Triangolo Scaleno Teatro

Singolare/Plurale: pratiche, indagini, movimento

Che cosa c’è dietro la parola comunità? Qual è l’urgenza, oggi, di fare un festival? Cosa si intende per cultura? È partita da questi interrogativi Roberta Nicolai, direttore artistico di Triangolo Scaleno Teatro, di Teatri di Vetro, e attualmente Presidente C.Re.S.Co., per dare vita a Singolare/Plurale. Un progetto che parte da un quartiere popolare di Roma e dalla nuova sede di Triangolo Scaleno Teatro, la Biblioteca Vaccheria Nardi, per tentare di comprendere il senso di identità e di appartenenza. Una “piazza di creazioni multidisciplinari, saperi, narrazioni individuali e collettive” per indagare il gesto individuale e quello collettivo. Un mese tra i palazzi e le strade di Tiburtino III, che ha visto alternarsi le azioni di fotografi e fumettisti, e gli incontri con gli abitanti, le Carrozzerie n.o.t, che hanno accolto gli ospiti internazionali, Miguel Bonneville e Marie Lelardoux, e il Teatro Brancaccino, dove il 25 febbraio avrà luogo una jam session teatrale, Absolutely live. Una lettura del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, con drammaturgia di Francesca Macrì, e con Lorenzo Acquaviva, Elena Arvigo, Roberto Corradino, Giandomenico Cupaiolo, Nicola Danesi, Roberto Latini, Valentina Picello, Lorenzo Profita, Roberto Rustioni, Federica Santoro, Andrea Trapani. «Il gioco dei giochi. L’azzardo degli azzardi», come ci racconta Roberta Nicolai.

Singolare Plurale«Il talento, le competenze, le sensibilità individuali entrano nel gioco collettivo. Con la jam session si copia la musica, non si interpone la zona delle prove, si vanifica la regia, si fanno una serie di azzardi. Francesca Macrì ha scritto la drammaturgia, riducendo il testo di Shakespeare, Gianluca Stazi, sound designer, registrerà il live, che sarà scaricabile su Liber Liber. Gli attori, che ricevono il testo 48 ore prima, insieme a un piccolo eptalogo, saranno tutti sullo stesso piano».

Quindi non mostrare un prodotto finito, ma concentrarsi sul processo?

«Restituire in tempo reale, vedere cosa succede. L’arte è sempre un rischio. Anche Tout est calme (trop) di Marie Lelardoux (presentato alle Carrozzerie n.o.t. il 15 febbraio, ndr), studio di un lavoro che debutterà a Marsiglia, mostra il processo. Mentre MB#6 di Miguel Boneville (realizzato anch’esso alle Carrozzerie n.o.t., ndr) è un flusso diaristico, autobiografico, un’indagine sull’identità. Se Teatri di Vetro dà risalto alla scena nazionale, qui si dà spazio all’internazionale. Ma anche per il festival, che quest’anno sarà probabilmente a settembre, mi piacerebbe avere un progetto di cooperazione, organizzare residenze. Toccare diversi paesi significherebbe avere un orizzonte ulteriore».

E parte proprio da Teatri di Vetro, la riflessione sull’esigenza, o meno, di fare festival…
«Mi chiedo che statuto abbia un festival oggi, rispetto alla confusione che si è creata e rispetto alla debolezza della creazione contemporanea, che io percepisco. Sono sempre più spaesata rispetto alla necessità di fare un festival: per mostrare cosa? Teatri di Vetro, nel 2007, nasceva dall’esigenza, anche politica, di tutelare una scena, sotterranea, underground, a Roma molto forte in quegli anni, che non c’è più. Inoltre un festival apre un tempo straordinario, convulso, ma ciò che veramente non ci prendiamo è il tempo ordinario. Adesso è proprio di tempo ordinario che abbiamo bisogno, anche per capire cosa c’è dietro la parola cultura. Devo capire cosa significa, oggi, cultura contemporanea. Devo chiedermi che cosa c’è dietro la parola comunità, comunità diffusa, comunità artistica, comunità del quartiere, per chi è nomade, per chi, come noi, ha cambiato luogo molte volte, da Strike al Palladium alla Vaccheria Nardi. Perché il luogo non è neutro».

