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Ulderico Pesce e l’immortalità dal teatro – storia di un anarchico

Recensione a L’innaffiatore del cervello di Passannante – di e con Ulderico Pesce

foto di Giulio Malatacca

Nel 1878 l’anarchico repubblicano Giovanni Passannante attentò al re Umberto di Savoia. I monarchici e la nazione, indignati, gridarono al tentato omicidio. In realtà il pover’uomo di Salvia di Lucania si armò di un coltellino, buono per sbucciare le mele, con l’intenzione di sfregiare il sovrano. Per ricordargli delle cicatrici inferte al popolo lucano, con l’emanazione di leggi d’esproprio delle terre ai contadini. Le terre levate alle mani dei coltivatori e consegnate ai baroni.

Fu condannato a morte, nonostante la giustizia di allora prevedesse l’esecuzione in caso di omicidio. Pena commutata all’ergastolo, in condizioni disumane: incatenato in una cella alta un metro e cinquanta (la statura di Passannante superava il metro e sessanta) a vincoli che gli permettevano di fare un solo passo. Impazzì, e morì in un manicomio. Per la giustizia. Per avere difeso una giusta causa a nome di un popolo intero. Per un ideale. I resti del “criminale”, come fu etichettato da enormi studiosi, si conservano a Roma nel museo criminologico.

Museo ricreato, quale ambiente scenografico, nello spettacolo di e con Ulderico Pesce L’innaffiatore del cervello di Passannante andato in scena venerdì scorso al Teatro Franz di Portapiana. Evento eccezionale, la prima volta, di questa messinscena, a calcare le scene in Calabria. Eppure Pesce è uno dei massimi esponenti del teatro di impegno civile in Italia, e probabilmente proprio questo spiega come mai non recita nella nostra regione. «Forse è meglio non far sentire la mia voce da queste parti» – ironizza prima dello spettacolo – «Qui si è abituati a non far sapere niente alla gente».

La rappresentazione dura un’ora e dieci. Di commozione, sottile ilarità, documentazione storica, tratteggio da attore navigato, all’italiana, sovrapposizione millimetrica finzione/realtà. Nessun sipario sulla scena, si osserva il vero. Dipanato tuttavia da una stesura di teatro di narrazione, dove il plot fabula intreccio è asse portante della chiave di lettura dell’inscenato. Pesce fa raccontare le vicende dell’insurrezionalista a un piantone (carabiniere) della sua teca – in scena con tanto di cranio e cervello. Pretesto alla centralità dell’andare scenico, è l’innamoramento del carabiniere per una visitatrice interessata alla storia dell’anarchico. Innamoramento che sarà motivo risolutivo, nella decisione dei due di dare sepoltura all’eroe, trafugandolo e riportandolo in terra natìa, ispirati dall’Antigone. Riconoscimento al teatro che si fa carico e mezzo della più giusta “legislazione” tra gli uomini. E consegna all’immortalità, chi è stato privato ingiustamente della dignità della propria vita. E della propria sepoltura. Testualmente, la semantica drammaturgica s’attiene a canoni di vocazione popolare, considerata l’estrazione sociale del narrante, risultando efficace e d’immediata partecipazione. La regia ondeggia tra il classico “portamento” del teatro di denuncia al commediante andirivieni in prima persona: diretta, pochi sottotesti, incisiva. Superba la prova d’attore.

Dibattito a fine scena, tradizione nel teatro “impegnato” di Portapiana, e dichiarazioni scottanti di Ulderico Pesce: «il teatro italiano è gestito dalla malavita istituzionale. In questo teatro la malavita istituzionale non c’è, al Rendano sì. Quando mi farò la tessera dell’Udc, mi chiameranno anche lì». È la forza del teatro. D’urto.

Visto al Franz Teatro di Portapiana, Cosenza

Emilio Nigro

Pubblicato su Il Quotidiano della Calabria