We Folk! non è soltanto una pressione estetica, un riferimento a una linea, l’innesto di un trend. Certo a Fies ci sono la musica e i pretzel, i krampus, i cowboys, riti quasi sciamanici, più o meno magici e tutto il resto, ma come dice la direttrice Barbara Boninsegna (leggi l’intervista) «quello è soltanto un mezzo: il “folk” sta per “noi”, per noi popolo…». Così l’edizione 2012 di Drodesera, più che uno degli eventi da non perdere dell’estate dei festival, diventa un’occasione preziosa per andare a scoprire cosa si crea e come si lavora tutto l’anno a Fies, ex centrale idroelettrica incastonata fra montagne e laghi del Trentino da qualche anno riconvertita a spazio per l’arte contemporanea.
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Perché il folk – termine anglosassone che sta appunto per “popolazione”, “gente”, “persone” – che si ricerca da queste parti è legato piuttosto alla condizione esistenziale che ci troviamo a vivere oggi. Al festival di Dro avevano cominciato due anni fa a interrogarsi sulla crisi che domina questo post-capitalismo sempre più in affanno: l’edizione 2010, Thirtysomething, si dedicava alla condizione dei trentenni dei giorni nostri, mentre l’emblematico titolo della successiva – Caracatastrofe – tentava di riassettare i termini di quella crisi (certo economica e culturale, ma anche intima, individuale) verso orizzonti affettivi più morbidi. Quest’anno, dopo analisi e ragionamenti, indagini, pensieri, invece il festival si presenta piuttosto con un’azione vera e propria: “we folk!”, una reazione possibile alle difficoltà dell’arte ma anche della vita, un invito all’incontro fra percorsi diversi, per rivedere insieme le possibilità di intervento e di modificazione del reale.
Cosa tiene insieme la lucidità sfiancante di Folk-s, opera di Alessandro Sciarroni che a partire dai balli tradizionali sudtirolesi sfiora gli orizzonti cangianti della body art, e la ricerca di Motus, che al festival si presenta con un primo passaggio “spaccato in tre” e sperimenta tutti i margini, anche i più estremi, delle relazioni fra le persone e dei dispositivi di controllo? Cosa lega il primo approccio di Codice Ivan con il Requiem di Mozart al tagliente e raffinato attraversamento sul turismo di Mk, al Fassbinder degli Artefatti, che porta in scena il futuro ormai monumento, immaginato nel boom degli anni ‘60? Un passato non ancora assorbito – sia esso estetico, culturale, sociale – e la progettazione concreta di un futuro possibile, di strategie alternative per l’arte e per la vita, collassano nell’urgenza dell’interrogazione del presente che ci troviamo tutti a condividere; l’accento, ogni volta a suo modo sorprendente, è sulla necessità di ripartire, per disegnare quei nuovi orizzonti, proprio dalla sostanza della e delle comunità – è “popolo” il gruppo di infaticabili danzatori di Folk-s, le frange di femminismo sospese fra narrazione e teatro di figura nel nuovo lavoro di Marta Cuscunà, così come l’autorialità esplosa di Alterazioni Video o i giocatori degli street-game di Invisible Playground che per qualche giorno hanno popolato il centro di Dro.
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Lontano dalla vocazione politica delle stagioni hot della contestazione, ma anche dalla successiva contrazione intimista che dal boom degli anni ‘80, tutta luccicante, si era in parte traghettata a questo inizio millennio, in quest’epoca post-ideologica artisti e opere sembrano svincolarsi tanto dalla vocazione utopica (che spesso si è risolta nella creazione di realtà parallele, autonome e isolate) che dall’accettazione dello stato di crisi permanente. Ma non è un teatro che invoca la rivoluzione o si spinge a scuotere con forza le esistenze; piuttosto è una scena che intende prendere atto e farsi carico delle condizioni attuali per poi immaginarvi tracciati inediti, per ritornare a progettare altri modi di fare arte, di vivere e lavorare, per rivedere i termini intorno a cui possono coagularsi individui e comunità. Magari non riesce, magari i tentativi sono destinati a fallire, magari non c’è nessuno che ascolta – ma lo scarto, forse, si trova nella capacità di portare in scena l’urgenza di inventare strategie alternative in tutta la loro concretezza, di mostrare quanto la trasformazione sia una possibilità prossima, un’opzione a portata di mano, di corpo e di testa, reale quanto la crisi che ci circonda. Recuperando i fili del passato e della memoria – siano essi quelli della grande Storia o delle micro-vicende personali, dei tempi remoti o di quelli più prossimi – pare che gli artisti si ritrovino a concentrarsi sul reale, a proporre modificazioni concrete e dirette di quello che già esiste, che si condivide e attraversa ogni giorno.
Sedimentano così entrambe le linee, collettività e individuo, come polarità di una stessa tensione che sembra voler proporre nuove forme artistiche e modi di produzione, quando non addirittura di vita e relazione. I gruppi assomigliano a variopinte tribù, ognuna irriducibilmente differente dall’altra, ognuna con le proprie radici più o meno maestose e la propria strada battuta – ma tutte insieme presenti con una profonda volontà di incontro. La collettività che si forma e si rigenera ogni giorno a Centrale Fies (e non solo), multiforme e mutante, è forte delle specificità che mette in gioco, che si attraggono e si avvicinano, si contaminano e continuano a battere la propria pista in una dimensione di confronto e dialogo che potrebbe essere il segno profondo di questo luogo e di questo festival. E questa potenza potrebbe partire da qui, innervarsi su altre forze e incontrare idee ulteriori, per andare fuori a trovare quanto di “folk” è rimasto da intercettare, per – non tanto immaginare o sognare – continuare tracciare insieme nuovi piccoli segni di un altro modo di creare, vivere e lavorare.
Roberta Ferraresi
Contenuto pubblicato su Doppiozero.com
Le immagini sono di Alessandro Sala (B-Fies)