L'affissione dei fumetti realizzati durante il laboratorio con Manuel de Carli

L’affissione dei fumetti realizzati durante il laboratorio con Manuel de Carli

Non senti, in questo momento, l’appartenenza a una comunità?
«Non so se sia possibile, ancora oggi, in una città come Roma, attivare delle piccole comunità e se quella artistica sia realmente una comunità. È chiaro che dopo tutti gli anni consumati in questo ambito, le mie relazioni sono quasi tutte lavorative. È chiaro che sento un’appartenenza, ma va alimentata, rimessa in discussione, non data per scontata. Non voglio mantenere delle posizioni, le voglio trasformare, le voglio cambiare, perché sento che la realtà muta continuamente. E credo che se vogliamo stare in qualcosa che continuiamo a definire contemporaneo dobbiamo stare in un ascolto costante».

Singolare/Plurale nasce da quest’esigenza?
«In qualche modo sì. Anche dietro la parola comunità stanno tanti significati. C’è il quartiere nel quale siamo arrivati, alla Biblioteca Vaccheria Nardi abbiamo trovato la bellezza, e pensato immediatamente di fare qualcosa a Tiburtino III. Poi è arrivato il bando Roma Creativa ed è stato proposto il progetto. I primi gesti di Singolare/Plurale sono legati a quel luogo e a quel quartiere».

Con quali attività?
«Diverse. I primi a essere intercettati sono stati gli anziani, con gli incontri tenuti da Francesca Macrì. Hanno la memoria del quartiere e una predisposizione all’oralità veramente straordinaria. Abbiamo pensato di far incontrare questi nonni, poi, con i bambini di una scuola elementare, per far raccontare ai primi le storie di un quartiere che ha avuto anche movimenti collettivi molto forti. È un gesto individuale che intercetta un gesto collettivo, un gesto artistico che intercetta una comunità che lo accoglie, e lo modifica. Manuel De Carli ha fatto un laboratorio sul fumetto con allievi del Liceo artistico. Ha lavorato drammaturgicamente su piccole storie, legate alla loro vita nel quartiere, e le 42 tavole prodotte saranno attaccate sulle pareti dei palazzi popolari, con la volontà di restituire le esperienze individuali in un contesto collettivo, infatti l’azione s’intitola ‘questo muro è una pagina bianca’. Alcuni fotografi hanno fatto ritratti al mercato rionale, sia ai clienti che ai commercianti, ritratti che saranno montati in alcune slide e rivisti quindi dai protagonisti. È un’indagine fotografica sul volto del quartiere, un gesto locale che diventa plateale».

E un gesto teatrale. L’interesse ultimo resta sempre la scena?
«Sempre. Continuerò a indagare cosa c’è dietro la parola teatro tutta la vita, e a cercare di capire che animale è, dove si muove, dove si sposta».

Roberta Nicolai durante la tavola rotonda "La creazione contemporanea e il reale"

Roberta Nicolai durante la tavola rotonda “La creazione contemporanea e il reale”

C’è una dimensione pratica, dunque, ma anche una direzione teorica. Cosa ci dici della tavola rotonda del 16 febbraio, del secondo appuntamento de La creazione contemporanea e il reale?
«L’incontro fra teorici e artisti mi interessa molto, è l’incontro tra due sguardi diversi. Il primo è stato a Teatri di Vetro 2014, ne sto programmando un terzo, per la prossima edizione del festival, inoltre c’è un progetto di pubblicazione con Editoria & Spettacolo. Un altro momento teorico è quello del 26/27 febbraio all’Opificio, Utopia or Looking for the Ideal Country, un meeting per ragionare sulla caduta dell’utopia, perché la carenza utopica della nostra società è quasi un sintomo di pochezza spirituale».

