piedi degli spettatori fa sprofondare la storia in un oscuro ventre in cui, secondo le intenzioni registiche, «l’ Africa dovrebbe farsi orizzonte abbastanza ampio da comprendere tutta l’umanità». Infatti, scrive Koltès: «Lotta di negro e cani non ha affatto come argomento l’Africa e i negri; non racconta né il neocolonialismo né la questione razziale. Non ha certo alcun messaggio da trasmettere. Parla semplicemente di un luogo del mondo. A volte incontriamo dei luoghi che sono non dico delle riproduzioni del mondo intero, ma una sorta di metafora della vita, o di un aspetto della vita, o di qualcosa d’altro che ci sembra importante ed evidente».
Così nella lotta di uomini-bestie e negri definiti “bubù” (nelle passate versioni italiane erano “bongo”), arroganti e ritenuti capaci soltanto di sputare fino a inondare il mondo, sembrano annegare i valori umani.

E ancora ululati in lontananza, neon intermittenti, voci fuori scena (o comunque fuori dal campo visivo degli spettatori), suoni metallici ed esplosioni ben ricreano quell’atmosfera cianotica e inutilmente violenta che è alla base del testo, sicuramente un po’ datato ma che conserva ancora intatta tutta la sua forza drammaturgica.

Visto al Teatro i, Milano

Maddalena Peluso

A lezione di Maieutica con Pessoa

Recensione a Il banchiere anarchico – regia di Marina Spreafico

foto di Giacomo Tincani

Flusso di persone all’entrata: il pubblico si accomoda su rigide sedie nere e, senza quasi badarci troppo, si trova seduto attorno ad un tavolo, sotto ad un lampadario in vetro bianco in perfetto stile rococò veneziano. Il palco è nascosto da un drappo di velluto rosso. La scena si sviluppa nel mezzo della sala: un lungo tavolo nero ricoperto di carta da rotocalco irrompe a zig-zag lo spazio solitamente dedicato al pubblico; in questo modo le persone che assistono allo spettacolo prendono parte attiva, partecipando come comparse e divengono così clienti di un lussuoso ristorante.

La regista de Il banchiere anarchicoMarina Spreafico, ha sapientemente rielaborato il testo in prosa del poeta Ferdinando Pessoa, scritto e pubblicato nel 1922. Si tratta di un testo di stampo filosofico e politico non certo facile, ma abilmente tradotto e reinterpretato dagli attori Mario Ficarazzo, nella parte del banchiere, Mattia Maffezzoli, un giornalista e Vanessa Korn nell’allegoria dell’Anarchia. Il protagonista – Mario Ficarazzo –, dirige come un maestro i giovani attori in scena che lasciano intravedere la loro preparazione artistica ancora work in progress, ma le piccole imperfezioni tecniche di timbri vocali non vanno a smorzare lo scambio di battute e di energie, che presenta un ritmo sostenuto durante tutto l’arco della diatriba sull’Anarchia.
Il gioco dialettico è perfettamente bilanciato dal piatto scenico, gli attori si muovono sulla spazio e lo plasmano abilmente. Lo scambio delle battute si basa sulla struttura del dialogo platonico: muovendosi attraverso difficili giochi di tensione dialettica, ogni affermazione è il contrario di se stessa, ogni risposta presuppone l’insorgere di un’ulteriore questione. E cosìbanchiere e giornalista tengono il pubblico impegnato e attento, e rendono l’interessante dialogo estremamente veloce e movimentato grazie ad un ulteriore espediente tecnico: il tavolo, che viene spezzato, spostato, trascinato in continuazione dagli attori. È un tavolo che va a creare situazioni scenografiche, come unadiapositiva di cambio scena,simbolo delle finzioni sociali e della rottura delle convenzioni sociali. Messaggio insito nello spettacolo reso con l’oggetto scenico.

foto di Giacomo Tincani

foto di Giacomo Tincani

Assistendo allo spettacolo di Arsenale-lab, il pubblico si rende conto improvvisamente di prendere parte allo spazio scenico, ma non solo; ben presto realizza anche che sta assistendo ad una lezione di maieutica, in cui gli attori, come arguti sofisti, stanno presentando delle verità assolute, attuali, vere, paradossali. Marina Spreafico definisce Pessoa come “una mente lucida del Novecento”; traducendolo nuovamente e reinterpretandolo in scena, rende lo scrittore portoghese estremamente attuale e vero. La verità assoluta propinata al pubblico è la finzione sociale più influente del nostro tempo: il denaro. E averne in quantità sembra essere l’unico modo per soggiogare in modo del tutto anarchico questo colosso. Il pubblico esce di scena con un sorriso ironico e con una consapevolezza nel volto che riflette i terribili paradossi del nostro tempo e di sempre, dal tempo di Platone, di Pessoa e del teatro d’oggi. «Gran finanziere, faccendiere: io sono anarchico in teoria e in pratica» afferma l’anarchico banchiere.

