elena bucci

Il Festival Focus Jelinek: una dolce bufera di parole e sguardi

Copertina del Catalogo del Festival Focus Jelinek con un'immagine di Claudio Parmiggiani

Copertina del Catalogo del Festival Focus Jelinek con un’immagine di Claudio Parmiggiani

Il Festival Focus Jelinek è in pieno svolgimento. Iniziato il 7 ottobre a Piacenza, terminerà il 15 marzo a Montescudo (RN) e coprirà un arco temporale di sei mesi, andando a disegnare un percorso in 13 città dell’Emilia Romagna – Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Castel Maggiore, San Lazzaro di Savena, Modena, Bologna, Casalecchio di Reno, Faenza, Forlì, Ravenna, Cesena, Rimini, Montescudo – e coinvolgendo una molteplicità di artisti, studiosi, critici e traduttori. Si tratta di una rete a maglie larghe, una serie di iniziative fitta e coerente, nata dalla mente e dall’operatività culturale della brillante Elena Di Gioia per esplorare l’opera del premio Nobel austriaco Elfriede Jelinek, autrice di romanzi, opere teatrali, sceneggiature. Si susseguono, toccando le varie tappe di questa mappa interattiva, spettacoli, progetti speciali in teatri, festival, biblioteche, scuole e università, proiezioni, letture e un convegno dal titolo happening jelinek che si è svolto il 3 dicembre negli spazi dei Laboratori DMS di Bologna.

“Io cerco di decostruire la realtà. Questa realtà io la faccio ogni volta per così dire a pezzi,
come se separassi a strappi le tende di un sipario,
per rabbia contro il testo che c’è dietro”
.
(Elfriede Jelinek in un’intervista di Renata  Caruzzi, Ein Gespräch mit Elfriede Jelinek,
realizzata per la Società Italiana delle Letterate (SIL), München, novembre 2005)

Scrivere per strappare, decostruire, smontare e rimontare, raccontare, affondare nelle storie e restituirne un’immagine sghemba, per, infine, mostrare i limiti dello strumento-testo, servirsene fino a sfinirlo, fino a farne emergere le incoerenze, a farlo esplodere dall’interno. Ma servirsene, sempre, per addentrarsi nella realtà, scarnificarla, nel tentativo, destinato al fallimento, di ordinarla, pettinarla.

“È talmente spettinata la realtà. Non c’è pettine che riesca a lisciarla.
I poeti vi passano e raccolgono disperatamente i suoi capelli in una pettinatura, dalla quale prontamente di notte vengono perseguitati. Nell’aspetto c’è qualcosa che non va”.

(Da In disparte, discorso pronunciato in occasione del conferimento del Nobel nel 2004)

Il FFJelinek, muovendo da un desiderio di indagine della scrittura dell’autrice nella sua vastità, non solo propone al pubblico una porzione consistente della sua opera, ma ha anche dei felici prolungamenti in alcune pubblicazioni e trasmissioni radiofoniche: Radio Zolfo, a febbraio, ospiterà artisti e studiosi in un dialogo sul corpus della Jelinek a cura di Altre Velocità; RadioEmiliaRomagna segue il festival con una serie di interviste; doppiozero accompagna tutto l’attraversamento con interventi a cadenza mensile, sotto la cura redazionale di Massimo Marino; è uscito per Titivillus FaustIn and Out, testo scritto dalla Jelinek nel 2011/12 e tradotto in italiano da Elisa Barboni e Marcello Soffritti; il secondo numero del 2015 della rivista “Prove di Drammaturgia” sarà curato da Elena Di Gioia e Claudio Longhi e sarà dedicato all’opera dell’autrice.

“[…] non riesco a lasciare il luogo in cui sono. Che importa. L’estraneità non è qui, sta là dove non è estranea, lo preferisce. Ha ragione. […]
The answer, my friend, is blowin’ in the wind. La risposta la sa il vento, e io la so. Il vento viene da tutt’altra parte. Io non vengo, perché non vado nemmeno”.
(Elfriede Jelinek, Ritornare! In Italia!)