Carrozzerie not, Brancaccino, Opificio, ma la conclusione è a Tiburtino III.
«Sì, nel mercato. Abbiamo chiesto a chiunque di venire a insegnare qualsiasi cosa sappia fare, per dare a quel tempo una declinazione. Bisogna dare al tempo ordinario modalità di espressione. Con la locuzione “essere singolare plurale” Jean-Luc Nancy legge la realtà contemporanea, e io ho voluto sottolineare l’idea del movimento che questa locuzione aperta suggerisce: la realtà si può leggere dal singolare al plurale e dal plurale al singolare. Il nostro gesto singolare è sempre plurale, perché siamo immersi dentro un contesto, e viceversa. È una dinamica, un movimento. Singolare/Plurale è pratiche, è indagini, è movimento».

Intervista a cura di Rossella Porcheddu

Teatri di Vetro Last Night

Con la serata di domenica 24 maggio il festival Teatri di Vetro chiude la sua terza edizione. Sotto la direzione artistica e organizzativa di Triangolo Scaleno Teatro, per nove giorni si sono alternate varie forme d’arte: dal teatro al cinema, dalla danza alla video-installazione, dalla performance alla mostra. Lunga è la lista degli artisti e dei gruppi partecipanti, tutti o quasi appartenenti alla nuova generazione della scena contemporanea indipendente. È stata per tutti l’occasione di dare voce e di far vedere le innovazioni e le sperimentazioni delle pratiche artistiche. Come tutte le novità hanno bisogno di tempo per essere assimilate e se necessario rielaborate, ripensate, corrette, ampliate. Ma Teatri di Vetro vuole sopratutto essere il luogo, lo spazio da dove queste novità compiono i primi passi.

cristiani

L’ultima sera ha visto protagonisti: Alessandra Cristiani in Oro e Rosso, Giano + gramigna_ct in Betrayal Trauma e Giuseppe Provinzano in GiOtto.

Il primo è un esperimento di danza forsepoco riuscito. La danzatrice Alessandra Cristiani, immersa in un’atmosfera composta da luci fredde e accompagnata da una musica stridente, spesso fastidiosa, si agita sul palco come fosse presa da convulsioni. Il suo corpo androgino, muscoloso, scultoreo, si presenta al pubblico prima nudo, poi con un esile abitino color carne, poi ancora nudo. Alterna movimenti lenti e calibrati ad altri animaleschi, spasmodici, istintuali. Voleva essere un tentativo di dare visione ai luoghi interiori, intimi, privati (almeno così segnala la scheda di presentazione dello spettacolo). In realtà la nudità mostrata fin dall’inizio brucia subito l’eventuale possibilità di poter scoprire qualcosa di più di questa ballerina-protagonista. Tanto che quando si veste attira di più l’attenzione del pubblico. Alla fine dei quaranta minuti un timido applauso rivela una platea stanca di vedere le contorsioni poco convincenti di questo perfetto corpo femminile.

Con Giano + gramigna_ct in Betrayal Trauma si scopre lo spazio del lotto n.9, uno dei tanti luoghi all’aperto occupati per l’occasione da Teatri di Vetro. Un cortile molto ampio si apre al centro di un gruppo di palazzi alti nelle vicinanze del Teatro Palladium. La performance vede protagonisti due gruppi composti ognuno da quattro attori: uno tutto al maschile, l’altro tutto al femminile. Una registrazione in sottofondo rivela le identità di quegli uomini che, come modelli alla ricerca di scatti fotografici, si muovono lentamente sul perimetro del cortile fermandosi spesso in pose plastiche. Sono Cassio, Bruto e Cesare (del quarto non si precisa l’identità). Le loro parole raccontano la preparazione di quel complotto che porterà all’uccisione di Cesare. Le quattro attrici, intanto, posizionate agli angoli di un quadrato centrale, sono illuminate di rosso e anche loro si muovono lentamente in modo quasi impercettibile. Danzano la percezione della fine del grande Augusto. Una di loro porta sul petto il segno di quella che sarà la ferita mortale di Cesare, accorgimento che rende però il tutto un po’ scontato. Eccetto alcuni particolari, risulta una performance ben costruita: forte la contrapposizione tra i gruppi, impegnativa la volontà di voler rendere visibile attraverso i corpi femminili l’avvicinarsi di una morte annunciata.