Visto al Teatro piccolo Arsenale, Milano

Elisa Da Rin Puppel

SEMIRAMIS: rosso su bianco

Recensione a SEMIRAMISMenoventi

 

Menoventi: temperatura e compagnia teatrale. «– 19: guardando al contrario il termometro del proprio salotto. – 18: in realtà sta a capo all’ingiù la realtà. – 17». E così via, a scalare: «il pubblico esiste? I temi ricorrenti ci rincorrono. Qui ed ora» fino allo zero «ancora un po’ freddino».

Lo spettacolo di Menoventi diretto da Gianni Farina è un crescendo di temperatura,azioni e pathos. La scena: una stanza, pareti bianche e fredde, luce al neon. Semiramide al centro fasciata di bianco, scrive per terra con le dita dei piedi: “QUI?”. Uno scatto improvviso, l’unica protagonista si alza affondando i piedi nello spazio scenico, ogni suo movimento provoca un suono sordo nella stanza completamente spoglia, si lancia contro la parete e inizia ad inciderla con scritte atroci, a completare la profezia: “Sei da violenza, violenza, e con violenza.È questo che farà durante tutto lo spettacolo: imbratterà le pareti bianche con colore carminio, con il rossetto, con il mascara, con il fondotinta, lo farà anche su di sé, sul suo viso. Il pubblico assiste a questo stupro volontario, della donna e delle candide pareti proiezioni del proprio io di una Semiramide imprigionata dentro uno spazio vuoto che diviene la culla delle sue paure e perversioni, rimembro del suo passato indelebile.

Lo spettacolo SEMIRAMIS prevede che il pubblico conosca già la storia: il mito della ninfa Derceto violentata da un cacciatore, il mito di una bellissima figlia rinchiusa per vent’anni in una grotta e sorvegliata dal profeta Tiresia, poi fuggita con Menone, per divenire imperatrice di Babilonia. È un gioco di potere e lussuria, che ha insito in sé qualche cosa di sporco e perverso. È un’opera di Calderon de la Barca, drammaturgo barocco della Spagna del ‘600, autore in bilico tra fantastico e mitologico. La compagnia Menoventi sotto la direzione di Gianni Farina riesce a rielaborarne lo scritto prolisso, e a farlo scorrere senza respiro.

Lo spettacolo ripercorre le tappe del mito in modo del tutto autonomo: il pubblico assiste alla follia di una donna nata dal dolore, spia nelle stanze bianche della sua memoria. Consuelo Battiston, alias Semiramide, riesce a rendere la storia mitica dell’imperatrice completamente sola, con l’ausilio della propria immaginazione e follia. Crea delle vie di fuga sfondando le pareti, parla con se stessa, si rivolge al pubblico, ottiene risposte precise come un’eco, un battito di ciglia, un applauso indeciso, una linea rossa nel test di gravidanza: sì. “Sono sempre io”,  ghigna Semiramide.

Il pubblico non può che restare esterrefatto dalla potenza dell’immaginazione, dal continuo richiamo simbolico dei pochi oggetti presenti in scena, che si trasformano, colorano, truccano, sono creazioni della mente che storpiano la realtà. Semiramide corre verso la fuga, la soluzione dell’enigma: “Sei nata da violenza – capita. Semini violenza – qualche volta. E con violenza morirai”.

Visto a Teatro i, Milano

Elisa da Rin Puppel

Le Scimmie che mettono l’uomo a nudo

foto di Margherita Busacca

Recensione a MACCHINE. Sinfonietta per corpi e voci di Scimmie Nude

La compagnia milanese delle Scimmie Nude nasce nel 2003 ispirandosi allo studio zoologico che Desmond Morris compie sull'”animale uomo” nel famoso saggio del ’67 La scimmia nuda. Il gruppo indaga il rapporto che l’uomo ha con i propri istinti primari, i quali, nonostante l’arco evolutivo trascorso, rimangono tali e quali a quelli dei nostri “pelosi” antenati.
Non è possibile scegliere il proprio corpo, come spesso accade per il destino. È un corpo che non sempre si muove o non sta al passo come si vorrebbe, che non si può controllare, è un corpo che morirà.
Ripartendo dalla fisicità come unità di base, le “Scimmie”, con la guida registica di Gaddo Bagnoli, continuano il loro percorso sperimentale con MACCHINE. Sinfonietta per corpi e voci. Qui trovano sviluppo le dinamiche dell’animale uomo: nella nostra società, fatta di regole comportamentali, distanze sociali e ruoli apparenti, si svelano gli istinti primordiali di uomo e donna che, concretizzandosi in azioni, ne svelano anche i nascosti desideri. Lo studio va a fondo scoprendo caratteri e sentimenti, partendo dagli impulsi primari e dal loro manifestarsi concreto.

