Recensione di A puerta cerrada – di Serge Nicolaï
Tre personaggi morti si comportano come vivi e, chiusi in una stanza, senza conoscersi, raccontano le loro esistenze mentre ne vedono sgretolarsi gli ultimi barlumi vitali. Così, in eterno. È la trama di Huis Clos di Jean-Paul Sartre, messo in scena, durante il Festival Vie di Modena, nella sua versione argentina A puerta cerrada.
Il filosofo tesse le fila dell’ennesima ragnatela drammaturgica senza uscita, in una giostra di parole vorticose, portate da personaggi biograficamente connotati che possiedono un passato, enunciano concetti, ma soffrono subendo l’impossibilità della loro applicazione in quel tempo-non tempo, spazio-non spazio che è l’inferno. Non una condizione in cui rappresentare sulla scena l’uomo che compie scelte affermando la propria libertà, ma una situazione estrema in cui la morte corrisponde all’impossibilità di prendere decisioni che orientino un futuro che non c’è. «L’inferno sono gli altri», dice una famosa frase del testo, divenuta rappresentativa di una certa corrente dell’esistenzialismo, ma è anche l’assenza della Storia che rende di conseguenza impraticabile l’autonomia di una scelta di libertà.
Nel testo di Sartre ci sono Pirandello e gli sguardi di Mattia Pascal, ci sono Beckett e l’esasperazione della logica, ci sono Brecht e le necessità della storia, ma, soprattutto, c’è lo stallo dell’azione. Così, sulla scena, non succede nulla, se non azioni piccole e senza conseguenze, violenze verbali mostruose ma senza ripercussioni, perché la colpa maturata in vita impedisce qualsiasi movimento in avanti. Solo l’iniziale, apparente disinvoltura dei personaggi – Garcin (Nikolas Sotnikoff), Inés (Maday Méndez), Estelle (Josefina Pieres) – si evolve diventando una disperazione profonda e senza via di scampo. «Io sono il pensiero che ti pensa», dice Inés a Garcin sintetizzando la disumanizzazione progressiva alla quale Sartre condanna gli uomini.
Questo è il testo che, alla lettura mentale, risulta, a tratti, antiquato, anacronistico, lento, seppur con delle appassionanti tirate monologiche e dei, tutt’altro che scontati, riferimenti didascalici alle traiettorie fisse disegnate dagli attori, ma, in conclusione, un testo da pagina, “a tavolino”.
La scena dello spettacolo è semplicissima: tre pareti grigie circoscrivono l’area in cui possono muoversi gli attori, tre sedie sono l’unico oggetto presente insieme a un campanello che funziona in modo imprevedibile e alla porta che, immancabile, divide questo interno (nel testo, un interno borghese) dall’esterno. Un inserviente conduce i tre personaggi, uno alla volta, nell’antro infernale dall’apparenza innocua. I tre iniziano a dialogare, a definire i rispettivi ruoli, si raccontano, mentono agli altri e a se stessi, finché l’inferno non li inghiotte in una sincerità inevitabile. Garcin, Inés, Estelle si confessano specchiandosi negli occhi altrui, in quei pensieri che li penseranno in eterno e si rivelano per quello che sono realmente. Garcin è un codardo mascherato da pacifista, Inés è una donna meschina nei panni di una libertina, Estelle è una bambina dai capricci crudeli che si è finta signora per una vita. A scandire questo tempo che non c’è, le note sceltissime e incalzanti di Jean-Jacques Lemêtre – storico compositore del Théâtre du Soleil.
La messa in scena è essenziale, quasi assente, il testo, come si è detto, una drammaturgia dai toni classici. Ciò che rende vivo lo spettacolo è quella relazione fondante, la stessa che, a volte, si dimentica o si sbilancia in rapporti squilibrati, tra il regista e i suoi interpreti: un attore alla guida di attori. Serge Nicolaï, dalla Cartoucherie di Arianne Mnouchkine, ha tenuto un laboratorio a Buenos Aires con gli attori della compagnia di Claudio Tolcachir Timbre 4 e da questa felice collaborazione è nato A puerta cerrada, su un testo francese, diretto da un francese, con attori argentini che recitano spagnoli di diversa provenienza (da Buenos Aires alle Canarie). Nicolaï è di una modestia luminosa quando, durante l’incontro che segue lo spettacolo, afferma che l’unica cosa che conta sono gli attori e le loro reazioni alle condizioni date – non molto più di una sedia scomoda e di un’indicazione di intenzione – perché il loro lavoro è un rito in atto che si compie sotto gli occhi di tutti. Serge sorride sincero, mentre li ringrazia senza buonismo e rifiuta – con fare un po’ semplicistico ma genuino – le interpretazioni intellettualistiche del testo o del suo taglio di regia. Lavorare, per gli altri, con gli altri, con una dose moderata di narcisismo e l’assenza totale di individualismo, come insegna il modello della creazione collettiva.
Se, in Huis clos l’inferno dell’uomo sono gli altri, in A puerta cerrada gli attori all’inferno fanno da antidoto e se, nel primo, la relazione vincola e ingabbia, nel secondo è fonte di aperture e possibilità. Il testo diventa uno spazio, un argine di cui servirsi in modo funzionale e, pur rimanendo nei suoi confini formali, di cui negare i contenuti, per renderlo parte integrante di un processo creativo che nasce e si porta avanti insieme.
Visto al Teatro Pubblico di Casalecchio di Reno, Vie Scena Contemporanea Festival
Nicoletta Lupia