È con Giuseppe Provinzano in GiOtto si conclude questa serata. Presenta la cronaca dei fatti del G8 di Genova del 2001, ma la narrazione viene scandita secondo le scansioni della tragedia greca: c’è un prologo, due episodi e un epilogo. È una tragedia moderna e i personaggi che in essa si contrappongono sono il giovane black block, e l’altrettanto giovane carabiniere del servizio d’ordine della ormai famosa zona rossa, la zona invalicabile (di cui metto per dovere di cronaca anche i loro nomi, Carlo Giuliani e Mario Placanica). Una drammaturgia ben costruita, piena di contenuti importanti ma forse troppo per il giovane attore Provinzano. Difficile per lui sdoppiarsi nelle due personalità in contrapposizione, difficile mantenere il ritmo incalzante delle battute per il tempo totale di un’ora e mezza di spettacolo. Probabilmente l’ora tarda e la stanchezza della lunga serata si fanno sentire sia per l’attore che per lo spettatore ormai quasi assopito nella poltrona di platea. Ci penserà un’improvvisa musica da discoteca e una maschera del Silvio nazionale a risvegliare gli animi. Così, con la ormai scontata rappresentazione di un potere fantoccio si chiude questa terza edizione di Teatri di Vetro.

Cala il sipario sulla scena indipendente, ora bisogna solo aspettare nuovi fermenti, nuove pulsioni per rianimare un panorama teatrale che appare troppo spesso sepolto sotto un grande strato di polvere.

Valentina Piscitelli

“Voilà” Schino ai Teatri di Vetro

Recensione di Voilà – regia di Vincenzo Schino

schino

La sala del Teatro Palladium è piena per la quarta serata del festival Teatri di Vetro. Sul palco sta per prendere vita l’ultimo spettacolo interamente curato e diretto da Vincenzo Schino dal titolo Voilà. Un piccolo teatrino per burattini viene distrutto e nel sipario si crea un grande foro che permette allo sguardo di spiare uno spazio angusto, totalmente illuminato di un rosso cupo. Un luogo in cui si alterneranno, come una sfilata carnevalesca dai tratti inquietanti, figure in maschera molto suggestive. La prima è interamente vestita di bianco, rievoca il Pulcinella della Commedia dell’Arte, ma qui anche la sua maschera è bianca. Non parla, a tratti produce versi senza senso e alzando le mani al cielo, in un Voilà cade di schiena sulla sua gobba. Dopo di lui anche tutte le altre maschere che si alterneranno sulla scena non faranno altro che camminare o compiere strane acrobazie circensi, per poi cadere e ancora rialzarsi e ricominciare.

L’idea prende spunto da un’intervista di Carmelo Bene in cui parla di Buster Keaton e immagina una terra sferica e unta di sapone in cui si scivolacontinuamente. Talvolta ci si rialza ma poi in un ‘voilà’ si ricomincia a cadere. Così cade l’uomo con la faccia di scimmia, cade la ragazza-bambola dalla sua grande sedia di legno, cade lo strano personaggio vestito di nero stile Nightmare Before Christmas di Tim Burton. Personaggi fantastici e dai volti perturbanti animano un ambiente capace di assumere di volta in volta le sembianze di un tendone da circo, di una soffitta dove i vecchi giocattoli prendono vita o l’interno di una chiesa sconsacrata, fatta a pezzi dal tempo, dove cadono calcinacci dal soffitto.È ancora più difficile mantenersi in equilibrio. Si continua a cadere.