Quest’ultima citazione è tratta da Ritornare! In Italia!, un testo scritto dalla Jelinek appositamente per il Focus e presentato in anteprima durante lo stesso. L’autrice austriaca ringrazia per l’attenzione dedicatale, annuncia che non sarà presente a causa della sua agorafobia – che da tempo le impedisce di muoversi dalla sua abitazione -, parla di luoghi e, indirettamente, traccia i confini di uno spazio della mente: l’Italia nei suoi ricordi. Il FFJelinek è, invece, un luogo reale che, costruendosi, ridefinisce continuamente le sue latitudini e l’idea stessa di confine: tra le città, le opere, gli artisti, gli oggetti, le persone.

Un esempio lampante di questa forma di ridefinizione è stato l’happening jelinek che si è tenuto a Bologna il 3 dicembre: “ombelico progettuale” del Festival, il convegno è stato una corsa di fondo nell’opera della scrittrice che ha visto la partecipazione degli artisti coinvolti e di alcuni autorevoli studiosi e traduttori. Tra una lettura, un momento performativo – con Anna Amadori, Ateliersi, Elena Bucci, Fanny & Alexander, Chiara Guidi, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Accademia degli Artefatti, Teatri di Vita, Teatrino Giullare -, una riflessione sul teatro dell’autrice – Luigi Reitani, Silke Felber -, sulla sua scrittura – Gerardo Guccini -,  o sulle strategie adottate per tradurla – Elisa Barboni, Marcello Soffritti, Rita Svandrlik -, la giornata è stata abitata da una dolcissima bufera di parole che ha guidato il pubblico presente nell’immaginario della Jelinek, fornendogli alcune chiavi d’accesso per esplorare il suo corpus, le sue fonti, la sua poetica.
In occasione dell’happening sono stati presentati l’esito del laboratorio tenuto da Claudio Longhi con gli studenti dell’università di Bologna su uno degli ultimi testi della drammaturga, Die Schutzbefohlenen – I rifugiati coatti (traduzione di Luigi Reitani) e il Quaderno Jelinek.

I rifugiati coatti (foto Sara Colciago)

Die Schutzbefohlenen – I rifugiati coatti (foto di Sara Colciago)

Il primo ha visto la partecipazione di circa sessanta studenti che, guidati dal regista, in cinque giorni, si sono addentrati nell’opera, fuoriuscendone con una mise en espace in cui lingue, culture, caratteri e musiche si sono felicemente sovrapposti in uno spettacolo di massa polifonico e corale, non privo di momenti di grande pathos, aggressivo, riflessivo e autosufficiente. Il testo indaga la condizione del clandestino, travestendo le Supplici di Eschilo e filtrando la tragedia attraverso il concetto attualissimo di confine e il caso di cronaca della strage di Lampedusa. Un’orda di studenti-attori ha assalito il pubblico da destra e sinistra, è apparsa in alto, è entrata dal fondo, si è raggruppata in agglomerati monologanti o in dialogo, ha interagito con una suonatrice di fisarmonica sulla destra. Poliglotta, l’orda ha restituito un’immagine volutamente non unilaterale dell’emigrante alla ricerca di una forma di salvezza e, forse, salvazione.

Copertina del Quaderno Jelinek a cura di Altre Velocità

Copertina del Quaderno Jelinek a cura di Altre Velocità (grafica Brochendors Brothers)

