L’Accademia degli Artefatti a metà novembre è stata a Bologna, a Teatri di Vita, con Orazi e Curiazi, ultimo lavoro della compagnia che sembra segnare una svolta: a inizio anni Novanta ha fondato un’estetica fortemente performativa legata all’immagine e, diventata poi celebre per il percorso fra gli autori inglesi contemporanei, ora affronta i drammi didattici di Brecht. Ma quello che sembra una grande novità, in realtà decanta da tempo nella modalità che la compagnia adotta nel lavoro attoriale, drammaturgico-registico e di relazione con il pubblico. Certo è che il teatro degli Artefatti sembra, oggi, più vicino a intenti politici e civili, che alle dinamiche che ne avevano caratterizzato i primi lavori. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Arcuri, che dirige il gruppo fin dalla sua fondazione…
L’Accademia degli Artefatti si è distinta, in questi anni, per un lavoro sulla drammaturgia contemporanea e, anzi, forse possiede addirittura il merito di aver importato in Italia una certa scrittura teatrale inglese: Sarah Kane, Martin Crimp, fino a Crouch e Ravenhill… Come siete arrivati a Brecht?
La verità è che siamo partiti da Brecht: circa una decina di anni fa, abbiamo sentito la necessità di cercare delle suggestioni diverse. Sentivamo che il teatro che stavamo facendo aveva raggiunto un limite: l’immagine e la dimensione di costruzione simbolica della realtà non riuscivano più a leggere il contemporaneo. Credo che nel momento in cui la realtà supera quello che simbolicamente fino a quel momento l’aveva rappresentata, non ci si può permettere – perché in fondo l’artista ha molti più doveri che diritti – di perdere quel messaggio, perché altrimenti si rischia di riflettere una realtà che non esiste già più. Come artista, penso sia fondamentale riflettere e cercare di capire quali siano le coordinate che questa realtà sta dettando. E quindi capire dove bisogna spostarsi per cercare di continuare a rappresentarla, ad apprenderne degli elementi per poi restituirli in domanda, in riflessione, in materiale di indagine.
Dunque abbiamo pensato che dovevamo fare un po’ piazza pulita. Siamo intorno agli inizi degli anni Duemila. Abbiamo cominciato a studiare, soprattutto saggi e teorie teatrali di chi era partito da un punto di vista politico e civico, nel contesto di un tentativo di utilità del teatro all’interno della società: Brecht e Pasolini, poi tutto quello che da loro è partito come Müller o Lehmann… Suggestioni e suggerimenti su come il teatro possa essere un atto politico in senso più specifico: è ovvio che un corpo in scena con un atteggiamento politico di rifiuto, prima poteva essere il suo silenzio e la sua stasi, mentre oggi dev’essere qualcos’altro. Quindi abbiamo cominciato a cercare dei testi diversi, con un duplice obiettivo: da una parte, che ci permettessero di allontanarci da un’idea di teatro legata all’immagine e al simbolo ma che, dall’altra, non rappresentassero un percorso di ricerca legato alla parola, alla narrazione. A quel punto abbiamo incontrato la drammaturgia inglese contemporanea, con autori che ci permettevano di trovare un interstizio interessante: il vuoto, la pausa tra una parola e l’altra all’interno di una narrazione non lineare che si apre su diversi livelli. Oggi siamo abituati costantemente a vivere a tanti livelli di realtà diversi: il nostro rapporto diretto con le cose è minimo e paradossalmente facciamo molte meno esperienze individuali, ma allo stesso tempo attraverso i mezzi di comunicazione veniamo a conoscenza di molte cose. Ogni mezzo, tuttavia, per linguaggio e gestione, ci racconta solo un aspetto della realtà, che è autentico soltanto nella sua parzialità: queste porzioni di realtà possono essere vere solo se riescono a tenere in considerazione anche le altre. Penso che questa sia la fatica più grande per il cittadino contemporaneo – occorre abituarsi a contenere simultaneamente tutti i livelli di realtà che si ricevono, altrimenti si rischia di avere una visione parziale – e penso che sia anche l’impegno più grande per un artista: allenare lo sguardo e il pensiero a contenere i diversi livelli di realtà che ci rappresentano.
Vorrei chiederle, se possibile, di “sbirciare dietro le quinte” del vostro lavoro, nell’atelier mentale e materiale che presiede la creazione, dalla scelta dei testi al lavoro con gli attori alla messinscena… Esiste un processo, un metodo?
No, non c’è un processo, c’è una sorta quasi di casualità. Ad esempio, quando abbiamo deciso di affrontare Brecht, perché sentivamo che era arrivato il momento di chiudere un cerchio rispetto a un certo modo di stare dell’attore nei confronti del testo e dello spettatore, non abbiamo individuato immediatamente un testo: ne abbiamo praticati diversi, scoprendo lentamente quale poteva essere rispetto all’urgenza. Quindi la scelta dei testi, si potrebbe dire, che è abbastanza casuale – e comunque mai troppo preconcetta.