Uno spettacolo che lascia spazio a varie interpretazioni ma che forse non vuole minimamente essere interpretato. Grande la cura per i particolari che caratterizzano le maschere. L’ambiente è composto da un unico grande tendone rosso animato da ben studiati giochi di luce e rifrazioni. Lo spettatore esce dalla sala spiazzato e sconcertato, tentando di rimettere insieme i pezzi di una storia senza inizio e senza fine, di una non-storia. A tratti un incubo infantile dove quelle facce di bambole che alla luce del giorno sono familiari, al buio diventano sconosciute e inquietanti.

Visto al Teatro Palladium, Teatri di Vetro

Valentina Piscitelli

Teatri di Vetro. Seconda giornata

Recensione di Teatri di Vetro, Roma.

Pharmakos di Semivolanti

Pharmakos della compagnia Città di Elba

Il secondo giorno di fermenti artistici per il festival Teatri di Vetro vede protagonisti nuove realtà della scena contemporanea, a cominciare dalla compagnia Semivolanti che ha portato in Piazza Bartolomeo Romano il  Pulmino Fiat Theatre: un teatro in miniatura in cui vengono realizzate brevi scene, della durata massima di cinque minuti, per un gruppo molto ristretto di spettatori, che può variare a seconda dello spazio lasciato libero dalla performance all’interno dell’abitacolo. Il pubblico è incuriosito dalla novità, dal voler vivere unesperienza singolare e intima con gli attori che si alternano nel pulmino. Non so in quanti siano riusciti a soddisfare a pieno la propria curiosità, perché realizzare brevi scene spesso richiede una precisione e un’attenzione per i particolari maggiore rispetto a quella che si ha nella realizzazione di spettacoli di lunga durata.

Dal pulmino alla platea del Palladium la distanza è breve.  Stasera la compagnia Città di Elba mette in scena Pharmakos. Una struttura di plastica trasparente ingabbia una giovane donna sdraiata su un lettino ospedaliero, immobilizzata con tubi che ricordano quelli delle flebo. Uno spettacolo che parla per immagini forti, facendo del linguaggio del corpo il protagonista indiscusso. Un fisico esile di donna che vive in uno stato di malattia, di dipendenza da farmaco, di rapporto ossessivo con la propria immagine riflessa. Indossando un vestito bianco candido interpretauna giovane sposa, ma anche l’abito diventa una costrizione. Il ruolo di sposa e di madre vengono rifiutati. La donna si colpisce ripetutamente l’addome nel tentativo brutale e doloroso di provocarsi un aborto. Il suo vestito si colora di rosso sangue e il feto ha le sembianze di un volatile che viene violentemente spennato, accoltellato e bruciato dalla donna. Le scene si susseguono creando un’atmosfera rituale. Un rito solitario, incondivisibile le cui tracce vengono buttate via e il cerchio si chiude tornando alla scena iniziale. Uno spettacolo affidato interamente alla centralità del corpo e ai quadri che attorno a questo si compongono. Un uso della parola quasi del tutto assente, che quando interviene spezza e svalorizza ciò che il corpo da solo ha comunicato. Cosa resta di tutto ciò allo spettatore? Forse la sensazione di aver assistito a qualcosa di già visto, di già vissuto. Molto teatro degli Anni ’90 non ha fatto altro che mettere in scena il corpo e sviscerarlo, puntando all’aggressione del pubblico e allo shock. La cruda rappresentazione della malattia e della follia hanno riempito i palchi per troppo tempo,  non sarebbe forse oggi più innovativo tornare a riflettere sul senso e sul significato, sul messaggio?

beltrami_giaradei

Beltrai e Girardei in Cabaret Godot

Un lavoro diametralmente opposto al precedente lo portano in scena Ettore Giuradei e Michele Beltrami con Cabaret Godot. Una coppia, che ricorda quella di Didi e Gogo di Aspettando Godot, che vive nella perenne condizione di attesa, rappresentando l’insensatezza della vita dell’uomo, la sua incapacità di comunicare. Giuradei e Beltrami sanno bene cos’è la comunicazione e come usarla in presenza di un pubblico eterogeneo. Un umorismo che si costruisce attraverso lotte verbali, a suon di sillabe e parole. Vengono alla mente Petrolini che “ti burla in ton garbato” e anche  Troisi che sui fraintendimenti ha puntato spesso per il suo umorismo. Uno spettacolo piacevole, in cui i due attori risultano talmente padroni della situazione da riuscire a dare spazio all’improvvisazione.