Il Quaderno Jelinek – consultabile sul sito del Festival e su quello di Altre Velocità che lo ha magistralmente curato – si presenta come un ulteriore prolungamento del FFJelinek. Viene introdotto da un saggio di Luigi Reitani (contrazione dell’introduzione al volume Sport. Una pièce – Fa niente. Una piccola trilogia della morte, Ubulibri, 2005) e raccoglie una serie di interviste agli artisti coinvolti nella rassegna e alla sua curatrice, ognuno in dialogo con un critico o studioso – Elena Di Gioia / Serena Terranova; Claudio Longhi / Nicoletta Lupia; Andrea Adriatico / Lorenzo Donati; Fabrizio Arcuri / Lucia Amara; Enrico Deotti / Rossella Menna; Chiara Guidi / Alessandra Cava; Chiara Lagani / Alex Giuzio; Angela Malfitano / Francesco Brusa; Angela Malfitano e Nicola Bonazzi / Lucia Cominoli; Fiorenza Menni / Piersandra Di Matteo; Elfriede Jelinek / Anna Bandettini. “Come si legge quest’autrice, oggi, pensando a una sua messa in scena? Come ci si districa tra intrecci di fonti e colate di caratteri, come ci si orienta tra citazioni di altri autori e crepe visionarie, tra strumenti filosofici e cronaca nera? Ecco che ogni dialogo qui raccolto prova a fornire una visione specifica”. Il Quaderno risponde a queste questioni preliminari e si presenta come uno strumento bifronte: da un lato, indaga l’opera dell’autrice servendosi degli autorevoli punti di vista degli artisti che si sono avvicinati ai suoi testi; dall’altro lato, restituisce un quadro del Festival stesso, delle riflessioni alla sua origine, della sua evoluzione nel corso del tempo, delle sue multiformi declinazioni. Leggendo il Quaderno, lineare, preciso, strutturato con intelligenza, si viene, ancora una volta, attraversati da quella dolce bufera di parole protagonista dell’happening, come dell’esito del laboratorio, come del progetto tutto.
“Al teatro voglio strappare la vita”
dice la Jelinek mentre si offre al paradosso di voler creare qualcosa di non-vivo lasciando però che si prolunghi in progettualità spettacolari e non solo necessariamente vitalissime. Il FFJelinek è un montaggio di schegge, ha esordito Elena Di Gioia introducendo l’happening, esso restituisce un collage di visioni, di sprofondamenti e di riemersioni in un’opera compatta e, finora, poco conosciuta in Italia, dura e difficile, che non lascia scampo e che sfida il lettore, il regista, l’attore, lo studioso in un corpo a corpo fino all’ultimo respiro.

Nicoletta Lupia

Teatri, biografia, teatro. Da Contemporanea festival

L'immagine dell'edizione 2014 di Contemporanea

L’immagine dell’edizione 2014 di Contemporanea

Fine estate, autunno, giornate ancora lunghe ma tiepide. È il tempo del festival Contemporanea, che, organizzato dal Metastasio – Teatro Stabile della Toscana e diretto da Edoardo Donatini, si svolge ogni anno a Prato in questo periodo, quasi posizionato a chiudere il fermento intenso dell’estate dei festival e ad aprire gli orizzonti sulla nuova stagione in arrivo. Una condizione di soglia – sostenuta anche dalle frequenti aperture internazionali, dalla particolare attenzione riservata contestualmente ai maestri e alle esperienze più giovani, dalla ferma intenzione di presentare sia spettacoli compiuti che lavori ancora in progress –, che permette spesso di fare i conti con il passato recente della scena e con le progettualità che in questo momento vi si stanno modellando, sperimentando, verificando.
L’esito di consueto è quello multiforme e vibrante di un teatro affrontato nella sua irriducibile pluralità: dove si affiancano proposte performative o sperimentali a forme più tradizionali, dove si privilegia la ricerca senza però negare il piacere dello spettacolo compiuto; dove si possono incontrare vari tipi di teatri, linguaggi, approcci, dalla nuova danza al monologo, da pièce a dir poco post-drammatiche a esperienze urbane, partecipative e interattive; in cui ci sono artisti affermati e giovani compagnie, autori “di parola”, danz’autori, performer, musicisti e artisti visivi; è un festival che, infine, offre l’opportunità preziosa di toccare con mano diversi stadi di lavorazione del fatto spettacolare: da prime esposizioni in forma di studio, che consentono agli artisti di verificare le loro intuizioni insieme al pubblico, a montaggi di sperimentazioni diverse, a strutture più consolidate in fase di ultimazione, fino ovviamente a opere compiute e finite in senso stretto.

Ogni anno, l’opportunità è in questo caso (come in altre fortunate situazioni simili) di rintracciare qualche pressione diffusa nei teatri del nostro tempo, di intravvedere qualche filo rosso che attraversa le diverse proposte in programma, di individuare insomma qualche nodo intorno a cui sembra (il condizionale è d’obbligo) coagularsi al momento l’attenzione di diversi artisti della scena. E, di qui, verificarla con quel che accade nei nostri teatri, festival, palcoscenici.