Questo è ciò che emerge dall’incontro di tre personaggi vestiti di bianco: due uomini e una donna, su di un prato verde, si guardano, si studiano, si annusano, si attraggono e respingono. Conoscono.
Con grande ironia, ma al contempo sensibile profondità, le Scimmie Nude coinvolgono lo spettatore nelle dinamiche dell’uomo, le dinamiche di ognuno, le più comuni e vere: come incontri tra estranei e relazioni sentimentali. Il corpo cerca di rimanere – o a volte rientrare – nella coreografia prefissata della quotidianità che gli è imposta, ma spesso sbaglia, perde il ritmo per poi rincorrere il tempo e cercare di recuperare. Concetto reso esaustivamente dalle partiture fisiche corali eseguite dagli attori che esprimono gli automatismi della nostra corsa all’interno dei rigidi binari della società.

foto di Margherita Busacca

L’ampia attenzione rivolta al corpo non compromette però l’ingresso della voce, che trova gradualmente la sua collocazione nel susseguirsi delle scene: inizialmente con i soli respiri, versi e smorfie, per poi nascere con le prime sincere parole, fino allo sciogliersi in monologhi, dialoghi, urla. La parola diretta svela i pensieri, i desideri e le paure propri dell’uomo. Grazie alla varietà dei molteplici quadri proposti, emergono da differenti contesti altrettante riflessioni più o meno esplicite sull’esistenza. Spesso, però, la grande varietà di linguaggi teatrali – distanti tra loro -, che trasformano il terzetto in infiniti personaggi, rischia di rallentare e inceppare il ricco svolgersi dello spettacolo.
Espressivi e flessibili i protagonisti: Andrea Magnelli, Marco Olivieri e in particolare Claudia Franceschetti che dà prova di un’ampia e duttile padronanza nell’uso della voce.

Visto al Teatro della Contraddizione, Milano.

Agnese Bellato

Oniriche visioni

Foto di Laura Arlotti

Foto di Laura Arlotti

Recensione a Sulla conoscenza irrazionale dell’oggettogruppo nanou

L’atmosfera di Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto, di e con Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, è precisa dal primo istante: come in una visione delirante – o meglio -, in un incubo, appaiono creature inquietanti, deformate, non umane. Sono due figure che, diverse tra loro, condividono lo stesso ambiente: vivendolo, esplorandolo, soffrendo e giocando. I due corpi distorti nella postura o in espressioni atroci compongono quadri che evocano gli esseri mostruosi dei dipinti di Bosch, le spalancate bocche di Bacon; sono corpi che avanzano rovesciati quasi a ricordare possessioni diaboliche, scattanti nel buio, barcollanti, striscianti nella penombra che avvolge il palco.

Le due creature, prive di un linguaggio verbale articolato a tratti, scrivono su una lavagnetta frasi sensate alternate a composizioni deliranti. Si esprimono attraverso gesti, con propri caratteristici passi e andature, con salti e cadute; oppure versi strillati, quasi rapaci, parole sussurrate e grida.  Sono creature isolate nelle proprie rispettive esistenze, vivono esprimendosi nelle loro mostruosità senza soffrire la mancanza di parola, prive di frustrazione o senso di impotenza, sono corpi pieni di energia. Ma i due esseri sembrano non rivolgersi mai l’un l’altro: qualche volta si avvicinano, forse si studiano quando sono in prossimità dello stesso luogo, ma non giungono mai ad un contatto. L’ambiente sonoro curato da Roberto Rettura scivola dolcemente in un cambiamento totale d’atmosfera con l’entrata di un caldo e umano suono di sax che irrompe nella scena. Ecco che avviene la trasformazione: lui e lei, ora uomo e donna, sono l’una davanti all’altro, pronti a ballare una danza già fredda e morta. Pochi secondi, basta uno sguardo e l’urlo straziante di lei che lo fugge sembra voler strillare la mostruosità della condizione umana e la straziante consapevolezza afferrata nell’immediatezza di un attimo.

Una nota di merito va a Rhuena Bracci che incanta e inquieta con l’espressività del suo corpo, testimone di grande studio e preparazione tecnica.  Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto è il frutto appena maturo dello studio Tracce verso il nulla iniziato nel 2007. In un linguaggio visivo e sensoriale Il GRUPPO NANOU cerca empaticamente il suo fruitore senza necessità di una narrazione razionale e propone un lavoro suggestivo, frammentario e imprevedibile come lo sono i sogni, in cui il filo conduttore non può emergere dalla superficie.

Visto al PIM Spazio ScenicoMilano

Agnese Bellato