Questa seconda serata si è conclusa con Interno Abbado della compagnia Itermini, interpretato da Giandomenico Cupaiolo. Siamo a Foggia, un organetto suona musiche popolari, un uomo vestito da donna racconta una storia coniugale dai risvolti misteriosi. Lei si chiama Rosa, rappresenta lo stereotipo della donna del sud, ossessionata dalla vita di provincia, da ciò che la gente può pensare di lei. Sente su di sé gli sguardi opprimenti dei parenti, anche di quelli morti.

I termini

Giandomenico Cupaiolo in Interno Abbado

Nella sua vita da casalinga i bei ricordi sono tutti legati ai momenti passati col marito Carlo, sparito da più di un anno e che scopre essere ancora vivo ma nascosto sotto mentite spoglie. La struttura del monologo ha come modello la scena finale di Psycho di A. Hitchcock in cui Norman Bates assume le sembianze dell’adorata madre. Alla fine si scopre che in realtà Rosa è morta, uccisa da Carlo che ha preso fisicamente il suo posto, indossando i suoi abiti e i suoi gioielli. Il delitto è il risultato di un matrimonio opprimente, in cui Carlo si sentiva in gabbia. Solo l’omicidio poteva cambiare la situazione. Uno spettacolo dalla regia ben costruita e con Cupaiolo in una eccelle

nte prova d’attore. Un ritmo serrato tenuto vivo  soprattutto dal corpo e dalla voce dell’attore capace di tenere sempre alto l’orizzonte d’attesa e di catalizzare lo sguardo del pubblico sulla sua figura.

Valentina Piscitelli

 

I primi frammenti di vetro

Recensione di Teatri di Vetro, Roma.

Effetto larsen di

TUO/OUT di Matteo Lanfranchi

Ad aprire il festival Teatri di Vetro è la performance di e con Matteo Lanfranchi, produzione Effetto Larsen, dal titolo TUO/OUT. Il piazzale antistante al teatro Palladium accoglie il piccolo mondo di un uomo senza nome, che ha sempre vissuto chiuso nella sua stanza, tra quattro pareti invisibili ma claustrofobiche e dal perimetro limitato, disegnato con gessetti colorati sul pavimento. Uno spazio che spinge l’uomo a vivere della sua immaginazione,  animata a contatto con i pochi oggetti che lo circondano, alcuni dei quali appartenenti al passato infantile: un piccolo orsetto di peluche, una sediolina di legno per bambini, un mantello da supereroe. Si avverte immediatamente il trauma che provoca nel protagonista il ritrovarsi all’improvviso in uno spazio aperto. Forte il contrasto tra l’ambiente intimo in cui è abituato a vivere e l’angolo di città caotico e straniante. Nel suo correre da una parte all’altra della piazza si avverte la volontà di voler riempire di sé l’ambiente circostante ampliando all’estremo i suoi movimenti. Attraverso il suo incontro con il pubblico si realizza la difficoltà di un uomo abituato a fare i conti solo con se stesso, per cui la comunicazione con gli altri diventa un ostacolo. L’esperienza di quest’uomo senza nome rappresenta la tragedia contemporanea della solitudine dilagante, il singolo messo a contatto con lo sguardo della folla perde l’orientamento, si sente perso.