Massimiliano Civica "Letture dal quaderno rosso" (foto di Ilaria Costanzo)

Massimiliano Civica “Letture dal quaderno rosso” (foto di Ilaria Costanzo)

Un filo comune che attraversa generazioni, linguaggi, stadi di lavorazione può essere quello stesso del teatrodel rapporto fra il processo di lavoro, la vita degli attori e degli autori e il prodotto che viene presentato al pubblico.
Si potrebbe parlare dell’apporto “biografico” che si riversa nel fare e fatto spettacolare; se con questo termine si intende però quel complesso di interazioni che la vita, professionale e personale, degli artisti intrattiene con l’opera – standovi a fianco, ma anche prima e dopo, e durante, anche proprio lì, nel momento in cui andiamo a fruire dello spettacolo. La “micro-società” degli attori (la definizione è di Ferdinando Taviani e Claudio Meldolesi), la sua irriducibile e preziosa separatezza rispetto al mondo che la circonda, i suoi ritmi e modi particolari, così estranei e irriconoscibili da parte delle persone “comuni”, rischia di uscire un po’ allo scoperto e arrivare a sfiorare il pubblico, il mondo, la realtà. Così, lo spettacolo si può considerare la punta di un iceberg che si sviluppa ben più in profondità, una soglia su una dimensione altra a cui lo spettatore può brevemente affacciarsi; e può convertirsi in un momento di incontro autentico fra il teatro e il suo pubblico, ben al di là della semplice e consueta giustapposizione che li vede confrontarsi fra scena e platea, perché consentirebbe alla vita del teatro di fluire (certo in parte e in modi diversi), attraverso lo spettacolo, nella realtà.
Quello della biografia, considerata in questo senso ampio e lato, si può afferrare come un filo tesissimo che attraversa diversi fra gli spettacoli in programma in questa edizione del festival Contemporanea; e non solo loro, a guardare a volo d’uccello le ultime produzioni della nostra scena. Così, l’attraversamento (pure parziale) del festival diventa anche quest’anno occasione di stimolo per riflettere sui modi, le tendenze, le sperimentazioni in atto più ampiamente nei teatri italiani di questi anni.

La “terza apparizione” del Jesus  di Babilonia Teatri (al debutto a Modena per il festival Vie) potrebbe sembrare una sorta di trailer dello spettacolo che fra poco sarà presentato in forma completa: è composto di alcune scene di temperatura, impianto e impatto molto differenti mostrate in sequenza – un bimbo che corre in scena sulle note di Strauss (e di Kubrick); la famiglia Castellani al completo, Valeria, Enrico e i loro due figli; un doppio monologo frontale, detto da Enrico Castellani e Valeria Raimondi; un concitato frammento di basket; un gioco con grandi lettere luminose che compongono il nome di Gesù.

"Jesus" di Babilonia Teatri (foto di Marco Caselli Nirmal)

“Jesus” di Babilonia Teatri (foto di Marco Caselli Nirmal)