Quello che chiamo “atteggiamento”, invece, fa parte di un percorso di ricerca, di affinamento e di verifica che portiamo avanti da diversi anni. Ma non è un metodo, secondo me non esiste un metodo – anche se, in effetti, ha una presenza molto forte.
Chiedo agli attori di avere un atteggiamento molto preciso: per me è impensabile che, dovendo entrare in comunicazione con il pubblico, l’attore parta sapendo di più dello spettatore, per cui chiedo sostanzialmente un azzeramento e di credere alla più piccola cosa possibile, senza mai dare nulla per scontato. La cosa più piccola a cui si può credere, chiaramente, è a se stessi come persone e alla relazione che si instaura in quel momento. Da qui comincia una verifica del testo, che si sviluppa attraverso la griglia della possibilità o meno di aderenza: per me è fondamentale che gli attori abbiano una responsabilità molto grande, quella di aderire o meno a quello che stanno dicendo, in funzione di quello che sta succedendo in quel momento e di quello in cui credono veramente. Si tratta di mantenere, per l’autore, la possibilità di esprimere se stesso, ma al contempo conservare la medesima opportunità per gli attori. È fondamentale rispettare le parole, ma i sensi, siccome non è dato saperli, si aprono nell’azione.
I modi di aderenza al testo, ovviamente, vanno anche comunicati allo spettatore – questo è un atteggiamento riconoscibile per chi vede i lavori degli Artefatti. È un atteggiamento che rifiuta un’interpretazione di carattere interiore o neutrale: dico delle parole perché devo o perché ci credo; le dico, certo, perché devo, ma nel frattempo all’interno ci finisce tutto quello che succede, compreso magari il fatto che non ho voglia di dirle. È chiaro, poi, che andiamo a cercare dei testi che in qualche maniera lo consentono. Poi, ogni volta che si affronta un testo, occorre capire con chi ce l’ha l’autore, chi sta facendo parlare con chi, la costruzione della triangolazione col pubblico…
Questo è il tipo di lavoro che facciamo: la forma e il modo con cui affrontiamo ogni lavoro risulta sempre come conseguenza dell’attivazione di questi meccanismi, di queste chiavi di indagine del testo.
Per tornare al discorso del pubblico: il teatro di Brecht, oltre a un radicale modello d’attore, propone una altrettanto forte riflessione sul ruolo dello spettatore… Che tipo di relazione intendete fondare con il pubblico?
Ho sempre in mente un passaggio del manifesto di Pasolini in cui dice che gli attori non vogliono dare scandalo presso gli spettatori, ma che il pubblico è complice. Penso sia un po’ la nostra utopia: cercare un rapporto di complicità dialettica. E credo anche di onestà, dando allo spettatore la possibilità di vedere la costruzione del percorso, non lasciandolo mai nella possibilità di non sapere.
Ci sono passaggi di Orazi e Curiazi in cui è impossibile stabilire se la Didascalia serva a descrivere gli eventi che accadono o se sia essa stessa a crearli. Questo ci porta al territorio dei rapporti fra teatro e realtà: il teatro rappresenta quello che succede o forse lo produce anche?
In Orazi e Curiazi, ci sono due ordini di didascalie: la prima indica cosa devono fare gli attori, l’altra commenta ciò che è successo. Sempre nel contesto di un rapporto di onestà col pubblico, abbiamo deciso di rivelarle entrambe, mettendo lo spettatore a conoscenza che Brecht opera questa doppia modalità, di come l’attore si rapporta alla descrizione di quello che sta accadendo e, d’altra parte, di come dovrebbe reagire.
Pensare che il teatro possa da un lato descrivere la realtà e dall’altro modificarla sia una grande utopia di Brecht. Ma che l’arte possa trasformare la realtà credo sia un punto fondamentale: se in qualche modo potesse non essere vero, staremmo tutti perdendo seriamente del tempo.
Nelle note allo spettacolo, si legge una citazione da Jean-Luc Nancy sul concetto di contemporaneo: idea che, sganciata dal radicamento cronologico, consiste in «qualcuno del quale riconosciamo che la voce, o il gesto»… Chi considera suoi contemporanei?
Abbiamo scelto quella citazione proprio perché mette in crisi il concetto di contemporaneo e di attualizzazione, in cui non crediamo più di tanto: ci sono cose che mi colpiscono, dandomi la possibilità di aprire un pensiero e una riflessione. Sono elementi disseminati nelle diverse epoche, e poi dipende anche dal momento: se mi avessi fatto questa domanda quindici anni fa, avrei detto Bacon o Deleuze, figure importanti da cui raccoglievamo molte suggestioni. Oggi, per motivi molto diversi e senza per forza condividerne anche l’estetica, potrebbero essere Beuys o Cattelan, è molto difficile. Il gusto personale è un elemento che non faccio entrare in gioco e l’approccio emotivo mi dà fastidio, perché, se non è funzionale, credo sia un metodo un po’ pornografico, che è sempre una trappola. Credo che in questo momento le persone che sento più vicine siano quelle che lavorano nell’onestà e nel rivelare, per quanto possibile, i meccanismi e non abusarne per farne delle armi di seduzione.
Roberta Ferraresi