Frattale di Psicopompo Teatro
FRATTALE  di Psicopompo Teatro

Spostandoci all’interno del teatro, nel foyer ci accolgono Graziano Lella e Manuela Cherubini, Psicopompo Teatro, con un concerto per parole alla prima esecuzione dal vivo dal titolo FRATTALE 1.0. Il frattale è una forma geometrica che si ritrova in natura e che si ripete sempre con la sua stessa struttura  su scale diverse. Ciò significa che anche nella più piccola parte di un frattale è possibile ritrovarvi l’unità di partenza. Questa sperimentazione musicale punta, attraverso l’uso di musica testo e voce, a creare un’esperienza unica, come se si volesse dar vita ad un solo essere coeso. Il risultato appare però confusionario e a tratti poco accattivante: le parole, riprese da un testo di Julio Cortazar, si ripetono in echi a volte deformanti; la musica prodotta elettronicamente procura all’orecchio dello spettatore suggestioni molto diverse tra loro, oscillando fra suoni morbidi e altri stridenti al punto da creare fastidio. Anche lo spazio scelto non ha aiutato la riuscita del concerto che avrebbe richiesto un ambiente più raccolto, anche più buio, lontano da altre forme di distrazione, in modo tale da permettere allo spettatore di concentrarsi esclusivamente sull’ascolto.

Bugimirò di Alessanro Pintus
Bugimirò di Alessanro Pintus

Lo spettacolo centrale della serata si svolge sul palco del teatro Palladium. Bugimirò, sogno segreto di un tarlo, ideazione e danza di Alessandro Pintus. Dal buio in sala l’attenzione si focalizza sull’unico elemento scenografico dello spettacolo: un armadio in legno composto da un’anta dipinta con stampa giapponese, un paio di cassetti, uno specchio. Semplice e immobile nasconde in realtà qualcosa di vivo. Un tarlo mangia-legno lo abita e lo consuma. Attraverso la sua danza, Pintus mette in scena due punti di vista differenti. Da un lato quello dell’uomo che cerca con ogni mezzo di combattere lo sporco e le forme di vita che da esso si generano. Come un vero detective alla ricerca del colpevole segue le tracce di sporco create dal piccolo tarlo; le sue armi letali sono la scopa e l’aspirapolvere, con la mascherina protettiva sul viso elimina piccoli cumuli di polvere e segatura creatisi sotto l’armadio ad opera dell’intruso. Il suo obiettivo è creare un ambiente asettico; pulire ogni interstizio diventa attività ossessiva: necessità impellente di disinfettare, sterilizzare. Dall’altro punto di vista è messa in scena  la storia del tarlo/bruco che vive, cresce e trova nutrimento all’interno dell’armadio. La danza descrive le fasi della sua crescita, dal bozzolo costrittivo al momento del dispiegarsi delle grandi ali di farfalla. Scene in cui l’uso della video-art (ad opera di Simone Palma) riesce a creare grande effetto spettacolare e ad essere un vero supporto alle suggestioni della danza. La vita dell’appena nata farfalla finisce tra un tappeto di rose e lo scontro con una gabbietta elettrica che frigge gli insetti fastidiosi per l’uomo. Una storia semplice in cui si rivela il forte contrasto tra l’evoluzione poetica del piccolo insetto e l’atteggiamento estremo, tanto da diventare ridicolo, dell’uomo/aspirapolvere.

La prima serata di Teatri di Vetro si conclude con un’ultima performance, Lavori in corso, che vede protagonista Luisa Merloni nei panni di una presentatrice dalla comicità clownesca e un pò surreale. Si comporta come un personaggio fuori contesto, come se fosse capitata sulla scena per puro caso, interagisce col pubblico che partecipa divertito. Levandosi la maschera legge un brano di Artaud, e da  personaggio femminile stereotipato arriva ad assumere quasi una valenza di denuncia politico-sociale.

Uscendo dal teatro e svoltando l’angolo ecco sulla parete di un palazzo l’installazione video-sonora di Fabrizio Crisafulli, Polidoro dialogo tra un danzatore e un cespuglio. Una performance videoproiettata in cui l’autore stesso esegue per un lungo periodo movimenti accellerati e continui. In bianco e nero, ricorda il Chaplin di Tempi moderni con i suoi gesti ripetitivi, i ritmi disumani e spersonalizzanti, ma Crisafulli non lavora in fabbrica e le sue azioni senza inizio e senza fine sembrano piuttosto una sperimentazione futurista.

Valentina Piscitelli