Vedremo come questi materiali e approcci si svilupperanno nello spettacolo finito (per il momento, appunto, si presentano nella frammentaria forma del “trailer”, che se pure possa lasciar intravvedere qualche ipotesi di montaggio, senza dubbio lascia in secondo piano i fili concettuali e formali che andranno a sorreggere l’intera struttura del lavoro). Nel frattempo, si può annotare un dato interessante a margine di questa “terza apparizione”, che fra l’altro potrebbe disegnare uno scarto rispetto al percorso artistico della compagnia: buona parte del contenuto del doppio monologo che vede affiancati i due performer frontali al pubblico comprende elementi estratti dal processo di ricerca per la realizzazione dello spettacolo (cosa piuttosto atipica nel lavoro dei Babilonia). Si parla dell’approccio: quando hanno cominciato a lavorare su Gesù, cominciano a vederlo dappertutto; quando si sparge la voce del loro nuovo progetto, tutti hanno qualcosa da dire a riguardo (un libro da consigliare, un film da vedere, della musica da sentire…).
Il testo, in certi punti, è un montaggio esplicito di brani di canzoni, citazioni di libri e film, elenchi di titoli più o meno famosi, da Madonna a Papa Francesco a Jesus Christ Superstar; come sempre, più e oltre che l’esplorazione di un oggetto in sé, il lavoro si presenta come un’indagine caleidoscopica delle costruzioni mediatiche e delle narrazioni che vi si sono costruite intorno, che da lì si irradiano per innervarsi in profondità nella nostra cultura. Al solito, l’esito assume le forme di un autoritratto vibrante, che comprende tanto noi spettatori che i performer (accomunati ad esempio dalla trasversale cultura cattolica che ci viene imposta fin dall’infanzia con il catechismo, le feste, eccetera).
Piano piano i Babilonia hanno scoperto che «la storia dell’uomo più famoso del mondo era di tutti» e in scena dichiarano i loro “debiti”: dando vita come di consueto a un’esplorazione dell’immaginario (da quello religioso a quello pop) che si è creato nei secoli intorno alla figura del Cristo, ma allo stesso tempo, contestualizzando questi frammenti all’interno del processo di ricerca, esprimono il senso e lo spessore di una autorialità collettiva (certo già presente in altri loro spettacoli, ma solo intuibile, mentre qui è sottolineata apertamente).
Dopodiché, il processo di lavoro – raccontano – è congestionato dai troppi “consigli” esterni. Serve uno scarto, una “tabula rasa” la definiscono. E così una sera appare loro Gesù; davvero; in persona (insieme a una pioggia di rane parlanti). Il che dona un inedito tocco surreale all’approccio dei Babilonia, che sembrano qui mantenere il doppio filo della finzione e del realismo: «se parli di lui, parli con lui», dicono, ed ecco che il protagonista (senza però voler comparire nei crediti in locandina) finisce col collaborare attivamente alla creazione dello spettacolo.
E la componente “biografica” entra anche quando i due parlano di Ettore, il loro figlio maggiore, che a soli quattro anni, interrogandosi sul rapporto fra il Gesù bambino del Presepe e quello del crocifisso, arriva a chiedere della vita e della morte, della finitudine e del suo senso. Certo, anche la pizzeria di made in italy esisteva davvero, ma che differenza faceva se fosse stata reale o immaginaria, una pizzeria vera o una qualunque, inventata a partire da una provincia qualsiasi? Qui, la componente reale si innerva esplicitamente nella dimensione fictional dello spettacolo, è sottolineata e dichiarata, dando vita a un intreccio di dimensione rappresentativa e presentativa già presente in latenza nel lavoro dei Babilonia ma mai così rivendicato apertamente.
Lo spettacolo è anche il processo di ricerca, creazione, lavoro compiuto per realizzarlo. Sembra una tautologia. Ma in questa “terza apparizione” di Jesus questo elemento va a ergersi fra i perni concettuali della messinscena; è campo tematico e strumento linguistico, contenuto e forma; è esplicitamente esposto, offerto, esibito al pubblico che, forse, attraverso queste informazioni, gli aneddoti, le spiegazioni e i racconti può fruire diversamente dello spettacolo, si potrebbe dire condividendolo più in profondità.

"La recita dell'attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto" con Claudio Morganti e Elena Bucci (foto di Ilaria Costanzo)

“La recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto” con Claudio Morganti e Elena Bucci (foto di Ilaria Costanzo)

Qualcosa di simile si può dire per La recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto, testo di Gianni Celati letto (e performato) al Magnolfi da Claudio Morganti (Vecchiatto) e da Elena Bucci (sua moglie Carlotta). E non solo perché attraverso la vicenda di Vecchiatto –  un tempo leggenda d’oltreoceano e finito abbandonato da teatri e impresari a recitare in una sala vuota di provincia – è possibile afferrare tanto di quel mondo separato e strano che è quello degli attori, delle loro vite professionali, artistiche, intime, delle interazioni che intercorrono fra esse; le prove, il debutto, il lavoro sul testo, il lavoro dell’attore, in scena e fuori; le relazioni con teatri, impresari, colleghi e con gli spettatori; la quotidianità fatta di fatiche e gli orizzonti vividi di ambizioni, la foga delle tournée e l’insofferenza dell’esilio in provincia, il successo e l’amarezza, la gioia di stare in scena e la rassegnazione di fare un mestiere che ormai interessa a pochi. I teatri di oggi e di ieri, i loro artisti e attori, il loro pubblico sono destinati a incontrarsi nelle parole dolci e amare di Vecchiatto e della moglie.
E la dimensione (in senso lato) “biografica” non rientra in questo lavoro neanche soltanto perché, facendo un passo più oltre, nelle invettive di Vecchiatto contro il teatro che l’ha emarginato, abbandonato, escluso passa in filigrana un attacco ai tempi che cambiano, maciullando tutto a gran velocità negli ingranaggi di un (presunto) progresso che omologa ogni cosa, costringendo l’umano a ritmi folli e frantumandone la dimensione sociale (riassunto ad esempio nell’aneddoto in cui l’attore si scaglia a prendere a ombrellate le automobili).

"Crash!" di Katia Giuliani (foto di Ilaria Costanzo)

“Crash!” di Katia Giuliani (foto di Ilaria Costanzo)

A guardare bene, un altro nodo di interesse in merito, si trova nel lavoro stesso di Claudio Morganti. Ancora una volta, invita il pubblico (poche persone, circa una trentina) a un teatro particolare, intimo e da camera, allestito (come il Mit Lenz dello scorso anno) nei sotterranei del Magnolfi: accomodati intorno ai tavolini, con un po’ di frutta e un bicchiere di vino, questi spettatori danno il senso di una piccola comunità che si riunisce intorno al fatto teatrale, che ascolta insieme un teatro che è più del teatro fatto di spettacoli, proscenio, poltroncine imbottite e sipari; è forse un teatro che unisce, che si rifrange in pochi sguardi, in cui le parole impregnano i soffitti bassi e l’oscurità, in cui è possibile scambiare un’occhiata o un cenno col proprio vicino e rendersi conto che quando si è spettatori non si è soli (come capita magari di pensare nella fruizione consueta di uno spettacolo) ma si è pubblico, al singolare e al plurale, in quanto parte di una (seppure momentanea) comunità.

Questi sono soltanto due esempi (tracciati grazie al festival Contemporanea) che possono rappresentare quanto e come si possa riversare una dimensione “biografica” (sempre nell’accezione espansa che abbiamo disegnato) nei teatri del nostro tempo. Aprendo lo sguardo al resto del programma di Contemporanea, si potrebbero richiamare altri lavori e, con essi, arricchire il discorso di ulteriori prospettive e direzioni: dal doppio performativo prepotentemente in gioco nei monologhi shakespeariani di Tim Crouch portati in scena da Accademia degli Artefatti (Io Calibano Io, Cinna), che richiedono apertamente la partecipazione del pubblico e tanto investono sul quell'”Io” di fronte al titolo, che rivendica un punto di vista personale e minore dando vita a una sorta di spinoff dalle grandi opere del Bardo; a Crash! di Katia Giuliani, in cui il pubblico è invitato catarticamente a distruggere oggetti; fino alle Letture dal quaderno rosso di Massimiliano Civica, in cui l’artista estrae frammenti dai propri appunti, in cui ha annotato citazioni e riflessioni e di qui parte per costruire un discorso o, meglio, un personalissimo viaggio all’interno della storia del teatro.

Accademia degli Artefatti "Io, Cinna" (foto di Ilaria Costanzo)

Accademia degli Artefatti “Io, Cinna” (foto di Ilaria Costanzo)

Non sono gli unici lavori a muoversi in queste direzioni, sia che si guardi a quelli che si concentrano sui rapporti fra processo e prodotto spettacolari, che invece ad altri che lavorano sui rapporti fra il teatro e il mondo che lo produce e fruisce; che si guardi alle modalità di coinvolgimento del pubblico o all’apporto strettamente biografico dell’artista.
Qualche tempo fa, Lorenzo Donati, intervenendo in merito ai rapporti fra teatri del nostro tempo e autobiografia, scriveva che queste tendenze si potevano forse leggere come «segno probabilmente di un più generale bisogno di fare i conti con il presente» (il testo è compreso nel volume curato da Stefano Casi ed Elena Di Gioia Passione e ideologia). In effetti, a ripensare alla scelta di Morganti di portare in scena la lettura della vicenda di Attilio Vecchiatto firmata da Celati, a quel teatrino di provincia e a quello invece sotterraneo e intimo ricavato al Magnolfi, alle invettive contro il teatro e contro la realtà; a ripensare a come Babilonia Teatri riversa la propria ricerca nel prodotto-spettacolo; è sì possibile provare a chiudere il cerchio, tirando il lungo filo che abbiamo dipanato in questo discorso, e, alla fine, intravvedere in questi diversi tipi di esperienze performative delle forme di teatro che provano irriducibilmente a fare i conti col proprio tempo (teatrale e non).

Roberta Ferraresi